Carlomagno, Dard, De Cataldo, Doody, Greco, Lansdale e…

Pagano

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

 

Margaret Doody

«Aristotele e la Montagna d’Oro»

traduzione di Rosalia Coci

Sellerio

488 pagine, 16 euro

Atene e Magna Grecia. Tra fine agosto e inizi ottobre 323 a. C. L’acuta docente e ottima giallista canadese Margaret Doody (Saint John, 1939) prosegue la serie storico-filosofica e, con “Aristotele e la Montagna d’Oro”, l’intrigo si colloca dopo la morte di Alessandro il Grande a Babilonia, nel periodo della nascita del figlio Alessandro IV. A quel tempo Aristotele (Stagira, Macedonia 384 a.C.) è tornato nell’abituale residenza di Atene, Maestro del Liceo, considerato ormai un nemico dai concittadini “patrioti” ostili al controllo macedone. Minacce e intrighi lo inducono a partire verso Filippi, città fondata da Alessandro a guardia di un’inesauribile miniera (da cui il titolo) dove tuttavia sono in corso manovre e cospirazioni legate alla successione al potere. E tanti omicidi oscuri e inspiegabili, che Aristotele sarà costretto a indagare, anche per salvarsi. A narrare il tutto è il suo fido Stefanos, 34enne compagno d’avventure: un classico romanzo di genere immerso nella storia.

 

Aldo Pagano

«Caramelle dai conosciuti. Un’indagine di Emma Bonsanti»

Piemme

312 pagine per 19,50 euro

Bari. Fine maggio 2020. La notte prima qualcuno ha tagliato la gola a Matteo Cardone. Di prima mattina il sostituto procuratore Emma Bonsanti e l’ultra-sessantenne sovrintendente capo Michele Lorusso arrivano all’ultracentenaria abbandonata Manifattura dei tabacchi: il cadavere si trova tra due alti finestroni di un cortile interno, seduto a terra, testa reclinata in avanti, schiena appoggiata al muro, in una pozza di sangue ormai scurissima. La vittima aveva 37 anni ed era un ricco razzista violento, conosciutissimo nel degradato pericentrale quartiere Libertà, sposato con la bella trentenne Vera senza figli, proprietario distratto di un ristorante alla moda e amato concentrato capo dell’associazione culturale neofascista Hobbit, che distribuisce cibo e aiuti vari nel rione e boicotta fattivamente ogni attività destinata ai migranti. In un locale sottostante scoprono un vero e proprio arsenale nascosto in un’intercapedine. Poi parlano con la signora che dalla finestra ha visto uscire dalla porta del mercato, quella più vicina all’ala della Manifattura, un ragazzo nero che zoppicava. Le indagini si fanno serrate e arrivano a ricostruire un quadro abbastanza chiaro e delicato, quasi definitivo: Cardone aveva le chiavi per poter arrivare all’arsenale all’insaputa forse di tutti gli accoliti camerati; poco prima di morire aveva fatto a botte marziali con Samuel Saleh che frequenta Economia e insegna italiano ai rifugiati; Samuel è il fidanzato di colore di Annalisa, la figlia di Lorusso, che era stata brutalizzata da Cardone e ripresa in un video; Samuel è fuggito chissà dove dopo averle confessato di aver avuto il duro scontro fisico di Cardone per vendicarla, d’essere prevalso a stento e di averlo lasciato malmesso ma vivo. Samuel va presto trovato e arrestato, seppure Lorusso è coinvolto affettivamente e non può essere protagonista della ricerca ufficiale, tanto più che condivide con Emma forti dubbi sulla vicenda. Occorre scavare nel crimine.

