Bussi, D’andrea, Gardner, Manotti, Manzini, Meyer, Poldelmengo, Winslow e autori vari

9 recensioni giallo/noir di Valerio Calzolaio

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Aa. Vv

«Racconti gialli»

Einaudi

266 pagine per 14,50 euro

Grandi scrittori degli ultimi due secoli sono “insospettabili” autori anche di «Racconti gialli», provare per credere. Fulvio Gianaria e Alberto Mittone hanno curato un’antologia “discutibile e opinabile” (come dicono nella breve forzata introduzione) di 14 belle storie, opera di nomi straordinari della letteratura italiana e mondiale, che si sono cimentati col genere giallo per capriccio, pausa, divertimento, caso. O chissà perché. Comunque bene. Si va da Balzac (1799-1850) a Joyce Carol Oates (1938) passando per Buzzati, De Roberto, Scott Fitzgerald, Flaiano, Hemingway, James, London, Maupassant, Svevo, Twain, Wodehouse (il suo non è un racconto di genere ma spiega qualche motivo per cui tutti si lasciano tentare dal giallo, prima o poi), Virginia Woolf.

 

Deon Meyer

«Icaro»

traduzione di Nello Giugliano

Edizioni e/o

464 pagine, 18 euro

Cape Town e Stellenbosch. Dicembre 2014. Il bravissimo poliziotto Bennie Nikita Benna Griessel, 46 anni, è un alcolizzato in disintossicazione. I suoi 602 giorni di sobrietà finiscono quando un collega, traumatizzato per via delle indagini su vari serial killer, stermina la moglie e le due figlie, poi si uccide. Va in un bar, ricomincia a bere superalcolici, crede di potersi controllare. Lui è bianco (afrikaner), robusto brizzolato rugoso, capelli folti e arruffati, occhi slavi e luminosi, divorziato bassista dilettante, altruista e depresso; capitano della squadra investigativa speciale (gli Hawks), la sezione crimini violenti della città; vive con i figli Carla e Fritz insieme alla compagna, la bionda e sensuale manager musicale Alexa Xandra Barnard (più grande, sobria da 330 giorni). Sei mesi prima era stato gravemente ferito, il suo colonnello ucciso, strizzacervelli e sponsor degli Alcolisti anonimi avevano previsto che sarebbe stata dura resistere. Ora non ce la fa più. L’eccentrico tecnofilo amico nero Vaughn Cupido riesce a coinvolgerlo nell’indagine su un omicidio, lo copre dopo le sbronze, ne accetta l’appannamento, sa che gli serve il suo pensare metodico tecnofobo se vuole risolvere il caso. Hanno ucciso un personaggio famoso, Ernst Richter, gestore di un sito particolare: l’Alibi app aiuta a farla franca quando si vuole tradire il partner, trovando una scusa ben organizzata. Pare avesse molti clienti, facesse un sacco di soldi e possedesse almeno tre personalità (una “Icarus”, il titolo). Richter era scomparso da tre settimane, sotto la sabbia di una spiaggia hanno trovato il corpo avvolto nella plastica nera.

L’eccelso autore sudafricano Deon Meyer (Paarl, 1958), ex consulente BMW, scrive in afrikaans (2015) viene tradotto in inglese e (dall’inglese) in italiano. Magnifico e appropriato il glossario finale, con la nuova Costituzione del 1994 (dal presidente Mandela in poi) sono 11 le lingue ufficiali, ormai innumerevoli le contaminazioni nello slang. Il suo “eroe” era stato tutore dell’ordine anche col vecchio regime, ci fa capire molto di un grande Paese plurale e dei contesti storici sociali meticci, ironico e divertente, per quanto hard-boiled. Usa una terza persona varia, presentando in questo caso un secondo filo narrativo: quasi subito dopo la scoperta del cadavere (non l’unica citazione alla McBain) e l’effetto sui poliziotti della strage familiare del collega, ci è data la possibilità di leggere la trascrizione di un colloquio (avvenuto giorni dopo) fra l’esperta avvocato Susan Peires (da consigliare) e il potenziale giovane cliente vignaiolo Francois du Toit, attraente, abbronzato, di belle ricche maniere. Prima di arrivare al dunque (una confessione? di un delitto?) le racconta tutta la storia della propria famiglia, in pratica la meravigliosa ultrasecolare vicenda della viticoltura in Sudafrica. Il fatto è che a Bennie il vino non era mai piaciuto: lui preferiva ubriacarsi subito e saziarsi poi. Al danno si aggiunge la beffa: anche la sua capacità di identificarsi con (e scoprire) il criminale è una forma di altruismo, che inevitabilmente genera depressione. Touché! Per darsi speranza mette Fresh Cream e suona il basso con Jack Bruce. Copertina non bella ma risalta il significativo albero di jacaranda (originario del Sud America).

