«Cara mamma»

La follia, la camorra, i burocrati stronzi, Luigi Tenco, la libertà terapeutica. Perchè sta nella fatica il valore…

di Terravesuviana (*)

Wordle: cara mamma

CARA MAMMA 

Antonio Esposito

Vedrai, vedrai…

vedrai che cambierà, non so dirti come e quando,

 ma vedrai che cambierà…

Luigi Tenco

Cara mamma,

la cantavi spesso, soprattutto quando le fatiche quotidiane diventavano più dure, ed era difficile anche pagare l’affitto, una bolletta, un quaderno per mandarmi a scuola.

Tante volte era così, ma tu, con la fierezza ostinata dei tuoi trent’anni, non ti lasciavi abbattere, chiudevi gli occhi, sospiravi, iniziavi a cantare: «vedrai, vedrai, vedrai che cambierà». Poi passavi la tua mano sul mio ciuffo scapigliato di bambino. Ed io mi sentivo sicuro, forte di qualcosa che non sapevo si chiamasse amore.

Eri la mamma più bella dell’intero quartiere, di quella bellezza che regalano il coraggio e l’onestà.

Non era facile crescere da sola un ragazzino, tenere in ordine la casa, spaccarsi la schiena con secchi e stracci nelle abitazioni degli altri, di quelli che a volte ti chiamavano “la donna delle pulizie”, più spesso “la serva”. Ma tu non ti offendevi, quando dovevi portarmi con te nelle case dei “signori”, che non sapevi dove lasciarmi, mi dicevi sempre «La dignità è nell’onestà, nel fare bene quello che devi, perché sta nella fatica il valore, mica nelle banconote». E se eravamo poveri di banconote, allora eravamo davvero ricchi di valore, perché tu di fatica ti ammazzavi.

E forse sarà stato questo, forse chi sa, la malinconia di quella canzone, ma ad un certo punto hai smesso anche di cantarla. E di sorridere. E di parlarmi. E’ accaduto così, giorno dopo giorno, senza che nemmeno avessi il tempo per rendermene conto, per prendermi io cura di te.

E venne quel 30 aprile, il mio compleanno. Tornavo da scuola ed ero certo che anche quell’anno non avresti fatto mancare sul nostro tavolo una torta, la mia preferita, pan di spagna e cioccolata… ed il buio spezzato dalle candeline accese quando aprivo la porta.

Ed invece, quel giorno, ero ancora giù nel cortile quando dall’insolita folla vociante si staccò la signora Concetta, la nostra dirimpettaia: «Antò, Antò» mi gridò affannata «che guaio, che guaio… vieni qua è successo un guaio.. Maronna, Antò e comme te spiego?». Non capivo, tutti gli sguardi addosso, quelle parole confuse, un unico ritornello come cantilena «povero piccirillo… povero piccirilloe mo comme fa? povero piccirillo… povero piccirilloe mo comme fa?».

Dovetti divincolarmi dall’abbraccio sudato della Signora Concetta, raggiunsi il nostro pianerottolo ammezzato. La porta era aperta. Un via vai, anche qualcuno in divisa. Ero spaventato, continuavo a gridare: «Mamma! Mamma!»… finché la signora Concetta, venuta dietro di me, mi indicò ad un’altra signora. Non la conoscevo. Lei si avvicinò e mi disse: «Piccirì, vedi, tua mamma non si è sentita bene… L’abbiamo dovuta portare in ospedale. Ora tu qui non ci puoi più rimanere. Il fatto è che il papà non ce l’hai e nemmeno i nonni. Però in città c’è una zia di tua mamma, mo vediamo se lei ti vuole prendere».

Le parole, a volte, sono potenti, quel giorno trasformarono un bambino in un pacco.

