Burkina Faso: assassinio di una rivoluzione

La vicenda storica e culturale del Burkina Faso (che significa Paese degli uomini integri) potrebbe sembrare a un primo colpo d’occhio assai simile a quella di molti altri Paesi dell’Africa sub-sahariana. Caratterizzata da povertà, analfabetismo, carenza di risorse e da un ripetuto intervento militare in politica che ne ha drammaticamente condizionato la storia.  Questo a un primo colpo d’occhio.
Ma se ci addentriamo maggiormente in questa storia alquanto singolare scopriamo che il colpo di Stato del 1983 rappresenta invece una vera e propria anomalia nel contesto africano e non solo.
Senza nessuno sbocco sul mare, confinante con Niger, Benin, Togo, Ghana, Costa d’Avorio e Mali il Burkina Faso è un Paese quasi del tutto privo di risorse proprie.
Il 5 Agosto 1960 ha inizio la storia dello Stato indipendente dell’Alto Volta, che pone fine alla colonizzazione francese, per lo meno ufficialmente. Perché, come spesso succede, l’influenza del paese colonizzatore permane per lungo tempo.
Così, a partire dal 1966, inizia anche la storia dei ripetuti colpi di Stato militari che proseguono poi nel 1974, nel 1980 e nel 1982.
Nel 1983 un nuovo colpo di Stato porta al potere il comandante Thomas Sankara.
Quello che vogliamo indagare in queste pagine è proprio il carattere anomalo di quest’ultimo evento, in particolare il fatto che esso persegua valori quali l’uguaglianza, il rigore ed il sacrificio in primis dei membri del governo e della burocrazia, il rispetto dell’ambiente, l’autarchia e l’autonomia dalle importazioni, il rispetto della donna, … solo per citare alcuni punti del programma di Sankara.
Rigore e sacrificio che hanno indispettito le élites interne; esaltazione dell’autonomia e contrasto alla restituzione del debito estero che hanno invece offeso chi ancora si riteneva padrone di uno Stato sulla carta indipendente e che ha fatto di tutto per mantenere tale controllo: tanto da causare la morte del presidente stesso, assassinato il 15 ottobre del 1987, dopo soli 4 anni di presidenza, da un colpo di Stato organizzato dal suo braccio destro Blaise Compaorè, attuale presidente del Burkina Faso.
A Reggio Emilia vivono più di 1000 burkinabè, tanto che esiste un’associazione a livello regionale piuttosto attiva e vivace. Proprio grazie allo sguardo di alcuni membri di questa associazione e di altri burkinabè cerchiamo di comprendere qualcosa in più di come Thomas Sankara abbia tentato di cambiare le sorti di un intero Paese e di che cosa il Burkina sia diventato oggi.
Buona lettura
Marco Iori  (Redazione Pollicino Gnus)

UNA NOTA ESPLICATIVA
Quello che avete appena letto è l’editoriale dell’ultimo numero (settembre) di Pollicino gnus, mensile della reggiana Mag-6 (e se non sapete cos’è una Mag…. chiedete e vi sarà detto) interamente dedicato al Burkina Faso e decisamente ben fatto. Lo dico con doppio piacere perchè io sono il direttore responsabile (o forse ir-responsabilke) della rivista sulla base di una vecchia legge fascista mai abrogata a prevedere che la libertà di stampa sia limitata e “vigilata” da giornalisti professionisti. Pensate a Fede, a Minzolini ecc e vi scappa di ridere? Bene, il riso fa buon sangue. In realtà di tutto mi occupo tranne che vigilare sulla fantastica redazione di Pollicino; al massimo collaboro se mi chiedono qualcosa ma accade di rado perchè sono bravi da soli e da sole.
Vi consiglio dunque, se siete appassionati di Afriche e di storia, di leggere tutto il numero sul sito (www.pollicinognus.it) e magari di abbonarvi anche per sostenere un progetto informativo più che meritevole:  sono 25 euro per ricevere la rivista fino a dicembre 2011; le modalità si trovano sempre sul sito.
Per ulteriormente invogliarvi a leggere e poi chissà  ad abbonarvi, qui sotto aggiungo un articolo – sempre preso dall’ultimo Pollicino – di  Cleophas Adrien Dioma, ottimo giornalista nonchè provocatore nel senso migliore e nobile del termine.  (db)

PELLE NERA, MASCHERA BIANCA

Di Cleophas Adrien Dioma. Nato a Ouagadougou nel 1972, Cleophas Adrien Dioma, vive a Parma. Poeta, fotografo, video documentarista, è direttore artistico del festival “Ottobre Africano”. Collabora con “Internazionale” e con “Solidarietà Internazionale”.  Il pezzo che segue è tratto da: “Solidarietà Internazionale”, 2 febbraio 2008 – http://www.solidarietainternazionale.it –

Il filosofo ghanese Kwame Antony Appiah, nella sua lettura della contaminazione occidentale sulla cultura africana, parlava dei leaders che hanno lottato per la liberazione dell’Africa dalla colonizzazione e che provengono tutti dalla scuola occidentale. Potremo parlare di Kwame Khruma, di Patrice Lumumba, di Thomas Sankara, di Amical Cabral, e potrei citarne altri.
Tutte persone che hanno studiato non solo in scuole “afro-europee”, ma che sono anche entrati nelle università occidentali. Il contatto con l’altro qualche volta porta apertura e anche una presa di coscienza. Vorrei anche dire che purtroppo questi leaders quando non sono stati ammazzati, hanno portato gli stessi errori che vediamo nel mondo occidentale.
Uno studente ghanese che studia alla scuola inglese, che a volte parla inglese meglio di un inglese, che studia la storia inglese, quando torna a casa sua diventa quasi uno straniero. Un miscuglio. Qualcosa tra quello che era e quello che è diventato. La cosa importante non credo che sia il fatto che si veste, mangia e vive come un occidentale, siccome alla fine non l’ha veramente cercato, ma forse credo sia il fatto che abbia “dimenticato” la sua storia e la sua cultura.
È lì che si crea, se vogliamo chiamarla così, la vittoria del colonizzatore: il fatto che l’africano nato nella foresta equatoriale diventa più toubab del toubab. Quando uno da piccolo impara che la sua cultura, la sua storia, non contano; quando per molto tempo vive con il complesso dell’essere africano nato nella savana, di essere “piccolo” davanti all’uomo “bianco”, il suo sogno diventa quello di diventare come lui.
Frantz Fanon, medico e scrittore della Martinica, aveva scritto un libro con un titolo abbastanza chiaro: “Pelle nera, maschere bianche”, un libro che parlava della situazione dei neri africani nell’epoca della lotta contro la colonizzazione e dopo la colonizzazione. Non credo ci sia bisogno di ulteriori commenti.
Voglio dire anche una cosa che spesso tanta gente non capisce. Noi non imitiamo il bianco ricco, ma imitiamo il nero-toubab. Il nostro modello non è il bianco che vive e lavora da noi, da colonizzatore, ma il nostro fratello africano che dopo che ha studiato e/o vissuto in Europa torna a vivere come un toubab. È a lui che noi guardiamo. Il nero con la maschera bianca. Non per niente quando un africano comincia ad avere dei comportamenti diversi (come si veste, come riceve, i muri alti con il citofono…) noi diciamo “è diventato bianco”.

Redazione
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