 

Antonio Manzini

«7 – 7 – 2007»

Sellerio

370 pagine, 14 euro

Aosta e Roma, estate. La giornalista aostana Sandra Buccellato, ex moglie del questore Costa, ritira fuori sul giornale la storia avvenuta il 13 maggio 2013, poco più di un mese prima, nella casa del vicequestore Rocco Schiavone: il fortuito assassinio di Adele (la fidanzata dell’amico). Era il poliziotto la vittima designata, ora Rocco è costretto a spiegare al suo superiore e al magistrato perché conosce il nome dell’assassino (Enzo Baiocchi) e cosa è precisamente successo 6 anni prima nella capitale, quando aveva 41 anni, non era ancora vedovo e si fece venire gli occhi spenti e inespressivi. Altri tempi, pur se lui già detestava criminologia e feste comandate, portava sempre le Clarks, si faceva regolari spinelli, amava i cani, collegava le persone incontrate a una specie animale, girava in Toyota ibrida. Da sei anni aveva incontrato la bella vitale Marina, restauratrice d’arte: si amavano molto. Vivevano nell’appartamento di via Poerio e una domenica mattina la moglie, dopo aver studiato i conti bancari, gli chiese spiegazioni sulle entrate, visti i soldi che spendeva. Rocco era stato povero e aveva amici sul crinale del crimine: arrotondava sui carichi di marijuana sequestrati, intascava le bustarelle di chi era stato scoperto, rivendeva quadri o preziosi trovati sul lavoro. Lei era figlia di agiati onesti professionisti: si era indignata profondamente e aveva fatto la borsa, se ne era tornata a casa dei genitori con la Panda, voleva riflettere sul proprio amore per quel bestione irrisolto e ingiustificabile. Rocco si tuffò nell’indagine su due ventenni uccisi, risultava coinvolto nei traffici illeciti Luigi Baiocchi, la storia si ingarbugliò, Rocco fu bravo, intanto Marina era tornata da lui amandolo e chiedendogli moralità.

Dopo un paio di racconti a quattro mani e un paio di buoni romanzi, l’attore regista sceneggiatore Antonio Manzini (Roma, 1964) ha scritto dal 2012 oltre dieci storie con protagonista Schiavone. Ha riscosso uno straordinario meritato successo (nell’autunno 2016 anche in tv), cinque racconti ambientati a Roma dal 2007 al 2012, prima del trasferimento forzato e punitivo ad Aosta, cinque romanzi ambientati durante i primi mesi trascorsi nella nuova sede. In quest’ultimo i superiori chiedono a Rocco di spiegare dettagliatamente cosa era accaduto e perché ancora lo vogliono uccidere, gli eventi spesso evocati e mai chiariti nei testi precedenti. Li narra con dolore e senza reticenze, la sua prima vita è finita quando gli hanno sparato (mentre era al volante) e hanno ucciso Marina, il 7 luglio 2007, ecco il titolo. Tutto avviene in terza persona, fissa o comunque connessa al protagonista, al passato. Gran parte del testo si concentra sul 2007. Il registro è non solo noir: l’indagine romana hard-boiled, la passione amorosa sentimentale, i legami amicali generazionali. Già il protagonista affascinava i lettori, qui capiamo meglio l’origine di alcuni caratteri: l’interesse per il calcio, il personale senso di giustizia, la preferenza per i bianchi (non con cacio e pepe), il culto per i Pink Floyd (e per Paolo Conte: “era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti”), implicitamente il senso dell’ormai celebre hit parade delle rotture di coglioni. E degli antichi apici di goduria: Marina e Rocco dialogano sul primo fumetto, infine suggellano con rum e cioccolata. Risaltano personaggi minori, Domiziano fra gli altri di allora, il bell’elegantissimo amico antiquario gay della moglie; Gabriele ora, rumoroso sedicenne dirimpettaio del nuovo appartamento.

