Camilleri, Cianciullo, Ferrante, Sgorbati Bosi….

e Wrangham con le coppie Giorello-Donghi e Mussardo-Polizzi

7 recensioni di Valerio Calzolaio

 

Richard Wrangham

«Il paradosso della bontà. La strana relazione tra convivenza e violenza nell’evoluzione umana»

Bollati Boringhieri

464 pagine, 28 euro

Terra. Da centinaia e decine di migliaia di anni. In tutto il mondo gli esseri umani sembrano possedere la stessa propensione sia alla generosa virtù che alla perfida violenza, una combinazione paradossale di altruismo ed egoismo. Tradizionalmente esistono due spiegazioni: l’elemento innato sarebbe la docile tolleranza ma poi la vita sociale corrompe; l’elemento innato sarebbe l’aggressiva cattiveria ma poi cerchiamo di migliorarci, dovendo convivere. Entrambe risultano parzialmente giuste e parzialmente sbagliate. Per capire meglio il mix comportamentale può essere utile ricordare che la selezione naturale favorisce un’ampia gamma di inclinazioni e studiare quali e come si sono affermate fra gli altri animali, soprattutto fra uccelli e mammiferi, ancor più fra i primati come noi; in particolare, è sorprendente e significativo che bonobo e scimpanzé mostrino opposte prevalenze. Da indagini interdisciplinari comparate è così emersa un’essenziale distinzione fra due differenti tipi di comportamenti aggressivi violenti, intesi come gamma complessa di abilità biologiche ed emozioni: quelli reattivi (a caldo, difensivi, impulsivi, rabbiosi, affettivi) e quelli proattivi (a freddo, offensivi, premeditati, mirati, bellici). Noi sapiens abbiamo evoluto un valore ridotto dei primi ed elevato dei secondi. Differiscono non solo per spiegazione e frequenza, ma anche per il modo in cui sono visti dall’opinione pubblica e dalla legge (per esempio come colpa o dolo). Entrambe le aggressività, poi, ebbero una svolta fondamentale con lo sviluppo sapiente del linguaggio articolato e simbolico.

Il famoso primatologo inglese Robert Walter Wrangham (1948) docente di Antropologia Biologica all’Università di Harvard, pubblica un libro sull’ampiezza dello spettro morale nell’evoluzione del genere umano. Nel primo capitolo documenta le differenze comportamentali tra specie umane, scimpanzé e bonobo: l’aggressività si è evoluta in modo diverso in ciascuna specie. Nel secondo individua la domanda chiave: perché abbiamo la virtù di una scarsa aggressività reattiva e il vizio di una notevole aggressività proattiva? Seguono una decina di approfonditi capitoli: le somiglianze tra animali domestici ed esseri umani (forse anche noi una versione addomesticata di un antico progenitore); i nessi tra l’insorgenza di nuovi caratteri fisici e di alcune modifiche comportamentali mansuete, di riduzione dell’aggressività reattiva; il caso dei bonobo come specie autodomesticata; il possibile caso dei sapiens come originariamente (da 300.000 anni) già contrassegnati da una sindrome da domesticazione; la differente evoluzione connessa a come si è impedito agli individui maschi alfa (“naturalmente” aggressivi) di dominare sempre e comunque sugli altri (grazie alle femmine o ad altri accorgimenti sociali); l’impiego della pena capitale nelle società umane (su media o ampia scala), ovvero l’esecuzione come pressione selettiva per costringere i dominanti a conformarsi alle norme della convivenza di gruppo; la comparazione fra due differenti specie umane come neanderthal e sapiens; il ruolo della morale e delle connesse critica e reputazione; la complementarietà dell’evoluzione verso l’aumento dell’aggressività proattiva e di società gerarchiche e dispotiche; la guerra e le guerre rispetto a tutto ciò. La conclusione ritorna appunto sul paradosso del binomio umano bontà-cattiveria, da cui il titolo. La natura umana è una chimera, la combinazione di tendenze contrapposte. La sfida più difficile è la capacità sociale coalizionaria, ridurre la nostra capacità di compiere la violenza organizzata; anche per questo Wrangham, pur consapevole di alcuni benefici che la pena capitale portò in un lontano passato, si schiera da tempo e nettamente per la sua attuale illegittimità e inutilità. Completano il volume ricche note, ampissima bibliografia, discreto indice analitico.