La vecchia zia Teresa “mi prese”, ma passarono giorni senza che io sapessi cosa ti fosse realmente accaduto. Continuavo a chiedere: «Ma mamma come sta? Dove sta? Perché non mi porti da lei?». La zia, grossa e anziana, visibilmente preoccupata da questo ragazzino che, improvvisamente, avrebbe dovuto tenere con sé senza mai esser stata madre, mi rispondeva stanca «Che sta bene, sta bene, non ti preoccupare.. Presto torna, presto torna.. ha avuto solo un piccolo malore… vedrai che presto torna». Ma tu non tornavi e la zia mi tenne in casa per un’intera settimana senza lasciarmi uscire, nemmeno per andare a scuola, preoccupata che qualcuno avesse poi potuto raccontarmi…

Il lunedì successivo, effettivamente, accadde proprio così… Tornavo a scuola. Gli altri ragazzi mi guardavano un po’ straniti, addirittura il mio compagno di banco, quello stronzo di Luigi, sì perché era proprio uno stronzo, si era seduto accanto ad Antonio Maione, il secchione della classe… addirittura al primo banco, pure a rischio di essere interrogato… Quando la professoressa di matematica gli chiese cosa ci facesse lì, Luigi, secco, senza alzare la testa dal banco, rispose «Io a  fianco del figlio della pazza non ci voglio stare… non ci posso stare… me l’ha detto anche mia mamma».

Le parole, a volte, sono potenti, quel giorno mi dissero che sarei stato per sempre “il figlio della pazza”.

La professoressa lasciò cadere il discorso, e con tono sommesso si rivolse alla classe «vabbè, vabbè, pensiamo alle cose serie… aprite il libro a pagina cinquantotto, oggi facciamo le equazioni di secondo grado…». Stronzo Luigi e stronza la Professoressa…

Riuscii a subire in silenzio per quasi un’ora intera gli scherni dei miei compagni «Oh, belle le tette della tua mamma…», «Ma ora sta in manicomio?», «Quando si spoglia ancora ce lo dici che corriamo tutti?», prima di scoppiare in un «BASTA!!!», e poi in un pianto a dirotto che singhiozzava «Non so niente, non so niente, ma cosa volete da me? Lasciate stare la mia mamma».

Mi mandarono dal preside, chiamarono anche zia Teresa che corse a scuola per portarmi via. E finalmente, lungo la strada, mi raccontò: «Vedi Tonì, la mamma non è stata bene, non è stata bene con la testa… le è venuta la pazzaria, all’improvviso: si è spogliata, nuda, tutta nuda, e ha iniziato a ballare fuori al balcone. Hanno dovuto chiamare i dottori e le guardie, l’hanno dovuta portare in ospedale. Ora dobbiamo pregare la Madonna buona che ce la fa guarire».

Non capivo mamma, continuavo a non capire, non potevo capire… Perché eri stata male? Perché ti eri spogliata, tu che eri così pudica che pure se giravi in pigiama dovevano stare le tende chiuse? E perché ti avevano portato via, via da me? E tu non ci avevi pensato che mi lasciavi da solo?…  E poi pregavo mamma, ti giuro che pregavo, tutte le notti, almeno tre Ave Maria e due Padre Nostro,  chiedevo che tu stessi bene, che potessi tornare da me… Ma Dio, la Madonna e i santi forse erano già a dormire, perché tu continuavi a non tornare…

Finalmente, dopo alcuni mesi, la zia mi disse che mi avrebbe portato a trovarti, che eri uscita dall’ospedale e ora stavi in un altro posto, «una clinica» la chiamò «lì la possono aiutare veramente a guarire… ci stanno gli specialisti». Era domenica, misi il vestito buono, l’unico che avevo. Zia preparò anche una pentola con la pasta al sugo che chiuse con un nodo in uno strofinaccio. Prendemmo il tram e poi un autobus, salimmo in collina, non c’ero mai stato, era lontana, sembrava così lontana…

Il Frullone, così la chiamavano la clinica… ed io non sapevo che le cliniche fossero così grandi, imponenti, circondate dal muro, fatte di sbarre… Entrammo in un grande stanzone, non c’era nessun altro, un silenzio irreale… Fuori, nell’enorme giardino, ero riuscito a vedere alcune donne in camice bianco… andavano avanti e indietro, camminavano, giravano, sembrava senza alcuna meta, oppure erano come schiacciate sul muro, come se la forza di gravità si esercitasse in orizzontale e non più in verticale. Da allora seppi che esistevano anche «bucce di uomini sputati dalla sorte…».

