Carl Theodor Dreyer: «Vampyr»

Quinto e ultimo incontro – per ora? – di Giuliano Spagnul con i film del grande regista danese (*)

Tutto il cinema di Dreyer è uno sguardo disperato sul rapporto uomo-donna. Le sue eroine, soprattutto Giovanna, Anne, Inger e Gertrud (1) sono la rappresentazione per eccellenza del conflitto. Non la semplice e banale guerra tra i sessi di cui tanta letteratura e lo stesso cinema ci hanno abituati ma piuttosto quell’imprescindibile lotta per “esserci”, per marcare una differenza radicale, per portare alla luce una volta per tutte l’alterità che il femminile rappresenta nel mondo reale. Quel mondo costruito da e per maschi (con tanta complicità femminile). Il cinema di Dreyer è feroce, non lascia scampo; le figure maschili di Dies Irae sono larve condannate all’infelicità, per egoismo (l’uomo anziano) o per ignavia (il giovane). La figura della madre è sempre a rischio di essere assimilabile a quella del vampiro (ne abbiamo una prefigurazione nella vecchia vampira di Vampyr). Anne sceglie volontariamente il rogo piuttosto che tradire la propria intima natura, il proprio desiderio di esserci nel mondo. Ancora il vampiro compare nelle ultime inquadrature di Ordet in cui Inger, risorta dalla morte, abbraccia il marito, s’avvinghia a lui facendo brillare i propri denti sul suo collo; promessa, minaccia che nulla sarà più come prima: è nata una donna.

Vampyr è un film del 1932 (siamo agli inizi del sonoro) e rappresenta nella filmografia del regista una sorta di elemento spurio, poco inquadrabile. Tutti i film di Dreyer, in Italia, sono editi dalla San Paolo film e la critica cattolica ci ha sguazzato molto, grazie anche alla stupidità di tanta critica marxista. Unica eccezione Vampyr, derubricato a film di genere, horror, film di vampiri; tanto è vero che il dvd in commercio è presentato da Luigi Cozzi, regista ed esperto di cinema di fantascienza. Il film – che fu un tentativo di uscire dall’isolamento produttivo conseguente ai problemi legali tra il regista e la casa di produzione del precedente film La passione di Giovanna d’Arco – fu un fiasco sia di pubblico che di critica (2). Realizzato con il sostegno economico di un barone olandese, Nicolas de Gunzburg (che interpreterà, con lo pseudonimo di Julian West, il ruolo del protagonista) il film si regge su un’esile trama vagamente ispirata ad alcuni racconti di Joseph Sheridan Le Fanu ma per lo più farina del sacco dello stesso Dreyer. La didascalia (3) che apre il film recita: «Ci sono esseri predestinati la cui vita sembra legata da fili invisibili ai mondi soprannaturali. Essi amano la solitudine… Essi sognano. La loro immaginazione si sviluppa a tal punto da vedere realmente più lontano della maggior parte degli altri uomini. La personalità di David Gray è misteriosa in tal senso. Una sera che la sua fantasia lo spinge come al solito verso l’ignoto, arriva tardissimo alla locanda vicino al fiume, nel villaggio di Courtempierre».

In questa dimensione onirica l’eroe partecipa a un’avventura che lo porterà a contemplare sé stesso morto all’interno della propria bara, a sconfiggere il male vampiresco incarnato in una vecchia megera e, ovviamente, a salvare una delle due figlie del castellano e a portarla con sé nel mondo reale. All’interno di questa trita storia dell’orrore non mancherà un incredibile libercolo su tutte le cose che si devono sapere sui vampiri, compresi gli accadimenti che stanno coinvolgendo i protagonisti proprio in quel momento. A complemento di tutto ciò alcuni effetti speciali – molto effettacci e poco speciali – come teschi che ruotano, chiavi che si girano da sole, porte cigolanti, boccette di veleno ostentate e scheletri da baraccone di fiera. Ce n’è ben donde da scontentare un pubblico smaliziato da altri ben più raffinati incubi cinematografici come, un esempio tra tutti, il Nosferatu di Murnau, di ben dieci anni precedente.

