Calabria, sui sentieri dell’inferno
Attraversando i luoghi dove furono massacrati i seguaci di Pietro Valdo
di Pierluigi Pedretti
«Per i calabro-valdesi le tracce in grado di suffragare la persistenza del loro credo religioso sono molto labili, quasi inconsistenti, dal momento che è andata dispersa la maggior parte delle fonti necessarie a questo scopo. Una damnatio memoriae che ha contribuito ad alimentare la leggenda di una fede fugace, fragile, non in grado di sopravvivere all’eccidio del 1561». (Renata Ciaccio, «L’inferno è dirupato: i valdesi di Calabria fra resistenza e repressione», Zamorani editore).
Chissà se la signora Vincenza ha sangue valdese nelle vene? Me lo chiedo mentre in questo tardo pomeriggio di luglio entriamo sfiniti nel suo accogliente bar di Caldopiano di Montalto Uffugo (Cosenza). La fisionomia sembra tradire, contrariamente allo stereotipo della calabrese, tratti insoliti, che si direbbero “nordici”, della Occitania appunto. Dei valdesi sembra anche dimostrare la mitezza e la operosità, così tanto apprezzata all’epoca dai feudatari cosentini, nei cui territori fin dal ‘300 si erano trasferiti dalle lontane valli piemontesi. Mentre ci serve un caffè rigenerante, dopo la lunga e pericolosa discesa che ci ha portato giù da Croce di Paola, ripenso alla tragedia dei seguaci di Pietro Valdo.
Siamo ai piedi della Catena Costiera paolana. Partiti alcune ore prima da Gesuiti – tristo nome per i valdesi – con Angelo ed Enzo abbiamo attraversato con le nostre bici a ogni pedal sospinto luoghi che ricordano la loro triste epopea e lo scontro coi cattolici. Mentre pedalavo lassù sulla cima dei monti, ho immaginato per questi grandiosi boschi appenninici intere famiglie in fuga, inseguite da cani feroci e pendagli da forca assoldati dai fanatici dell’Inquisizione, i domenicani Valerio Malvicino e Alfonso Urbino.
Nessuno dovrebbe dimenticare cosa accadde in quell’inizio estate del 1561 ai valdesi delle terre di Montalto, San Sisto, San Vincenzo e di tutte le piccole comunità sparse fra il versante interno o di quello tirrenico, come Guardia. In questo periodo dell’anno la Catena Costiera è uno spettacolo rigoglioso di corsi d’acqua cristallini, di boschi di querce, di lecci e castagni, con faggi e pini verdissimi sulle cime più alte. Percorrere a piedi, o in mountain bike come abbiamo fatto noi, questi luoghi, i suoi sentieri, vuol dire capire quanto bella e fragile possa essere la vita degli uomini di fronte alla violenza della Storia e alla forza della Natura. Vuol dire soprattutto non dimenticare. Non era stato sufficiente per molti valdesi di Calabria l’abiura e la conversione forzata, non era bastato l’obbligo del digiuno settimanale o – per marchiarli – indossare “ l’abitello”, né era stato sufficiente il divieto di sposarsi fra di loro, né di usare la lingua materna, il franco-provenzale. La Chiesa di Roma non si fidava e iniziò la mattanza. Sessanta valdesi furono uccisi a san Sisto, a Montalto fu atrocemente tagliata la gola a oltre ottanta di essi, lasciati dissanguare come animali da macello, con i corpi impalati sulla strada per Cosenza. A Guardia undici giorni durò la strage: circa duemila persone furono massacrate, mentre altre centinaia di “eretici” vennero trucidati nei boschi, nelle campagne e nelle foreste costiere.
Eccoli. Li rivedo aleggiare intorno a noi mentre percorriamo gli acciottolati che ci portano dalla Ventulilla alla Carrara. No, non è il vento, sento i respiri degli sventurati mentre scendiamo lungo il fitto bosco di Luta, alla cui sorgente ci abbeveriamo come avevano fatto loro, terrorizzati, secoli prima. E soprattutto so che mi guardano mentre medito sul Male davanti alla statua di san Francesco di Paola, portata lassù sul crinale da qualche devoto, ignaro che in quel punto si incrociavano i sentieri che univano per amore, commerci e comune fede i valdesi dei due versanti. Siamo ormai sulla cresta, lo straordinario spettacolo della costa tirrenica si spalanca davanti ai nostri occhi. Sull’acrocoro, a nord, c’è la Guardia (ora Piemontese). Con la mente vedo la Porta del Sangue, detta così per il sangue versato dai valdesi innocenti, che scendeva copioso lungo le ripide vie fino alla porta principale del paese.
Non era bastato loro nascondere la fede per salvarsi. Non facevano proselitismo, commentavano la Bibbia solo in case private, ricevevano visite discrete dai loro “barba” (i sacerdoti) e perfino partecipavano ai riti esteriori della Chiesa cattolica. Tutto inutile. Oggi non è più tempo di celare la propria fede, ma mi piace pensare che in questi luoghi ancora qualcuno professi il cristianesimo riformato di Valdo, che ne parli la lingua e conservi le tradizioni degli antenati occitani. E se fosse la signora Vincenza?
LE TRE IMMAGINI SONO di San Sisto, San Francesco e della Porta del sangue. In “bottega” si è parlato molte volte dei valdesi: sulle stragi in Calabria vedi in particolare Scor-data: 11 giugno 1561