Poi, all’improvviso, dei rumori, grandi chiavi nelle serrature e porte che si aprivano,… arrivasti nel salone, spinta su una sedia a rotelle, pulcinella in un camice bianco, lo sguardo perso nel vuoto, una smorfia a mortificare quelle labbra che avevano donato sorrisi. Zia Teresa si affrettò a chiamarti «Anna, Anna…» e si alzò in uno slancio per venirti vicino. Io rimasi pietrificato su quella seggiola di legno sgangherata.

«E’ inutile signora… è così da quando è arrivata… Ha perso la ragione… E’ come una pianta…», decretò impietosa l’infermiera.

Le parole, a volte, sono potenti, quel giorno ti fecero albero, amputando tutti gli abbracci che mi avevano cresciuto.

Ti portarono via dopo pochi minuti, mentre zia Teresa disperava le sue lacrime ed io ti guardavo di schiena, e non riuscivo nemmeno a respirare… Poi venne il dottore, ci spiegò che eri in uno stato catatonico degenerativo postumo di acuta depressione con fasi allucinatorie deliranti… E continuò con paroloni strani che non capivo, non potevo capire… Intuii solo il senso delle ultime parole che disse alla zia «Vede signora l’unica speranza è l’elettroshock… Dobbiamo provare a scuoterla… vediamo se così si riaccende il cervello…».

Le parole, a volte, sono potenti, quello stesso giorno ti avevano trasformato prima in una pianta ed ora in una lavatrice… Stronza l’infermiera, stronzo il dottore, stronza la clinica…

Uscimmo dal Frullone, salimmo sull’autobus senza mai parlare, io ti rivedevo su quella sedia, spinta nello squallore di quello stanzone… L’immagine si era trafitta a sangue nella carne, avvertivo come un freddo irreale, un gelo che irrigidiva ogni possibile gesto. Solo le gambe non riuscivo a tenerle ferme, rapite da un continuo tremore come se avessero voluto fuggire via. Ma non ne ebbi la forza. Tornati a casa, zia Teresa mi afferrò forte un braccio, fissò il suo sguardo sul mio volto, mi disse con voce fredda e ferma «Torneremo ancora a trovarla… vedrai poi starà meglio», ma non c’era più la disperata speranza dei mesi passati… solo una vuota disperazione «vedrai starà meglio.. torneremo ancora da lei… però mi devi promettere che ogni volta, quando usciremo dalla clinica non dobbiamo parlarne… né tra noi né con nessun altro». Le risposi con un gesto del capo, lei, come sollevata, mi strinse a sé un attimo, poi mi lasciò andare «Ora vai, devi studiare, ma ricorda sempre quello che mi hai promesso».

Così fu: venivamo da te una volta al mese, la terza domenica del mese. La scena si ripeteva sempre identica, solo che la zia aveva smesso di portare la pasta al sugo e non si alzava più dalla sedia quando tu entravi. E la smorfia sulla tua bocca era sempre bagnata da bava. I denti, i tuoi splendidi denti bianchi e gentili, quelli non c’erano più, spariti come avviene ai bambini. «E’ come un neonato>», disse una volta ancora il dottore, e allora pensai che più che un medico doveva essere Mago Merlino se era capace di trasformarti in così tante cose.

Per tre anni, per tre lunghi anni, è andata avanti così, trascinando la sofferenza in un rito, ché pure il dolore ha bisogno di inganni. E per tre anni, per tre lunghi anni, ho tenuto tutto dentro, senza dire mai nulla, senza mai parlarne a nessuno, senza mai parlarti.

Poi arrivò il 30 aprile, il giorno del mio compleanno. Il mio diciottesimo compleanno. Era un mercoledì freddo ma soleggiato. Decisi di farmi un regalo, venire da te per la prima volta da solo, senza la zia, senza una consuetudine ormai stanca da dover officiare. Sapevo che non avrei trovato la torta e le candeline a spezzare il buio, ma ormai mi ero abituato, sapevo che non li avrei trovati mai più.