 

Elena Ferrante

«La vita bugiarda degli adulti»

Edizioni e/o

330 pagine, 19 euro

Napoli. Fine inverno 1992-fine primavera 1995. Giovanna Trada è nata il 3 giugno 1979, quando i genitori Andrea e Nella avevano lui 32 e lei 30 anni. L’esile padre è professore di storia e filosofia nel liceo più prestigioso di Napoli, intellettuale abbastanza noto in città, disponibile a molto richieste lezioni private per arrotondare il modesto stipendio; la madre insegna latino e greco in un altro liceo, corregge bozze di storie e romanzetti rosa, e talora ne scrive, per arrotondare a sua volta. Vivono nei quartieri benestanti, in cima a San Giovanni dei Capri al Rione Alto (sopra il Vomero); le hanno spiegato tutto sulla sincerità e sul sesso, leggono tantissimo, fanno spesso riunioni importanti fuori e dentro casa, sono legati ai colti benestanti coetanei Mariano e Costanza con le due figlie Angela e Ida, pensano con cura se devono dire qualcosa, cercando di mantenere sempre gentilezza e proprietà di linguaggio. Una sera di febbraio 1992, Giovanna, che è in terza media e non va molto bene a scuola pur studiando molto, ascolta per caso una frase che nella loro camera il padre (due anni prima di andarsene poi di casa) dice sottovoce alla madre a commento dell’informazione sul deludente risultato dei colloqui con gli insegnanti. “L’adolescenza non c’entra”, Giovanna “sta facendo la faccia di Vittoria”, ovvero della brutta e malvagia sorella minore (quasi 40enne). La dodicenne si sente sconvolta e ferita in un periodo di fragilità e svogliatezza: da un anno ha avuto le prime mestruazioni, si vergogna per come si sente cambiare dentro e fuori (odori e languori, seno in crescita, capelli e peli in trasformazione), adora i genitori e soprattutto il padre che le hanno dipinto una zia pessima povera sciatta, infrequentabile, tenendola dunque a distanza, nei quartieri bassi con gli altri parenti. Impara a dire bugie, decide di conoscere Vittoria e diventa Giannina, per la zia e per un po’. Vittoria, in realtà, è alta e bella, vive nel ricordo del grande amore Enzo insieme alla di lui moglie vedova Margherita e ai figli del matrimonio, Tonino, Corrado e la splendida Giuliana fidanzata con il mitico Roberto di cui s’invaghisce, primo vero amore.

Chiunque sia, Elena Ferrante è napoletana di fatto e diritto, forse; nata nella prima metà degli anni cinquanta, forse; oggi probabilmente la più brava scrittrice italiana, certo quella di maggior meritato successo, nazionale e internazionale. I suoi romanzi sono ruvidi e trasudano lividi, slabbrature, smargini. Narra meravigliosamente in prima, un continuo flusso di coscienza momentanea e retrospettiva, in questo caso in parte un filo di un racconto adolescenziale reinterpretato, in parte un dolore arruffato e senza redenzione. Affronta i momenti essenziali di tre anni importanti, individueremo poco del prima e sapremo nulla del dopo, solo che Giovanna è viva e pensa ancora molto. Con acume e interesse incontreremo alcune di quelle persone che la circondarono allora, non i compagni di classe e i docenti al liceo del Vomero, non altri amici e conoscenti inevitabilmente frequentati, solo le relazioni essenziali e funzionali. Non è e non ha un’amica geniale, impara sola a non essere più bambina. Scopre il chiacchiericcio supponente dei colti, gli amori molesti, i giorni dell’abbandono, la genitorialità e la figliolanza oscure, le frantumaglie della coscienza adulta in cui sta entrando, chi fugge e chi resta, i mille modi di stare (male) al mondo, la vita bugiarda a tratti di tutti i grandi piccoli uomini (e donne), da cui il titolo. A ogni nitido ricordo delle scoperte di quegli anni, accenna a quel che “oggi” potrebbe forse aggiungere, da donna, 25 anni dopo. Non fa sconti: lei e ogni personaggio risultano ovviamente “impuri”, doppi o plurivalenti nei comportamenti concreti e nella comunicazione affettiva. L’autrice è stata capace di inventare un genere letterario proprio, al confine di tanti e questa è la forte continuità con i quattro volumi che l’hanno resa famosa nel mondo. Così non manca nemmeno un filo noir, un “falcone maltese” luogo tutto il racconto, il braccialetto d’oro, di origine e influsso contrastanti. Si fanno azioni che sembrano azioni e invece sono simboli. E alcuni pensieri sprigionano a volte una forza latente, afferrano immagini contro la tua volontà, te le spingono per una frazione di secondo sotto gli occhi. Da leggere!

