Brrrrrrrrexit

Due interventi (di Marco D’Eramo e di Franco Astengo) sul voto inglese

Un plebiscito per la Brexit. Perché ha vinto il Trump britannico

di Marco d’Eramo (*)

Se nel referendum del 2016 i filo-europei avevano perso per relativamente pochi voti, la schiacciante vittoria di Boris Johnson nel voto di martedì mostra che un secondo referendum avrebbe dato una vittoria molto più netta alla Brexit. Tutti coloro che reclamavano un secondo referendum si sbagliavano di grosso e avevano perso contatto con la realtà sociale britannica. Perché il voto britannico è stato soprattutto un plebiscito per la Brexit. Dovremmo capire perché nei tre anni trascorsi dal referendum, l’appoggio popolare per la Brexit è cresciuto invece di diminuire. E perché il sentimento anti-europeo è così profondo ed è stato così sottovalutato.
È infatti il fattore Brexit a spiegare il crollo dei laburisti: Jeremy Corbyn sapeva bene che il proprio elettorato era spaccato in due sulla questione. Da un lato l’intellighentsia genericamente progressista e metropolitana (quella che Thomas Picketty chiamava “i bramini”) decisa a restare in Europa. Dall’altro la sua base proletaria (non necessariamente operaia) decisamente a favore della Brexit. È per questo che Corbyn sulla Brexit ha fatto per quattro anni il pesce in barile e ha cercato, senza riuscirvi, di spostare il terreno elettorale dalla Brexit all’economia, alla sanità, alla rinazionalizzazione dei servizi: sapeva che qualunque posizione netta avesse preso sull’Europa, sarebbe stato punito. Ma anche non aver preso posizione con chiarezza è stato sanzionato dagli elettori. Non a caso le circoscrizioni rosse in cui la sconfitta del Labour è stata più sanguinosa (Blyth Valley, Wrexham, Great Grimsby…) sono quelle che nel 2015 avevano votato in massa per la Brexit. Il resto l’ha fatto il sistema uninominale inglese: con il 45% dei voti, i Tories hanno conquistato il 56% dei seggi.
La seconda lezione è che martedì a vincere è stato il Trump britannico, o per lo meno, quanto di più simile a Donald Trump abbia espresso la politica d’oltre Manica, e non solo per l’istrionismo, che li rende assai simili (a parte l’importanza spropositata che per i due ha la capigliatura, vera o posticcia che sia). Il trumpismo di Boris Johnson non sta tanto nelle sue performances da guitto, quanto nel blocco sociale, nella constituency a cui si è rivolto. Johnson si è appellato alla “Gran Bretagna periferica”, per parodiare il titolo di un libro di Christophe Guilluy (2014), La France périphérique, in cui l’autore sostiene che lo spartiacque sociale più netto è quello che divide i residenti (indigeni o immigrati che siano) nelle aree metropolitane, e che fruiscono dei vantaggi della mondializzazione, dai residenti periferici che della mondializzazione subiscono soprattutto gli svantaggi. Se vogliamo, Johnson ha vinto con una strategia “populista”, per usare il termine di cui amano riempirsi la bocca i nostri politologi e che curiosamente non hanno mai usato nel caso di Johnson: ha compiuto il miracolo, lui oxfordiano e membro dell’élite più snob del pianeta, di far diventare i Conservatori britannici il partito delle classi popolari. Altrimenti non si spiegherebbe come è riuscito a fare proprie le circoscrizioni che votavano Labour a volte da un secolo, la “cintura rossa” del Regno Unito, concentrata soprattutto nel deindustrializzato nord dell’Inghilterra.
Si badi, il Trump britannico si è guardato bene dal fare appello al Trump originale, pochissimo amato come persona in Inghilterra, ma ne ha seguito diligentemente le ricette, a dimostrazione che la sinistra europea ha grossolanamente sottovalutato la potente deriva politica che soggiaceva all’elezione di Trump.
Vi è infine la dimensione geopolitica del voto di martedì: la Gran Bretagna era sempre stata con un piede dentro e con un piede fuori dall’Europa (ed era questa la ragione per cui, finché visse, il generale de Gaulle oppose sempre il veto al suo ingresso in quella che allora si chiamava prima Mercato comune europeo e poi Comunità economica europea: temeva che Londra fosse semplicemente il cavallo di Troia degli Usa). Perché il Regno unito fa già parte – si può dire da sempre – di un’altra alleanza, che non è proclamata a gran voce, ma che è leggibile in alcuni trattati, una federazione informale che comprende Stati uniti, Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Australia: detto in soldoni, la parte bianca del Commonwealth britannico, questa volta a guida statunitense. Come mi diceva un conoscente britannico brexista: “Noi abbiamo la scelta solo tra essere secondi a Berlino o essere secondi a Washington. Io preferisco essere secondo a Washington”. Se questo è vero, la Brexit non è un passo indietro rispetto alla globalizzazione, è invece una mossa del cavallo, è la scelta di un’altra mondializzazione, integrata al Commonwealth anglosassone. Ma se è così, il futuro a cui Johnson e i suoi tendono non è quello di una Gran Bretagna meno finanziaria, più industriale: al contrario, è l’idea che il Regno unito possa diventare la nuova Svizzera del mondo e Londra il suo porto franco. Gli strati popolari che hanno votato Tory sperando in una reindustrializzazione si vedranno beffati ancora una volta, in un certo senso come lo erano già stati da Tony Blair.
Ma c’è un altro aspetto in cui i Tories rischiano di pagare caro questo voto, ed è l’implosione dello stesso Regno unito. Non è perché Johnson ha stravinto che l’insolubile nodo irlandese diventa improvvisamente risolvibile. Ricordiamolo: poiché la Repubblica irlandese resta nell’Unione europea, se la Gran Bretagna esce dall’Unione una frontiera doganale andrà posta tra Repubblica irlandese e Irlanda del nord che fa parte del Regno unito. Ma in questo caso ricomincerebbe la guerra civile tra cattolici e protestanti che ha insanguinato l’Ulster per più di trent’anni. In alternativa, la frontiera andrebbe posta nel braccio di mare tra Irlanda del Nord e Inghilterra, praticamente staccando l’Irlanda del Nord dalla madrepatria, amputando lo stato inglese.
Senza contare poi le spinte al secessionismo scozzese che Johnson ha i numeri per azzittire (impedendo un altro referendum), ma non per estinguere, e che più sarà represso, più accenderà gli animi scozzesi.
PS: Naturalmente, per l’Europa la definitiva uscita della Gran Bretagna può significare soltanto un accresciuto predominio tedesco che diventa di fatto la potenza egemone di tutto il continente, un vecchio sogno che per due volte le armi non erano riuscite a realizzare, ma che ora la politica economica sta attuando.