Però, quel giorno, quando entrasti nello stanzone sulla sedia a rotelle, d’incanto, in un istante si accese il tuo sguardo: «Antonio»… ascoltavo di nuovo la tua voce, dopo tre anni, dopo tre lunghi anni… non sapevo che fare «Antò, figlio mio, auguri…». Avevi ricordato, non so come era accaduto, eppure sapevi, tu sapevi che era il mio compleanno. Scoppiai a piangere, finalmente, dopo tre anni, dopo tre lunghi anni, riuscivo finalmente a piangere e a lasciare quella sgangherata sedia di legno. Ti venni vicino, a stringerti, a baciarti «Piccolo mio» mi sussurrasti «ricordi quando bambino mi chiedesti cos’è la libertà?» No, non lo ricordavo, ma non importava, ti dissi «Certo mamma, perché?», «Perché forse non ti ho risposto bene. Vedi la libertà è poter prendere un bicchiere d’acqua quando si ha sete, grattarsi un piede quando senti un formica, girarsi supini quando non riesci a dormire. Figlio mio, se sei legata, mani, piedi, vicino alle sbarre di un letto, tutto questo non lo puoi fare. Puoi soltanto gridare. Ma è un grido inutile perché nessuno lo ascolta. La libertà, allora, è quando ascoltano le tue grida, quando non ti dicono “zitta scema” se chiedi che a farti la doccia sia almeno una donna, quando non ti rispondono “falla addosso tanto hai il pannolone” se chiedi di andare in bagno».

Mi si freddò il sangue. La tua voce era rimasta calma e serena, io avevo l’anima spezzata. Gridai «BASTA!!! Io ti porto via…». Ti presi in braccio, eri così leggera, tirai un calcio alla sedia,  apostrofai «Stronza»  l’infermiera che gridava forsennata «fermo, fermo, che sta facendo?». Camminavo veloce, ti stringevo a me, nel mio respiro, giungemmo fuori. Chiudesti forte gli occhi, poi li spalancasti e con loro il sorriso di quando tornavo a casa bambino. «Via, ti porto via» continuavo a dirti… e tu continuavi a sorridere… Facemmo poco più di cento passi, poi vidi piegarsi il tuo capo mentre resisteva il sorriso, vicino all’annodarsi di un ulivo «E’ la strenua lotta a resistere dell’ulivo» mi spiegasti da bambino. Ed  ora mi sembrava finalmente di capire…

Cara mamma, c’è un luogo che ho conosciuto dove c’è un “cammino di cento passi”, e, come il nostro, è un cammino di libertà, di dignità. E’ bello questo luogo, ché qui c’è la bellezza e ci sono gli oppressi, e per quanto difficile possa essere si prova ad essere fedeli ad entrambi.

Mi dà gioia questo luogo, perché non ci sono letti dove ti legano braccia, gambe e collo, quelli dove devi fare le contorsioni per prendere un po’ d’acqua, quelli che se devi andare in bagno c’è un buco in mezzo, e fa nulla se è ancora sporco di tutti gli altri che sono stati lì prima di te.

Erasmo in una foto di Vincenzo Viglione

Erasmo in una foto di Vincenzo Viglione

In questo posto c’è vita, semplicemente vita, quella che ti stringe negli abbracci di Erasmo. Sai mamma, qualche tempo fa un dottore stava per rispedirlo nella “clinica”. Erasmo è sordomuto, e pure spastico. E’ stato chiuso lì dentro per anni, senza più un vestito suo, senza più nemmeno un nome. Solo un numero, mamma, solo un numero attaccato alla camicia. E sulla pelle quella diagnosi, scritta senza timore di poter sbagliare: “soggetto socialmente pericoloso”. Perché Erasmo sbatteva la testa contro il muro fino a farsela sanguinare. Era l’unico modo, mamma, l’unico modo per farsi ascoltare, per dire io esisto. Da quando è qui, Erasmo non sbatte più la testa, ti sorride spesso, si arrabbia anche, ma è sempre il primo che ti viene incontro, l’ultimo che va a dormire dopo aver fatto il giro dei campi, quelli dove lui adesso prende la zappa e lavora, e coltiva, come faceva il suo papà, suo nonno, la sua famiglia. Ha ritrovato un posto Erasmo, un posto e il suo talento, un posto ed un nome, senza più numeri. Ma quel dottore, quel giorno, aveva deciso: il progetto terapeutico di Erasmo andava interrotto. Peccato nemmeno lo conoscesse Erasmo, peccato non lo avesse nemmeno visitato: «Firmo tante carte, ho firmato anche questa».