L’ottimo scrittore Aldo Pagano (Palermo, 1966) – già girovago giornalista sommelier ristoratore (susci) – ha imbroccato la serie giusta e il nuovo romanzo è interessante, ben scritto, maturo, grazie anche sia alla protagonista di origini milanesi che all’ambientazione nella cara capitale pugliese. Meticolosa e utile appare la ricostruzione delle atmosfere, delle passioni e delle dinamiche antropologiche dei gruppi neofascisti italiani contemporanei in una realtà metropolitana meridionale, condensate nel titolo che viene da un pensiero della protagonista: “Danno i pacchi per … rubare la fiducia delle persone abbandonate dalla società. Caramelle dai conosciuti, cazzo! Chi non ha strumenti per valutare, le accetta”. Emma è una brava magistrata, non è facile fare il proprio dovere fra menzogne o narconotizie in rete che avvelenano i pozzi della democrazia e gli avvocati militanti politici che combinano il diritto alla difesa con la propaganda apologetica. Oltretutto le capita di nuovo di sviluppare due rapporti sentimentali in contemporanea: vive sola con la bastarda simil spinone Bella e, di fatto, frequenta con passione sia Simone Laforgia – artista egocentrico assai quotato e di fama internazionale, spesso in giro per il mondo, che pure ha lasciato l’anno prima, quando si era mostrato incapace di provare empatia di fronte alla malattia della madre di Emma – sia Edoardo Bruni, scrittore possente e vecchio compagno di scuola proprio a Bari (come la sua più cara amica Carla), lui perlopiù ben stanziale a Roma con l’amatissima Valeria. Siamo nella prima primavera della pandemia: mascherine distanziamento igiene, divieti e paranoie dialettiche fra negazionisti e catastrofisti. La protagonista è una gran fumatrice (Camel lei, tutti gli altri proprie personali marche), il profilo con sigaretta accesa conquista (nella bella copertina). Molti s’intendono dei grandi vini di Puglia. Billie Holiday per farsi abbracciare.

Joe R. Lansdale

«Cronache dal selvaggio West. Hap e Leonard, le origini»

traduzione di Luca Briasco

introduzione di Kathleen Kent, prefazione dell’autore

Einaudi

220 pagine, 15 euro

Texas Orientale. Anni cinquanta e sessanta. Hap Collins (1950) ricorda che, quand’era piccolo, circa ogni anno capitava che i tanti parenti si radunassero nella grande e vecchia casa (sempre odorosa di cibo) dell’unica sua nonna rimasta in vita. Una volta, quando aveva sei o sette anni e il padre era troppo impegnato dal lavoro, aiutò la mamma a preparare l’impasto del pane di mais e a metterlo al forno, caricandolo poi in auto insieme al pollo fritto nello strutto in padella, già ben asciugato con la carta assorbente. Arrivarono trovando le zie di entrambi i rami della famiglia e tanti cugini con i quali giocare a rincorrersi e a nascondersi, mentre gli adulti finivano di cucinare e parlavano di bollette e malattie e di come trovare un lavoro migliore. Approssimandosi l’ora di cena, gli chiesero di andare nell’ affumicatoio e di riempire di patate un grande cesto di vimini. Hap eseguì e una biscia scivolò fuori dalla pila di sacchi. Riuscì a sfuggirle correndo, poi la nonna gli disse: “Oh, quello è Charlie. È tranquillo. Mangia i topi che provano a entrare”. All’ultimo momento si aggiunsero anche il padre e gli zii, fu apparecchiato all’aperto accanto o sotto alla quercia, tutti lavarono le mani con bacinella e secchio e si ingozzarono fino a scoppiare. Mentre i ragazzi riprendevano a giocare, i grandi cominciarono a raccontare storie, di povertà e abitudini, del Wild West Show e di Billy the Kid. Al ritorno in auto, ancora con pentole e piatti impregnati di buon odore, Hap si sentì “più vicino al Nirvana di quanto qualunque essere umano sia stato, e mai sarà”. Poi crebbe, lavorò per fare le pulizie alla stazione di polizia (e prigione) della città, osservò le diffuse discriminazioni e violenze dei bianchi sui neri (e sulle donne), incontrò l’amico fratello nero omosessuale Leonard Pine, insieme maturarono, tirarono di boxe, si difesero e impararono a pescare sul fiume Sabine. Continueremo a frequentarlo.