 

Don Winslow

«China girl»

traduzione di Alfredo Colitto

Einaudi

San Francisco, Hong Kong e Cina. 1977. Dopo sette mesi in quarantena nel cottage in mezzo alla brughiera dello Yorkshire, il buon 24enne Neal Carey, madre puttana padre sparito, corporatura e altezza medie, capelli e occhi castani, petulante e riluttante, negato per la fisica, amante delle librerie, dottorando in Letteratura inglese del XVIII (prossimo alla tesi su Smollett), investigatore “risolvi problemi” per ricchi “Amici di Famiglia”, viene inviato sulla baia della West Coast. Deve convincere col denaro una splendida cinesina a lasciare lo scienziato single 43enne che ha abbindolato, Robert Pendleton serve all’azienda privata (di fertilizzanti) Agritech in North Carolina. Li trova e s’infatua pure lui dell’affascinante minuta 26enne Li Lan, sembra sia una pittrice e voglia davvero bene a Robert. Poi cercano di uccidere Neal e, soprattutto, i due scappano a Hong Kong. Neal è uno che s’innamora ma non si fida delle donne. Così li segue, cade in almeno un paio di trappole, continua a leggere “Roderick Random” e incrocia mirabolanti avventure anche dall’altra parte del mondo, da marzo ad agosto, e anche oltre, con il coinvolgimento della Cia e del governo cinese, allora in piena lotta di potere fra nemici e amici di Deng Xiaoping (1904-1997) che proprio nel 1977 stava lanciando la “primavera di Pechino” contro eccessi e rigidità della Rivoluzione culturale e della “Banda dei Quattro”. Neal si fa una sua idea sui mortali conflitti in corso, un po’ tutti lo considerano capro espiatorio e vittima sacrificale, si barcamena fra spie e complotti, sopravvive a stento nella provincia di Sichuan (“ciotola di riso della Cina”) e arriva quasi in capo alla catena dell’Himalaya. Senza la certezza di scenderne.

Anche Don Winslow (New York, 1953), il miglior autore noir dell’ultimo ventennio, californiano d’adozione, ha realizzato una vera e propria serie letteraria (1991-96), questo è il secondo (1992), in terza quasi fissa, ambientazione anni settanta sulla base di quel che allora faceva lui stesso. Dopo aver studiato storia all’università e aver letto accuratamente tanta narrativa poliziesca, sempre in giro per un paio di decenni (investigatore privato,regista e manager teatrale, guida di safari fotografici anche in Cina, consulente finanziario) Winslow inventò un personaggio parzialmente autobiografico: detective, base nell’Upper West Side di New York, amori letterari per l’alienazione sociale, studi in sospeso. Per lui ogni storia inizia dai personaggi e Neal Carey è un ottimo primogenito. Come pure risalta il padre putativo Joe Graham, un metro e sessantadue di cattiveria e astuzia, occhi azzurri e capelli color sabbia, braccio di gomma, irlandese nel midollo; maniaco della pulizia, si diverte mentendo e rubando ma gli vuole un gran bene. Il titolo americano (“The Trail to Buddha’s Mirror”) richiama gli specchi, le immagini dipinte da Li Lan e l’ultima delle tre parti del romanzo, tra valli fertili e picchi innevati, scimmie e monasteri, relazioni e persone sempre diverse da come appaiono, il Buddha di pietra scolpita alto settanta metri, forse troppo per lui, malato di acrofobia. Ancora una volta, non a caso svolgono una precisa funzione narrativa citazioni da Shakespeare e Twain. Molto cibo e vino cinesi, da ubriacarsi (pure col Maotai). E, ovviamente, non mancano tè e oppio, con un loro gusto e senso.

 

Michel Bussi

«Ninfee nere»

traduzione di Alberto Bracci Testasecca

Edizioni e/o

398 pagine, 16 euro

Giverny. 13-25 maggio 2010. Nessuno sembra conoscere quella vecchia strega isolata, nata nel 1926, anno della morte di Claude Monet, che abita in cima al torrione (quadrato a graticcio) del grande mulino delle Chennevières, in riva al ruscello dell’Epte, accanto ai celebri giardini delle ninfee, del ponte giapponese, delle serre, fino all’isola delle Ortiche e al suo Chemin du Roy; dalla finestrella del quarto piano tiene d’occhio tutta la pianura abitata del paesino addossato sulla collina. Quando esce il pastore tedesco Neptune le corre sempre non distante. Il marito Jacques è molto malato, il 13 maggio sembra in fin di vita, parla a lungo con la moglie, le mostra vecchie cose, arriva il medico, poi l’ambulanza per l’ospedale di Vernon. Un paio di giorni dopo, lei va a trovarlo e vede che soffre tanto, stacca le flebo, il 17 maggio viene sepolto in cimitero, lei si trova sola. Contemporaneamente, dall’altro capo del cimitero, tutto il paese è intorno alla tomba di Jérôme Morval, un centinaio di persone a capo scoperto o sotto gli ombrelli accanto alla moglie Patricia. Il famoso chirurgo oftalmologo, con studio a Parigi, originario di e spesso residente a Giverny, era stato ucciso proprio all’alba del 13 maggio, accoltellato e affogato, pure col cranio fracassato. Segue il caso il giovane affascinante biondo ispettore Laurenç Sérénac, meno che trentenne, uscito dalla scuola di polizia di Tolosa, da poco in servizio a Vernon, forte accento occitano. Elegge a proprio vice il collega Sylvio Bénavides. Individuano le possibili piste: pare che la vittima fosse un donnaiolo, invaghito della bella sposata Stéphanie Dupain, unica maestra dell’unica classe, dove ben dipinge la piccola Fanette di undici anni, che corre e scherza con i compagni. Si rivelerà un guazzabuglio, bisogna scavare nella follia omicida anche del 1937 e del 1963.

Il professore di geografia all’università di Rouen e direttore di ricerca al Cnrs francese Michel Bussi (Louviers, 1965) pubblica ottimi gialli di successo da quasi una decina d’anni (avendoli cominciati a scrivere ben prima). “Nympheas Noirs” è del 2011, ha vinto tantissimi premi e gli ha dato fama internazionale, ora finalmente tradotto in Italia (unico fino ad adesso). Va consigliato caldamente a chi ama l’arte e l’impressionismo, a chi frequenta la Normandia, a chi va a visitare i luoghi di Monet: comprenderete meglio informazioni e percorsi, scoprirete colori (malva soprattutto) e atmosfere (malinconiche talora), odori e passioni. Accanto a Stéphanie sono protagonisti luoghi dove il tempo tende a fermarsi. Il titolo si riferisce sia agli esperimenti di una dotata pittrice in erba, sia a un quadro appeso nel torrione della strega, sia a uno sconosciuto presunto dipinto dello stesso morente Monet. Le esplicative paginette di incipit e la successiva narrazione prevalentemente in prima e al presente consentono all’autore di alterare il “patto” coi complici lettori rispetto ai fini ingranaggi criminali, di disseminare indizi senza dire alcune cose di sostanza, sicché il finale è sorprendente più per l’epoca che per il modo. Va bene lo stesso, il romanzo combina diversi genere, è soprattutto una fiaba noir. Laurenç gira con l’antiquata ruggente affascinante moto Triumph Tiger e predilige il bianco gaillac. Con la sensuale maestra si piacciono proprio, lei è fedele al marito gran lavoratore anche se non lo ama e lui vorrebbe ascoltasse Françoise Hardy, “Le temps de l’amour”. Ah, se la storia fosse andata in modo diverso e avesse seguito Aragon: “acconsento a che si instauri il diritto di sognare”!