Le parole, a volte, sono potenti, quel giorno cancellavano una vita e non sentivano nemmeno la necessità di chiedere scusa. Stronzo il dottore e stronzi quei burocrati che non capiscono, che non si assumono responsabilità, che continuano a spedire le persone in clinica, perché tanto lì staranno bene. Che ne sanno del bene mamma? Che ne sanno loro che scrivono senza incontrare?

Federico

Oggi però Erasmo ha vinto, non è più un paziente, non lo potranno più spedire in clinica, il sapore terapeutico della libertà non potrà essergli sospeso, nessuno lo potrà strappare dal luogo dove vive e lavora, dove è socio della cooperativa “Al di là dei sogni”,  dove è un uomo, semplicemente un uomo. E sai qual è il paradosso mamma? Che qui, davvero, la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo. Così Federico, lui che aveva vissuto l’inferno di Dachau e poi quello del manicomio, lui insegnava a riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, inferno non è. Lo faceva al suono di una foglia, la portava alla bocca, iniziava il suo canto di storie lontane, ed i suoi occhi blu, anche oggi che sono chiusi, insegnano dignità. Conservo quel suono e le parole di Federico in un video, un dono prezioso. Lo tengo insieme ad un libro che restituisce il disegno del suo volto, l’immagine dei suoi occhi. Lo stesso che conserva queste parole.

Erasmo, Federico, Enrico tutti gli altri che qui ho incontrato, considerati ultimi, allontanati, loro, proprio loro, dimostrano che si può vincere la mafia. Sai mamma, il luogo di cui ti sto parlando è un bene confiscato alla camorra, e loro lo abitano e lo lavorano, coltivano la terra, realizzano melanzane e passate di pomodoro. E fanno il pacco alla camorra. Sì mamma, fanno il pacco alla camorra, e stronzi i camorristi che pure hanno provato a fermarli, entrando in casa loro, distruggendo vetri e stanze. Stronzi due volte i camorristi che non sanno che la bellezza vince mille a uno sulla paura, e non sono riusciti a fermarli, perché un’intera comunità è rimasta a dormire lì in sacco a pelo per mesi, ma non è andata via. Le parole, a volte, sono potenti, e «qui la camorra ha peso» riempie uno striscione e segna un passaggio.

Così, in questo posto vive la memoria di Alberto Varone, vittima innocente della camorra, ucciso alle 4 del mattino, mentre, con la sua auto, portava i giornali alle edicole. Ucciso perché aveva detto no e lo aveva gridato, ucciso perché preferiva l’onestà della fatica ai soldi fetenti… Come dicevi tu mamma? «Sta nella fatica il valore, mica nelle banconote!». Ed è valore la vita di Alberto, ed è valore la sua memoria, è valore questo luogo…. Le parole, a volte, sono potenti, quella targa con su scritto Alberto Varone dà valore alla mia vita.

Cara mamma, si è fatto tardi, ormai è notte, qui anche il cielo è bello, è pieno di stelle. Allora ti saluto con quella filastrocca che mi cantavi da bambino nel letto. E con queste parole mi addormento nel sogno e nel segno del tuo sorriso…

«I nomi delle stelle son tutti quanti belli, Sirio, Vega Andromeda, l’Orsa e i due Gemelli. Chi mai potrebbe dirli tutti quanti in fila, son più di cento volte, cento e centomila. Ma proprio in fondo al cielo, non so come, non so dove, c’è un milione di stelle, stelle senza nome. Stelle comuni, nessuno se ne cura, ma proprio grazie a loro, la notte è meno scura».

 Maiano di Sessa Aurunca, 24 luglio 2011

Cara mamma

(*) ripreso da cartedisperse.wordpress.com e poi da Gisella Trincas su FB; grazie a Benigno per la segnalazione

Redazione
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