Si alza il vento: il vecchio Drago…
… ha soffiato. Viaggio a Roghudi, il nido di pietra
di Santa Spanò (*)
Rocca tu Dracu, Roghudi (RC) |
È cieco il Drago, lui ti fiuta. Custode antico del tesoro, annusa la tua avidità. Si staglia enorme tra la terra e il cielo pretendendo il suo tributo: un neonato maschio, un gatto maschio nero ed un capretto maschio. Solo così cederà il suo tesoro.
Questo raccontano, questo vuole la leggenda. E un giorno lontano. No, s’inizia sempre con c’era una volta.
C’era una volta una povera madre che mise al mondo un maschietto deforme, così orribile che la mammana per non dare un dolore alla misera famiglia lo avvolse in degli stracci e lo consegnò a due miserabili. Il corpicino doveva sparire, per i genitori era nato morto. I due compari non ci misero molto a cogliere l’occasione, si ricordarono del tesoro e in ben che non si dica trovarono il capretto e, ci misero un po’ di più, il gatto nero. Eccitati, impauriti, ma la cupidigia si sa è una molla peggiore della fame, di buon passo raggiusero la rocca del Drago. Prepararono tutto per il sacrificio, sgozzarono senza battere ciglio i due animali, ma al momento di affondare la lama nel corpicino dello sventurato, accadde l’inaspettato. D’improvviso si alza il vento, una tempesta furiosa, mulinelli di terra e stoppie che risucchiano uno dei due farabutti scaraventandolo giù per un dirupo uccidendolo. All’altro sarebbe toccata la stessa misera sorte se non avesse corso senza mai voltarsi in dietro. Per sua sfortuna sopravvisse, perseguitato fino alla morte da un demone spietato. Nessuno da allora osò più sottrarre al grande Drago di vento il suo tesoro.
Roghudi Vecchio (RC) |
Mi trovo sul crinale ionico del massiccio dell’Aspromonte, e più precisamente nella vallata dell’Amendolea cuore dei greci di Calabria. Montagne nude, paesi solitari, dirupi e silenzio accompagnano il viaggiatore. La strada: tornanti in continue discese e risalite. Profumi di origano selvatico e ginestre. Macchie di ulivi, gelsi, precipizi e ancora fichi, castagni, querce aggrappati a quell’unica strada.
E in fondo dove tutto sembra terminare, a strapiombo sull’abisso appare Roghudi. Un nido di pietra.
«…Venni stupito da Rochudi,
non so come vivono quei meschini;
è costruito sopra uno spuntone,
è circondato, nel mezzo di due fiumi…»
Cantavano così i rivali bovesi ai vicini roghudesi e loro erano di casa in questa terra ostile. A 700 metri sul livello del mare, Rughudi definito da qualche penna “il paese più respinto del mondo”, è una macchia di case immobili alla furia, nei periodi di piena, dei due torrenti che lo stringono ai fianchi, l’Amendolea e il Furria. Povere case, cucina e letto senza distinzione, una democrazia che abbracciava anche le galline. E i grossi chiodi fuori delle case dove fissare le corde per legare i bambini. La cosa più facile a Roghudi era precipitare nel vuoto, tutto il resto era fatica.
Roghudi Vecchio, le strade – foto di M. Strati |
Si può immaginare, come scrive Tucidide, che gli ateniesi sbarcati nella locride nel 427 a.C. alla guida di Lachete si siano spinti fin qui, ma forse è una mia fantasia. Fatto è che la lingua, i costumi, il temperamento della popolazione era diverso dai paesi confinanti.
Con certezza la sua presenza è contemporanea agli altri paesi grecanici già dal XI secolo e tra alterne vicende fu venduto e restò sotto il dominio dei Ruffo di Scilla sino al 1806.
Colpito dalle alluvioni del 1971 e la successiva e più disastrosa del 1973 è oggi l’ennesimo borgo fantasma, meta di escursionisti, appassionati di torrentismo o mountan bike.
Il Buco del Furria, torrentista in discesa |
Ma il paesaggio nella sua spietata crudezza e povertà ha un fascino fuori dal tempo. Un fermo immagine che si può cogliere in alcune scene del film Corpo celeste di Alice Rohrwacher, girato tra Reggio Calabria e Roghudi. Uno spaccato duro di ciò che è la nuova società delle periferie e lontano nella vecchia chiesa di Roghudi il senso, forse, di ciò che si è perduto.
Roghudi, interno della Chiesa di S. Nicola – Scena tratta dal film Corpo Celeste |
Rimangono testimoni di quella vita amara queste rocce smarrite e ciuffi di erba nana che precipitano nel bianco del torrente, qui le donne lavoravano la ginestra, sfregando i giunchi a mani nude nella sabbia dell’Amendolea.
Lavorazione dei giunchi di ginestra |
Coperta realizzata col filato della ginestra |
A guardia da lontano, a pochi chilometri dalla piccola frazione di Ghorio, la Rocca tu Dracu e Ta vrastaruccia tu Dracu. Una roccia metamorfica e sette groppe di pietra. È il Drago della leggenda, un monolito con tre cerchi, simboli arcaici di un passato sicuramente pagano, il Drago si dice cieco, mi ricorda Fàfnir il drago della mitologia scandinava, il verme avido che custodisce il suo tesoro, lo guardo enorme sbucare dalla terra.
Rocca tu Dracu, particolare |
Poco distante l’altra roccia che si modella in sette sfere, oggi solo sei, una è stata danneggiata durante un intervento conservativo dell’area (si conserva così da queste parti!), la formazione è denominata in grecanico Ta vrastaruccia, ossia il paiolo usato dai pastori per il latte.
Ta vrastaruccia tu Dracu, particolare |
Un drago che soffia vento e si nutre di latte, Ta vrastaruccia servivano infatti al drago per nutrirsi, erano le sue “ciotole” per il latte.
Ta vrastaruccia tu Dracu |
Mi rimangio il rimando a Fàfnir, penso a un gatto sornione che come ritengono i monaci zen sia in grado di “mostrare la via”.
Perché lasciare Roghudi non e impresa facile!
Scenari ora fantastici, ora desolanti. Silenzio ed esplosioni di colori. Avrei voluto lasciarvi nelle immagini una visione intatta di questa natura, mettere l’uomo nell’angolo, in castigo, lo uso come riferimento di misura mi pare un ruolo adeguato.
Cascate dell’Amendolea e il profumo dei fiori di ginestra |
Si chiude così il mio secondo itinerario in Calabria, l’ultimo. Concluderò questo viaggio in un prossimo post, amo le trilogie, con alcune segnalazioni insolite.
Turpe est in patria vivere et patriam ignorare, avrebbe detto Plinio.
(*) Ripreso da «La santa furiosa» – lasantafuriosa.blogspot.it