(*) ripreso da «Micromega» – 13 dicembre 2019

NUMERI ELETTORALI DALL’UK

di Franco Astengo

L’esito delle elezioni britanniche del 12 dicembre è stato particolarmente chiaro e non sussistono dubbi di interpretazione: non hanno vinto i conservatori ma hanno perso i laburisti.

L’incremento dei tories infatti sul piano complessivo (che in Gran Bretagna non conta) è stato minimo: da 13.662.914 voti il partito di Boris Johnson è passato a 13.945.200 guadagnando 282.286 suffragi.

Contemporaneamente il Labour scendeva da 12.874.985 voti a 10.292.054 con un arretramento di 2.582.931 unità: un vero e proprio tracollo che ha portato alla perdita di 59 seggi.

La maggior parte delle perdite laburiste sono confluite verso i Liberaldemocratici con un guadagno di 1.303.577 suffragi: la particolarità del sistema elettorale britannico basato sul plurality “secco” (sistema costruito in tempi di rigido bipartitismo) ha fatto sì che per i liberaldemocratici quest’aumento di voti abbia corrisposto alla perdita di un seggio da 12 a 11.

Ancora una volta il dato più interessante delle elezioni britanniche è dato dall’analisi dell’indice di distorsione che il sistema elettorale produce nel merito della capacità della formula usata di produrre rappresentanza politica: negli ultimi tempi la frammentazione aveva anche reso difficile la governabilità mentre l’esito di questa tornata (considerato l’omogeneità sul territorio fatta registrare dal Labour Party) ha prodotto una maggioranza certa.

Esaminiamo allora alcuni dati che evidenziano proprio questo indice di distorsione.