 

Dominique Manotti

«Il sentiero della speranza»

traduzione di Francesco Bruno

Sellerio

406 pagine, 15 euro

Parigi, Sentier. 29.2/4.4.1980. Icaro, nome di un abbonato a un club di pedofili e viveur, uccide una giovanissima tailandese. Sulle sue tracce viene messo il mitico Théo Daquin della Narcotici. Stuprato da bambino, ha 35 anni, è ricco e solo, omosessuale senza esclusività (pur se ora convive con un ragazzino turco, fra ricatto e affetto). Nella lotta all’eroina sono coinvolti politici altolocati e poliziotti corrotti, seguono altri efferati delitti, fino a qualche arresto. Così si presenta «Il sentiero della speranza», primo romanzo (1995) della straordinaria serie della bravissima Dominique Manotti, uno pseudonimo per la colta sindacalista e docente di Storia economica che ebbi l’onore di presentare qualche anno fa in Brianza. Ottima riedizione con la stessa traduzione della prima (2002) che subito già recensii. Da non perdere, se non lo avete ancora letto.

 

Lisa Gardner

«Dobbiamo trovarla»

traduzione di Barbara Bertoni

Marcos Y Marcos

Boston e Usa. Pochi giorni dello scorso novembre. Cosa sappiamo? La bella 27enne Florence Flora Dane, capelli biondi e fisico tonico, occhi chiari grigio-celesti, si presenta in un locale notturno pagandosi il primo drink e facendosi pagare i costosi successivi da un tipo muscoloso che vuole solo portarsela a letto, escono tardi, nel vicolo lui ci prova in modo violento, arriva il barman culturista dai pettorali incredibili, stende l’altro e la rapisce lasciandola senza sensi, nuda e legata in un garage; lei ha molte risorse e, quando lui torna, lo ammazza. Sette anni prima Flora era stata rapita da un maniaco durante le vacanze pasquali in Florida, tenuta segregata quattrocentosettantadue giorni, perlopiù dentro una cassa di legno, uscendone solo per essere violentata o soggiogata; quando fu liberata pensava ormai di chiamarsi Molly e raccontò parte di quanto accaduto durante la prigionia solo a uno psicologo Fbi, il bellissimo ricco elegante laborioso afroamericano Samuel Keynes, esperto in vittimologia; poi, sentendosi solo una sopravvissuta e non ritrovando un buon rapporto nemmeno con la madre Rosa, rifiutò di vendere i diritti per libro o film, trovò lavoretti per mantenersi e cominciò a fare corsi di autodifesa, a studiare il comportamento criminale e a occuparsi di acciuffare i predatori. Ora la brava sergente D. D. Warren e la sua squadra sono scocciati del suo comportamento, anche perché capiscono che era sulle tracce di Stacey Summers, minuta studentessa biondina da agosto nelle mani di qualche cattivo; la poliziotta è in servizio limitato, dovrebbe solo supervisionare, ancora convalescente per una brutta frattura; poi scopre che Flora è stata di nuovo rapita. Dobbiamo trovarla.