 

Andrea Camilleri

«Autodifesa di Caino»

Sellerio

84 pagine, 8 euro

Caracalla. 15 luglio 2019. Il fratello cattivo si doveva presentare in scena come primo assassino della storia umana, per esporre finalmente le sue ragioni. Lo straordinario contastorie Andrea Camilleri (Porto Empedocle, Agrigento, 6 settembre 1925 – Roma, 17 luglio 2019) aveva scritto lo splendido inedito monologo dedicato alla “Autodifesa di Caino” che quest’estate avrebbe dovuto esporre al pubblico (come già a Siracusa per le conversazioni su Tiresia). Lo spettacolo saltò perché era malato e non si è più ripreso. Il volume ci consegna testo, sceneggiatura, bibliografia. Sullo schermo di scena sono previste immagini di guerre e morti, mentre la prima persona narra il Vecchio Testamento dalla Genesi e spiega che Adamo (“non lo chiamerò mai mio padre”) non si mise d’accordo con Lilith su come fare sesso e procreare, finché da una sua costola fu modellata un’altra donna. Frasi celebri e personaggi biblici sono tutti ricostruiti rispettosamente con spirito critico e pensiero ironico.

 

Giulio Giorello e Pino Donghi

«Errore»

Il Mulino

120 pagine, 12 euro

Science fiction e no fiction. Da sempre. Sugli schermi dei nostri PC talora compare un messaggio difficile da ignorare. “System error”. Obsolescenza ed errori sono programmati, non si aggiustano, bisogna resettare e ricominciare, spegnere e riaccendere. Al tempo della società controllata dagli algoritmi, se cadiamo in una situazione imprevista dalla procedura, è impossibile per l’utente ritornare dentro una qualche configurazione gestita, se ne deve occupare il dio-architetto-progettista. La trilogia cinematografica di Matrix lo aveva già mostrato sul grande schermo: l’errore è proprietà e funzione della programmazione originaria, prescinde dal concreto operare e dalle eventuali improbabili emozioni sia degli schiavi che dei ribelli. L’imprecisione corrisponde a imperfette libertà ed emozioni, la perfezione è a prova di errore. Bizzarro. Homo sapiens e la straordinaria civiltà che è riuscito a costruire sono frutto della sua naturale propensione alla scoperta di nuovi mondi e all’altrettanto ineludibile attitudine al racconto, dipendono in sostanza dagli innumerevoli errori di trascrizione genetica alla base di quel processo evolutivo scoperto da Darwin e ben interpretato dai successivi filosofi della scienza capaci di elogiare proprio gli errori (Mach e Popper soprattutto). Conoscenza ed errore dipendono da medesimi meccanismi psichici e solo il risultato permette (transitoriamente) di distinguerli. L’errore è il motore stesso della ricerca, un’impresa collettiva (di colleghi e rivali, falsi e veri, per scelta o per caso) e mai solo individuale. Per questo la politica dovrebbe ispirarsi un poco di più al dibattito scientifico, almeno nella modalità argomentativa di ciascun protagonista e gruppo di parte, consapevole che ogni azione e ogni progettualità producono conseguenze, sovente inattese, qualche volta sgradevoli. Triste ma frequente che si dia purtroppo torto a quest’ineccepibile esigenza.