Andando per ordine:

1)      Nel 2017 i conservatori ebbero 13.632.914 per 317 seggi: servirono quindi 43.006 voti per ogni seggio (naturalmente nella realtà non è così data la diversa popolazione per ogni collegio). Due anni dopo i voti sono stati 13.945.200 per 364 seggi: 38.310 suffragi a seggio. Attenzione a questo dato.

2)      Due anni fa i laburisti avevano ottenuto 12.874.985 voti per 262 seggi, 49.141 voti per ogni deputato eletto. Nel 2019 i voti sono stati 10.292.054 per 203 eletti: 50.699 ciascheduno. In fondo una differenza minima per ogni collegio a fronte di una perdita molto secca sul piano complessivo ma spalmata sul territorio in modo da perdere 59 deputati.

3)      La distorsione prodotta dalla formula elettorale ha colpito particolarmente i Liberaldemocratici principali eredi del voto in perdita dei laburisti. Il partito di Jo Swinson ha ottenuto 3.675.342 voti incrementando di 1.303.570 unità (2017: 2.371.772) e perdendo un seggio da 12 a 11. Ogni deputato è quindi “costato” in termini di voti 334.122 unità, quasi dieci volte tanto un deputato conservatore.

4)      Al contrario il partito Unionista nordirlandese è salito da 8 a 10 deputati ottenendo 292.316 voti: 29231 a seggio, mentre i Verdi hanno ottenuto il loro unico collegio (Brighton Pavillon) pur avendo realizzato un totale di 864.743 voti con una crescita di 339.372 unità

5)      Il partito della Brexit che si è presentato soltanto in un certo numero di collegi utilizzando il meccanismo della desistenza per favorire i conservatori ha totalizzato 642.303 voti e rimane comunque escluso dalla Camera dei Comuni

6)      Registriamo anche un caso di calo abbastanza considerevole nell’ambito di piccoli numeri e di tenuta nel numero dei seggi: il Sinn Fein infatti ha perso 57.332 voti (su 238.915) mantenendo i suoi 7 seggi che adesso valgono ciascuno 25.940 voti. Da segnalare anche il risultato del partito Socialdemocratico e Laburista nordirlandese che ha avuto 2 seggi con 118.737 voti mentre nel 2017 con 95.419 non aveva vinto in alcun collegio.

7)      Infine, per queste prime sommarie indicazioni, un riscontro circa la partecipazione al voto rimasta pressoché inalterata: nel 2017 si ebbero complessivamente 32.196.918 voti validi, nel 2019 un minimo decremento che ha portato il totale dei suffragi regolarmente espressi a fermarsi a 31.930.307 (su 649 collegi scrutinati su 650).

L’indicazione conclusiva riguarda l’attualità della formula elettorale britannica: in questo caso il dato di governabilità è stato assicurato, ma per caso in quanto l’indice di frammentazione nel rapporto voti/seggi appare assolutamente squilibrato causando un vulnus nella capacità di rappresentanza del sistema. Un dato che deve essere ben analizzato anche da chi, in Italia, si appresta all’ennesima modifica del sistema elettorale e risulta pendente anche un referendum attraverso il quale si pretenderebbe di imporre anche da noi il maggioritario secco.

Da far notare, in questo senso, che nel caso dell’UK i conservatori realizzano la maggioranza assoluta con circa 13 milioni di voti e i loro oppositori, di diversa estrazione e collocazione, ne mettono assieme 18 milioni: una maggioranza assoluta attribuita a una minoranza relativa.

LA VIGNETTA – scelta dalla redazione della “bottega” – è di Vauro

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Gian Marco Martignoni

    Ho sempre letto con attenzione Marco D’eramo, e a suo tempo avevo giudicato la sua uscita da Il manifesto come una di quelle perdite che più avrebbero influito sulla sua qualità giornalistica.Niente contro Leonardo Clausi, ma finalmente ho compreso qualcosa di quel voto, che non ha una valenza, come sappiamo, solo nazionale.Siamo obbligati a fare i conti con il sentimento anti-europeo e la deriva in corso a livello mondiale non solo sul piano della concorrenza tra aree economiche.Grazie a Marco D’eramo per la sua incredibile lucidità di fine analista dei processi sociali.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *