Brunetto Salvarani intervista Raimon Panikkar

Nella notte fra giovedì e venerdì è  morto Raimon Panikkar o, come dice chi lo ha conosciuto “Raimon è andato ad abbracciare il padre, qualunque volto e qualunque nome gli si dia”.  Per ricordarlo ho chiesto al teologo Brunetto Salvarani di poter riportare sul mio blog una sua intervista a Panikkar che uscì sulla rivista “Jesus” nel dicembre 2006. Brunetto (lo chiamo così perchè  lo conosco da decenni) mi ha autorizzato ed eccola qui sotto.
            Raimon Panikkar, in cerca
            di Dio vivendo a cavalcioni
            di Brunetto Salvarani
              
            Padre hindu e madre cattolica, Raimon Panikkar è prete e teologo
            “sui generis”, che ha attraversato tutte le grandi tradizioni
            religiose senza per questo smarrire la sua identità e la fedeltà
            alla Chiesa di Roma: un mistico che è anche profeta del dialogo tra
            le fedi.
             
            Alcune settimane fa si è svolto un seminario con Raimon Panikkar,
            organizzato da don Arrigo Chieregatti nel quadro della promozione
            della rivista Interculture. L’iniziativa si è tenuta in una
            parrocchietta dell’Appennino bolognese, nei pressi di quella
            Marzabotto ben carica di memorie resistenziali e di utopie
            dossettiane, che accoglie il visitatore con un cartello su cui –
            invece di magnificarne le bellezze ambientali o archeologiche – si
            recita lapidariamente «Ricordati!».
            È stata per me un’occasione preziosa per ritrovare un amico ma
            soprattutto un maestro, uno degli ultimi rimasti sulla scena
            odierna. Panikkar è ancora lucidissimo e pieno di passioni, a
            dispetto – o in forza – dei suoi venerandi 88 anni. Papà hindu e
            mamma cattolica, catalano ma anche indiano, egli è davvero una
            personalità-ponte, testimonianza vivente dell’eccezionale
            opportunità che può derivare dall’incrocio fecondo delle due
            culture, scientifica e umanistica (la sua prima laurea è in Chimica,
            le altre in Filosofia e Teologia); così come dei due universi
            mentali, quello occidentale e quello orientale, che egli ha
            attraversato costantemente, senza mai venir meno alla fedeltà della
            sua identità di cristiano e prete (è stato ordinato nel 1946).

            «Sono partito cristiano, mi sono scoperto induista e sono ritornato
            buddhista, senza mai smettere di essere cristiano», ama dire senza
            alcuna civetteria. Ha tenuto corsi e lezioni nelle principali
            università europee, americane e indiane, e ora vive ritirato fra le
            montagne della sua Catalogna, a Tavertet, dove prosegue la sua vita
            attiva e contemplativa, praticando quotidianamente yoga e
            contemplazione. Paul Knitter, in un volume recente che cerca di fare
            ordine fra le varie proposte di teologia delle religioni, scrive che
            «Panikkar ha trovato lo scopo e il diletto della sua lunga vita
            nello stare a cavalcioni fra mondi molto differenti e nel metterli
            in contatto fra loro». Non a caso, parla dodici lingue e scrive in
            almeno sei! È autore di numerosi libri, fra cui Il dialogo
            intrareligioso, La nuova innocenza, Pace e disarmo culturale, La
            realtà cosmoteandrica e La porta stretta della conoscenza.
            Ancor oggi, quando comincia a riflettere a voce alta, è un fiume in
            piena. Difficile sintetizzare la lunga conversazione che ci ha
            proposto. Se provo a farlo, è perché sono consapevole della
            problematicità dell’impresa ma anche dell’unicità coraggiosa del suo
            pensiero.

             Oggi il tema del dialogo interreligioso è molto discusso. Lo si
              accusa di irenismo, di mancata difesa dell’identità… Quale
              spazio c’è attualmente per il dialogo nelle religioni, a suo
              parere?
            «Che spazio c’è per il dialogo? Semplice: c’è lo spazio che noi gli
            facciamo! Se siamo chiusi in noi stessi, non dialoghiamo né possiamo
            dialogare! Questo spazio comincia con l’ascolto, e l’ascolto si dà
            solo se c’è vuoto in noi. Non si tratta, beninteso, di un cammino
            puramente intellettuale, ma di un’attività religiosa, che riguarda
            le cose ultime, definitive, di un incontro sui problemi di tutti i
            giorni, che possiede anche una valenza politica. Certo, buttarsi nel
            dialogo non vuol dire abiurare alle proprie convinzioni, alla verità
            (che è ciò che si cerca, anche se non necessariamente ciò che si
            trova). La verità è un processo, non una realtà cristallizzata,
            putrefatta… Dialogare è come nuotare: posso prendere tutte le
            lezioni teoriche che voglio, ma poi è indispensabile gettarmi in
            acqua, altrimenti non c’è nulla da fare!».

              Quest’anno è trascorso un lustro dall’11 settembre 2001, la data
              che molti commentatori ritengono uno spartiacque, non solo per la
              presente generazione.
              Lei che idea si è fatto al riguardo?
            «Beh, l’11 settembre è anche la ricorrenza dell’indipendenza della
            Catalogna, nonché una data decisiva nell’esperienza di Gandhi a
            Johannesburg nel 1906 (esattamente un secolo fa), la prima volta in
            cui egli parla di nonviolenza e in qualche modo l’atto di nascita
            del Satyagraha… Ci sono poi date che nell’Occidente sono passate
            del tutto sotto silenzio, come il 7 dicembre, anniversario della
            completa distruzione – da parte di estremisti hindu – della moschea
            di Ayodhya, in India. Si trattò di un atto, per molti versi, assai
            più grave dell’attentato alle Twin Towers! Sarebbe fondamentale non
            lasciarsi dominare dallo sguardo dei mass media, che è fortemente
            condizionato… Spesso dimentichiamo che, se è un luogo comune
            affermare che viviamo nell’era della tecnologia, in realtà la
            maggioranza degli abitanti del nostro pianeta non ha telefono né
            accesso a un computer; e che metà della popolazione mondiale vive
            con meno di due dollari al giorno, e metà di tale metà con meno di
            un dollaro. La globalizzazione della tecnologia, del resto, ha avuto
            come precursore il cristianesimo, col suo appello universalistico.
            Cattolico, in effetti, significa appunto universale; ma per essere
            davvero tale, il cristianesimo è chiamato a fare kenosis, a fare
            vuoto su se stesso. Ogni uomo ha una fede, nel senso della coscienza
            del mistero, dell’infinito, dell’ignoto; la fede è coscienza della
            nostra ignoranza, come ricordava il padre della Chiesa Evagrio
            Pontico per il quale sono “beati quelli che sono giunti
            all’ignoranza infinita”. Ogni uomo ha fede, crede in qualcosa, non
            esiste il non-credente… È l’esperienza mistica il fatto religioso
            fondamentale, costituito di tre componenti: il Divino, l’umano, il
            mondo, che stanno in una relazione tanto stretta da avere il proprio
            stesso essere ciascuno nell’altro. L’esperienza mistica, dico con un
            neologismo che amo parecchio, è una realtà cosmoteandrica, e tutto
            ciò che esiste è una realtà cosmoteandrica».

              Parliamo del futuro delle religioni, e in particolare del
              cristianesimo. Qualche anno fa, il teologo domenicano canadese
              Jean-Marie Tillard scrisse un libretto intitolato Siamo gli ultimi
              cristiani?
, fornendo una risposta alquanto intrigante… Secondo
              lui, infatti, noi siamo gli ultimi testimoni di un certo modo di
              essere cristiani, di un certo modo di essere cattolici…
            «Parto con una battuta, “Dio è morto, grazie a Dio!”, ma poi passo a
            tracciare le tre tappe attraverso cui si è sviluppata la vita della
            religione cristiana. La prima è stata la tappa della cristianità:
            una visione totalizzante, geniale, che ha plasmato una cultura e una
            civiltà, dalle cattedrali all’Inquisizione, e che ormai è morta (per
            tutti tranne che per il presidente Bush). C’è stato poi il
            cristianesimo: una dottrina che si esprime attraverso un proprio
            credo. Infine, la cristianìa, un’esperienza che ha penetrato
            l’attuale civiltà nella sua coscienza profonda. La cristianìa vive
            ancora i naturali dolori del parto, e avrà nomi che forse non
            saranno propriamente cristiani…».
              Tornando alla domanda provocatoria di Tillard: “Siamo gli ultimi
              cristiani?”
            «Quanto al futuro del cristianesimo, capisco la domanda e comprendo
            l’inquietudine che vi è sottesa, ma ritengo si debba in primo luogo
            pensare al presente, perché parlare continuamente del futuro è già
            una forma di colonizzazione dell’immaginario.
            Nel mondo, è assai diffusa una concezione del tempo che è molto
            distante da quella comunemente accettata in Occidente. Gesù, al
            cosiddetto buon ladrone, dice: “Oggi tu sarai con me in Paradiso!”.
            Il Paradiso è oggi! Il futuro delle religioni è dunque uno
            pseudoproblema! La mia proposta riguarda la conversione delle
            religioni, che hanno sempre pensato a convertire gli altri: ora,
            sono loro a essere chiamate a convertirsi! Questo è il kairòs del
            millennio che si è appena aperto, per tutte le religioni: continuare
            con piccole riforme non ha senso, occorre una grande trasformazione,
            nonviolenta, lenta ma profonda, una metànoia! Tale conversione
            dovrebbe rendere le religioni consapevoli sia di quanto male hanno
            fatto nella storia, sia che ora l’infedele è il vicino di casa, che
            tutte le cose le vediamo – anche – con la lente d’ingrandimento
            dell’altro. È una sorta di nec cum te nec sine te…».

              Può esemplificare?
            «Vorrei dire che forse le religioni dovrebbero concentrarsi meno sul
            nirvana, la mukti, la salvezza, il cielo e così via, e concentrare i
            propri sforzi sull’obiettivo di guarire le ferite umane, curare le
            piaghe storiche dell’umanità: in una parola, sulla cultura della
            pace più che sulla predicazione della salvezza. C’è molta saggezza,
            ad esempio, in alcune religioni africane che non si preoccupano
            particolarmente del Dio Supremo, e invece dirigono la loro
            attenzione verso gli dei minori che creano problemi od offrono
            rimedi. Senza voler essere paradossale, si potrebbe affermare che le
            religioni hanno fallito perché questo è il loro karma, o piuttosto
            la loro natura: infatti, costantemente esse ci ricordano la rinuncia
            ai frutti, l’azione disinteressata, la morte dell’io, e così via. Le
            religioni non sono la panacea umana, e come l’uomo stesso sono
            itineranti, provvisorie, imperfette. Mostrano la luna riflessa nello
            stagno, non la luna nel cielo, per utilizzare una metafora
            buddhista: non offrono la soluzione; ci offrono, piuttosto, la
            speranza sempre rinnovata di proseguire a vivere, a lottare, a
            scoprire e a non rinunciare all’autentica condizione umana…
            Debbono, in sintesi, fare continuamente metànoia!».

              Qual è il ruolo di Gesù di Nazaret in questa prospettiva di
              metànoia, di conversione, delle religioni?
            «In primis: Gesù è stato ridotto a un individuo… Gesù è una
            persona concreta, un ebreo vissuto in Palestina duemila anni fa.
            E poi, Gesù è Cristo, ma Cristo non è esclusivamente Gesù! Cristo
            era prima di Abramo, come recita il Vangelo di Giovanni, ed è in
            ogni persona che soffre (Mt 25). Cristo trascende interamente
            l’individualità di Gesù. Solo così si può cominciare a capire che di
            Cristo non ne abbiamo una conoscenza esclusiva. Mi piace immaginare,
            in tale direzione, la possibilità di un ecumenismo ecumenico non
            limitato agli affari interni dei cristiani! Io parlo più volentieri
            di una cristofania che di una cristologia: Dio è relazione, una
            relazione in cui stiamo noi uomini, di cui Cristo è il modello.
            C’è una dignità divina in ogni persona, in ogni cosa. Al terzo
            millennio cristiano è riservato il compito di superare una
            cristologia “tribale” con una cristofania che permetta ai cristiani
            di vedere dappertutto l’opera di Cristo senza presumere di avere una
            comprensione migliore o un monopolio di quel Mistero che è stato
            rivelato loro in una maniera unica!».

              Da molto tempo tu sei è una figura rilevante della teologia
              pluralista delle religioni, una posizione oggi quanto mai
              discussa. Qual è, dal tuo punto di vista, il suo statuto
              fondamentale?
            «Innanzitutto, occorre dire che il pluralismo non è la pluralità
            delle verità: la verità è unica! Mi colpisce il silenzio di Gesù di
            fronte alla domanda di Pilato: “Cos’è la verità?”. Qualsiasi
            risposta, di Gesù o di qualsiasi altro, sarebbe una bugia: la
            risposta è il silenzio. Qualunque discorso sulla verità non tocca la
            verità: la verità è un simbolo per affermare che tutti noi siamo in
            pellegrinaggio verso una meta. Ricordo un commento di Gregorio di
            Nissa a proposito di Abramo: “E ora sono certo che era la voce di
            Dio che mi chiamava, perché non so dove vado!”. Nell’incontrare gli
            altri, incontriamo la parte nascosta di noi stessi. Ad esempio, è
            vero che gli immigrati scombussolano la nostra forma di vita, ma
            spesso dimentichiamo che essi si muovono spinti dalla fame, sia
            quella materiale sia quella specifica fame e sete di giustizia! C’è
            una storiella indiana che spiega il motivo per cui l’Occidente
            possiede il benessere e l’Oriente la spiritualità: è perché, quando
            Dio ha diviso le ricchezze del mondo, l’Occidente ha potuto
            scegliere per primo. E noi, in fondo, siamo infelici perché ci
            proiettiamo sempre su un domani, mentre, evangelicamente, “a ogni
            giorno basta il suo affanno”».

              Qual è dunque la sfida che il cristianesimo deve affrontare?
            «Mi piace dire che solo il mistico potrà sopravvivere nella società
            attuale senza divenire terrorista o cinico, che solo lui può
            conservare l’integrità del suo essere, perché è in comunione con
            tutta la realtà. Una volta, incontrando Paolo VI, egli mi chiese
            cosa stessi facendo in quel periodo. Gli risposi: “Sto continuando a
            domandarmi se per essere cristiano occorre essere spiritualmente
            semita e intellettualmente greco. È così, vero? Se è così, ecco
            perché il cristianesimo è lontano dai due terzi di questo mondo”.
            Lo ripeto, dunque: la grande sfida del terzo millennio per il
            cristianesimo è diventare realmente cattolico!».
                                Brunetto Salvarani

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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