Con garbo e stile il grande epistemologo Giulio Giorello (Milano, 1945) e l’eccellente divulgatore scientifico Pino Donghi (Roma, 1957) tornano sulla potenza euristica dell’Errore. Non è un trattato organico, non è un compendio esaustivo. L’agile volumetto parte dall’attualità informatica e dall’immaginario collettivo per introdurre la svolta dell’evoluzionismo che struttura la biologia, anticipa e indirizza la genetica. Senza errori non c’è evoluzione, senza errori non c’è progresso della conoscenza. Le idee buone vengono dalla tradizione filosofica, dalle letture spregiudicate, dalle intuizioni creative degli scienziati. Un significativo capitolo è dedicato alla meraviglia biologica del nostro corpo e agli errori in medicina, rari, non augurabili e spesso prevenibili, ma mai inconcepibili. Come in tutte le attività umane, periodici errori sono inevitabili, di regola non causati dalle azioni di un singolo e tantomeno intenzionali. Certo, c’è sempre una responsabilità (colpevolezza) basata sull’elemento della scelta, proprio la riflessione sulle circostanze (talora attenuanti) degli errori nell’esercizio della relazione fra medico e paziente, fra sanità e pubblico, costituiscono un’insostituibile occasione per il miglioramento del sistema stesso, oltre che per la corretta valutazione dell’innegabile individualità della risposta a trattamenti e cure ed eventualmente per risarcire le vittime occasionali. Gli autori giustamente sottolineano come sia cruciale in medicina (e, per certi versi, in politica, aggiungo) l’erronea percezione del potere del medico (dell’amministratore e del dirigente) nella relazione terapeutica (e associativa). Ogni scienza è una grande arte dell’approssimazione. Conta il principale fattore umano, pensare: il volume si chiude con l’esemplare citazione del caso (2009) del pilota americano di aerei Sullenberger meravigliosamente portato al cinema da Eastwood e Hanks (2016), Sully. Sfruttiamo al meglio il grande futuro che l’errore ha davanti a sé.

 

Antonio Cianciullo

«Un pianeta ad aria condizionata. Chi paga il conto del global warming?»

Aboca

232 pagine, 16 euro

Ecosistema terrestre. Futuro incerto. I cambiamenti climatici antropici globali il grande giornalista Antonio Cianciullo (Roma, 1954) li racconta fin dalla Commissione Brundtland, il primo rapporto IPCC (1990), la conferenza di Rio e la convenzione Onu (1992), le conferenze delle parti (comprese 3° Kyoto 1997 e 21° Parigi 2015). Dopo il bel saggio dell’anno scorso sulla speranza per una “Ecologia del desiderio”, prende spunto dalla recente documentazione scientifica e dai movimenti del 2019 (grazie anche a Greta Thunberg) per suggerire alcuni ingredienti (atteggiamenti e comportamenti, individuali e collettivi) di una risposta convincente al caos climatico, a sicurezza e migrazioni. I capitoli: un’arca per tutti, il falso bersaglio, morire di pioggia, ecologici e solidali, il primo allarme, il grande caldo, la destabilizzazione emotiva, “Un pianeta ad aria condizionata” (titolo del libro), una lezione dal passato, il futuro si organizza. Stile colto, chiaro competente.

 

Francesca Sgorbati Bosi

«Non mi attirano i piaceri innocenti. Costumi scandalosi nella Parigi del Settecento»

Sellerio

334 pagine, 18 euro

Parigi. XVIII° secolo. L’annoiata battuta della principessa de Longueville (1619-1679), “Non mi attirano i piaceri innocenti”, divenne lo spiritoso motto del secolo successivo quando tanti (di quelli che potevano) preferirono i piaceri proibiti ai leciti, e alcuni diletti degenerarono progressivamente in oscene parodie. La “migliore” società visse una sorta di doppia vita in cerca di amori mercenari e clandestini. La poliedrica Francesca Sgorbati Bosi (Cesena, 1958) continua a guidarci nella Francia del Settecento, dedicandosi questa volta a illustrare l’evoluzione verso amori smodati per il sesso, per il gioco d’azzardo, per commedie centrate su seduzione e adulterio, per maliziose cene galanti, per la pittura erotica, per gli ingredienti culinari afrodisiaci, in un contesto sociale di fango e champagne, d’inferno e paradiso, descritto anche grazie ai rapporti di polizia su corte, magistratura, borghesia e su note donne cortigiane, prostitute, ruffiane, tenutarie, lesbiche.