L’affermata scrittrice Lisa Gardner (Hillsboro, Oregon) continua a sfornare notevoli appassionanti noir (con uno pseudonimo dal 1992 anche libri romantici). Dal 2007 vive tranquillamente (pare) nel New Hampshire con marito, figlia, cani e gatto e racconta storie crudeli senza compiacenze splatter, con mano ferma e rigore narrativo. La poliziotta è un suo personaggio seriale (una decina di romanzi), ce ne parla in terza, moglie intelligente del “perfetto” Alex (istruttore all’accademia, quasi collega, non sul campo), madre affettuosa di Jack (4 anni), amica dei pub irlandesi più che delle discoteche, capa testarda dispotica efficiente di un gruppo che abbiamo imparato ad apprezzare (non solo Phil e Neil, anche il recente utile acquisto, l’acuta novellina Carol Manley). Il nuovo romanzo è uscito nel 2016 anche negli Usa: qui la protagonista è soprattutto Flora che racconta in prima sia la storia della prigionia (al passato in corsivo, quello che aveva descritto allo psicologo e poi quello che aveva taciuto pure a lui) sia quanto le sta accadendo ora in diretta, al presente, quando di nuovo viene privata sensorialmente ma crede di poter affrontare ogni prova, liberando altre vittime e finalmente se stessa. A proposito di (reciproca) sindrome di Stoccolma; a un certo punto padrone e schiava cantarono insieme Taylor Swift. Il fatto è che gli esseri umani sono creature sociali; non siamo fatti per vivere nel vuoto assoluto; o, per essere più specifici, rinchiusi in una cassa grande come una bara.

 

Luca D’Andrea

«La sostanza del male»

Einaudi

456 pagine per 18,50 euro

Siebenhoch, parco naturale del Monte Corno, Alto Adige, Südtirol. Gennaio 2013-aprile 2014. Il giovane autore di documentari televisivi di successo Jeremiah Salinger è nato (nel 1975) e cresciuto a Brooklyn, pur con antenati paterni battisti sul Mississippi e madre di origine tedesca protestante tendente al marxista. Vive a New York con la bionda Annelise (di circa dieci anni più giovane) e la loro Clara di 5 anni, buon marito e padre. La moglie è figlia unica, originaria di un minuscolo borgo montano del Nord Italia e a fine 2012 hanno deciso di trascorrere qualche mese nel suo magnifico paesino natale, settecento anime abbarbicate a millequattrocento metri di altitudine, dove si trova ancora Werner Mair, il padre, uno dei fondatori del Soccorso Alpino Dolomiti. Nasce l’idea di un “factual” ambientato fra le montagne, così ad aprile 2013 arriva anche Mike McMellan, il regista, socio, più caro amico e alter ego produttivo di Jeremiah, cominciano a riprendere insieme agli uomini dell’elicottero per le chiamate d’emergenza. Finché il 15 settembre un incidente li coinvolge tutti, la valanga travolge alcuni soccorritori, l’Ec135 si schianta, Jeremiah rimane intrappolato nel ghiaccio, si salva a stento. E inizia a orecchiare racconti e memorie su un massacro avvenuto quasi trenta anni prima, la notte del 28 aprile 1985, nella gola e fra le grotte del Bletterbach. L’assassino non è mai stato trovato, nessuno vuol parlarne più, anche se tanti sembrano in qualche modo ancora coinvolti. Jeremiah s’incaponisce, prende molte botte e mette a repentaglio altre vite per trovare l’insospettabile colpevole nella chiusa comunità locale.

Dopo alcune prove fantasy per ragazzi, l’ottimo esordio letterario dell’insegnante d’italiano Luca D’Andrea (Bolzano, 1979) ha conquistato lettori in decine di Paesi, una lettura interessante e appassionante, favorita da un intenso editing. L’alta quota primordiale rende possibile descrivere inconsueti paesaggi, scene, emozioni, umori noir, all’interno di ancestrali paure, di articolate relazioni affettive e di un vero drammatico intreccio giallo. La trama serrata individua via via tanti possibili responsabili dell’antico truculento eccidio di alcuni ragazzi. Non è certo che nel finale porti tutto rispetto alle ultime ore di un presunto omicida, forse la questione è poco rilevante, resta un’intensa narrazione in prima persona con un buon ritmo, che intreccia presente e passato, analogamente pericolosi. In montagna niente inquinamento luminoso, niente smog. Verena sa che Darwin aveva ragione e crede in Dio. Quando la mente di Jeremiah (imbottita di farmaci e di incubi) fa finalmente clic è come se la roccia (con l’ecosistema e le specie di milioni di anni fa) venisse a tal punto intaccata dall’odio da riportare alla luce la sostanza del male, l’indicibile sepolto nel cuore di ogni essere umano, con tracce in copertina (di pesce più che di scorpione marino). Molto elettrizzante, potente e sexy rock’n’roll, soprattutto i Kiss. Canederli, speck, vino (un costoso Krafuss del 2008) ma soprattutto grappa (anche al peperoncino).