Va da sè che così Dreyer – malgrado tutte le sue buone intenzioni e speranze – costruisce una vera e propria anomalia di mercato che in quanto tale si presenta come “prodotto non commerciabile (merce non scambiabile)” (4). Questa perfetta imperfezione rende oggi la visione del film affatto attuale e moderna. Il continuo alternare la dimensione della sottile inquietudine con quella terrifica a grana grossa non permette catarsi, nessun allentamento della tensione né autentica paura ma lascia in sospeso in una terra e in un tempo che non sono né quello della realtà né, men che meno, del sogno. Se lo spavento è inibito, quanto la farsa non è sostenuta (le grossolanità non hanno il segno del parodico, sono solo grossolane) si rimane in uno stadio di incertezza su ciò a cui stiamo assistendo. Tutto ciò che sembra secondario – le facce, gli sguardi, i gesti, le pareti degli interni, il paesaggio – acquista un peso preponderante rispetto alla storia e le vere azioni sembrano svolgerle le ombre dei servi del vampiro (capaci di rendersi autonome dai rispettivi corpi). Ci sono solo due momenti realistici nel film: il contadino con la falce all’inizio (la rappresentazione iconografica della morte più famosa del XX secolo) e la morte per asfissia del dottore complice del vampiro (soffocato all’interno del mulino dalla farina che inesorabilmente si accumula su di lui). Lo spavento di un buon film del terrore passa presto una volta riaccese le luci in sala; l’inquietudine (o forse meglio: lo spaesamento) di un film come Vampyr tende a rimanere anche una volta usciti all’aperto. La morte è un contadino che falcia e che per donare la vita deve, necessariamente, ucciderne altra. Il vampiro è poi solo una laida vecchia impaurita, essa stessa, dalla morte e il suo complice soffoca sotto il meccanismo inesorabile di un sistema che pensa di poter consumare il mondo, la vita, indefinitamente. Che sia questo, nostro, reale, il mondo di cui qui si favoleggia? Che quelle ombre (non l’ombra del vampiro come nel finale di Nosferatu), ombre di servi siano le nostre al servizio di una semi-vita succube del sortilegio di un’entità malvagia tanto quanto vuota?

Ma c’è anche una speranza, quella dei due giovani, un uomo e una donna, che insieme, e solo insieme, riescono ad attraversare la fitta nebbia del fiume e raggiungere l’altra sponda, quale che sia, comunque che apre a una possibile nuova avventura.

Nota 1: Le protagoniste di La passione di Giovanna d’Arco, Dies Irae, Ordet, Gertrud.

Nota 2: Per il successivo Dies Irae occorrerà aspettare ben 11 anni.

Nota 3: Il film girato nel 1930-31, agli albori del sonoro, sembra ancora esitare fra il muto e il parlato. I dialoghi sono pochi ed essenziali, numerose le scritte in didascalie o pagine di libri e lettere.

Nota 4: Pier Giorgio Tone, Dreyer, Il Castoro Cinema numero 53, La Nuova Italia, 1978.

Lettura consigliata per approfondire:

Maurice Drouzy, Carl Th. Dreyer nato Nilsso

Quinta e ultima puntata ma Giuliano Spagnul lascia un filo… «Chissà, se rivedendo tutto il periodo muto e rileggendo un po’ di libri, escono altre due puntate: una sul muto e l’altra su Dreyer, sempre se sopravviveremo a tutte le varianti Covid». E comunque come appendice segnala «questo magnifico corto per la prevenzione agli incidenti stradali»: https://www.youtube.com/watch?v=QilXocHXwvY 

(*) QUI GLI ALTRI POST: «La passione di Giovanna D’Arco» , «Dies Irae»: negli occhi di Carl Theodor Dreyer, «Gertrud» e «Ordet» di Carl Theodor Dreyer

 

 

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