 

Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi

«L’infinita scienza di Leopardi»

Scienza Express

192 pagine (più immagini) per 29 euro

Recanati e Cosmo. 1798-1837, prima e dopo. Una strenna più che un saggio. Della biografia di Leopardi si sa già molto. Di storia della scienza si sa ogni giorno qualcosa in più, per definizione. Leopardi, poi, ha scritto molto con riferimento a varie scienze e sulla sua scientifica filosofia si continua a dibattere da un secolo e mezzo. Eppure, mancava finora una riflessione come quella articolata nel bel volume intitolato alla “infinita scienza”, ovvero alla ricercata poesia del ragionamento leopardiano e alla cura terminologica del narrare leopardiano, nel contesto della nobile letta biblioteca e dell’evoluzione scientifica successiva. Gli autori, dopo aver ricordato sommariamente le tappe principali della vita dell’illustre recanatese, distinguono con rigore tre grandi temi: l’astronomia, o più in generale la cosmologia, ovvero la scienza del cosmo e delle sfere celesti; la chimica, la scienza della materia e delle sue innumerevoli trasformazioni; l’infinito in tutte le sue molteplici accezioni, anche quelle di una disciplina matematica che meno interessava Leopardi. Colpiscono il ritmo e lo stile del testo. Dichiaratamente e continuamente intrecciano temi scientifici e citazioni accurate, lo stato dell’arte al momento delle letture e delle fascinazioni di Leopardi (quel che poteva o non poteva avere in qualche modo studiato o valutato o sperimentato lui stesso con strumenti del laboratorio) e le intuizioni o le carenze connesse agli sviluppi seguiti alla sua morte, con intermezzi e parentesi sui nomi dei grandi scienziati o sul succo delle grandi scoperte nelle varie Fisiche scienze e la segnalazione degli eventuali possibili ulteriori approfondimenti in materia. Le questioni dotte vengono spiegate con semplicità, sia quando il riferimento è al grande autore della letteratura italiana, sia quando è alla disciplina. Ogni parte si chiude con oltre una decina di pagine di foto e immagini antiche e moderne, disegni ritratti grafici con a fianco la ripetizione poeticamente appropriata di brevi passi del testo.

Il docente di fisica teorica Giuseppe Mussardo (Sogliano Cavour, 1959) e il filosofo della scienza Gaspare Polizzi (Trapani, 1955) illuminano il notissimo profilo di Giacomo Leopardi con una luce diversa e da un’altra angolazione. Leopardi visse meno di 40 anni, la sua corposa “Storia dell’Astronomia” fu iniziata nel 1811 quando aveva 13 anni e completata nel 1813, il suo componimento più noto è il breve “Infinito” del 1819, elaborato nella sofferenza quando ne aveva 21 e affinato fin quasi alla morte. Occorre essere accorti quando si compara l’età in specifici ecosistemi umani di secoli fa con i ritmi biologici e culturali di oggi. Gli autori sottolineano l’evidente enorme contrasto tra le opere giovanili e quelle della maturità: “nulla fino a sedici anni preannuncia quello che sarà dopo”. All’interno di un passaggio cruciale di svolta (verso i 16 anni probabilmente), dovendo pur distinguere almeno due grandi fasi del pensiero e della scrittura, l’interesse per la scienza non è una novità e non viene abbandonato, resta grande e costante. Questi sono, dunque, gli elementi da sottolineare: sempre un pensiero e un’attitudine scientifici leopardiani, evoluzione del ruolo assegnato alle scienze nella riflessione sulla vita e nello scorrere dell’esistenza. Erudizione e poesia appaiono destinate a intrecciarsi. Il mondo non ha un unico senso e forse non ha proprio senso, nel viverlo e per sentirlo Leopardi considera l’approccio scientifico indispensabile, aiuta a limitare miti e pregiudizi (anche quando s’accorge che può creare maggiore infelicità), si ciba di verifiche empiriche che continuamente aggiornano e aggiustano le conoscenze vitali (anche quando sottolinea che esistono comunque le circostanze e altre biodiverse dimensioni della realtà, indecifrate o proprio indecifrabili). Giusto e bello. Infinitamente poeticamente infelice. “Qual sarà quel felice, il quale si creda d’esser felice abbastanza?… Chi è colui, che voglia esser felice per un certo lasso di tempo, e non più?… E questo desiderio di vita, che non ha termine alcuno, ove si fermi, e riposi, che altro è se non desiderio di eternità?”

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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