 

Luca Poldelmengo

«I pregiudizi di Dio»

Edizioni e/o

188 pagine, 16 euro

Roma e valle dell’Aniene. Primavera. L’ateo integerrimo commissario Andrea Valente soffre; dopo un decennio di sezione omicidi alla squadra Mobile romana l’immatura bionda moglie Alice lo aveva lasciato solo col piccolo biondo Lorenzo e aveva subito pure un trauma cranico e una pistolettata sul lavoro; durante la convalescenza gli era venuta una forma di epilessia jacsoniana, poi lo avevano trasferito al comando della polizia giudiziaria di Tivoli, capo del distaccamento di Villalba, vive lì vicino con figlio e suocera, un’insolita frangetta castana nei capelli con la riga, sopra la cicatrice. Il cinico ispettore quarantenne Marco Alfieri nonostante tutto soffre; è figlio del vicecapo della polizia, imboscato in vari uffici, appena nominato vice nello stesso distaccamento, gira in Audi A3 e frequenta centri massaggi con amplessi vista biondo Tevere; pensava di aver eliminato per vendetta l’assassino dell’amata sorella ma scopre che era un mandante non l’esecutore. Pure la bella e fragile commissario trentottenne Francesca Ralli soffre; ha preso una seconda laurea con lode, pratica alla grande la kickboxing, segue intelligenti studi avanzati anche d’inglese, fa carriera ma va dallo psicanalista; continua a essere innamorata di Andrea dopo una vita che lo frequenta, una sola notte di passione, un’intensa amicizia e un’asincronicità amorosa; finché non la mandano a seguire il caso del cadavere rinvenuto nella zona di Andrea e Marco. Si tratta di Margherita Lazzerini legata, sodomizzata con un oggetto di legno, percossa, infine strangolata e gettata in un fosso. Sarà stato il laido e bugiardo marito, fedifrago seriale e amministratore di un forum hard? Chi altro?

Dopo altri cinque bei romanzi (dal 2009) l’ottimo sceneggiatore Luca Poldelmengo (Roma, 1973) conferma qualità letterarie e concentra l’attenzione su tre diversi poliziotti in un nuovo intreccio in terza varia (con incursioni in prima e in corsivo), ripresentando alcuni dei personaggi di un precedente romanzo del 2012, «L’uomo nero», con uno stile tutto diverso, questa volta in qualche modo empatico verso i loro punti di vista. Soprattutto quello del “cattivo” Marco che in pubblico mostra un qualche fiuto investigativo e in privato dà una vera mano al vedovo Sergio e al figlio Valerio della sorella. Ne vien fuori un noir più sfaccettato, tre fili di pensieri investigativi e affettivi non paralleli, a due a due conflittuali e affiatati, sicché il bianco e il nero, amare e detestare subiscono un meticciato. All’inizio li divide anche il giudizio su Begucci, il marito di Margherita, dipende dal proprio stato d’animo prima che dalle prove. Tuttavia, il padre del commissario gli ha insegnato almeno una cosa decente: “Il bene e il male sono solo i pregiudizi di Dio”, da cui il titolo e la sostanza del libro. Sulla scena del truculento crimine vengono puntati riflettori e clamori, a un certo punto un mostro va sbattuto in prima pagina. A prescindere. Mentre altri mostri continuano comunque ad agire, braccati senza regole e senza pubblicità. Poco spazio per musicalità ed enogastronomia, non è necessariamente un male in un romanzo.

 

 

Redazione
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