Una raccolta di racconti perlopiù inediti (uno solo già pubblicato) arricchisce la divertente intelligente serie Hap&Leonard di Joe R. Lansdale (Gladewater, 1951), il grande scrittore texano-orientale, che ha già all’attivo almeno quarantacinque romanzi, trenta raccolte di racconti e varie altre narrazioni di tutti i generi. La serie noir hard-boiled è molto amata in Italia. Hap oggi è un attempato bianco di un metro e ottanta, pigro e orgoglioso, gran lettore buon psicologo di uomini, esperto di Hapkido e arti marziali, vota democratico quando ci va, vive d’amore con la bella acuta rossa naturale, ex infermiera professionale Brett, con la ritrovata figlia Chance e con la cagnetta Buffy. Il suo fraterno amico Leonard oggi è un grosso nero macho, magro ordinato pulito atletico, brizzolato ormai, si arrangia da Hap e Brett quando non convive con amanti maschi, elettore repubblicano se vota. Hap e Leonard sono proprio culo e camicia. Si conobbero quando avevano tra 16 e 17 anni, durante gli anni delle superiori, quattro dei cinque racconti sono di quel periodo, poi non si sono più lasciati. Li abbiamo incontrati da investigatori avventurieri adulti, ben li abbiamo visti operare spesso da ossimoro di coppia, qui siamo agli esordi della fratellanza, così come Hap la ricorda tanto tempo dopo, è sempre lui a narrare in prima persona (anche gli straordinari dialoghi) e nel primo racconto “La cucina” (della nonna) non ci sono né Leonard (citato en passant) né solo vicende cruente (come s’intuisce pure dalla copertina). Si tratta di una scelta precisa, non a caso in fondo vi sono quasi quaranta pagine dedicate a 17 appetitose ricette (quelle variamente richiamate, ispirate al tanto cibo menzionato) curate dalla figlia dell’autore, Kasey. Il titolo americano è appunto Of Mice and Minestrone, mentre il titolo italiano si riferisce ai saluti che l’autore ci manda da casa. Da ragazzi Hap e Leonard trascorrevano molto più tempo insieme e svelano molto di sé, introducendo le premesse o alcuni personaggi che poi ritroveremo nelle note storie successive.

Gaia Greco

«Lontani tutti. L’assassino dei tre anni»

Di Renzo editore

284 pagine per 13,50 euro

Woolwich, paesino alla periferia di Lincoln, Nebraska, Usa. 2018. Il 36enne Thomas Randall Tom Newman, ricco scrittore di grande successo dall’esistenza ormai perfetta, sta da nove mesi, vive felicemente e intende presto sposarsi nella loro New York con la splendida coetanea Julie, padre francese e madre serba, infanzia a Vancouver in Canada, poi medica e ora ottima cardiochirurga in rutilante carriera. Da poco, durante il precedente Natale (?), sono venuti a incontrarlo i congiunti di lei, i genitori e il fratello minore con la moglie e i due figli. Decidono così di andare a conoscere i parenti di lui, che ancora vivono tutti nella piccola cittadina dove è cresciuto e ha studiato: la mamma inferma, il fratello maggiore (di sei anni), sposato con due figli, la sorella minore (di tre anni). Tom ha una seconda ragione per tornare: ha deciso di scrivere un libro imperniato su Richard Williams, il concittadino reo confesso serial killer, condannato per aver ucciso sei persone che lui ben conosceva, da ultimo lo stesso padre di Tom, e conosciuto ai più come l’assassino dei tre anni, visto che gli omicidi hanno occupato un quindicennio, ognuno a distanza di tre anni dall’altro, pur se il movente rimane ancora ignoto. Ripensa spesso alle proprie infanzia solitaria e adolescenza dongiovannesca, al crescente desiderio di andarsene lontano prima possibile e alla precoce vocazione letteraria (primo libro a 18 anni, subito osannato da critica e pubblico), che gli aveva permesso di abbandonare l’opprimente contesto natio e di realizzarsi altrove. Arrivano a Woolwich e riemergono antiche tensioni, nessuno è profeta in patria; Julie trova e legge i suoi diari, lui va a visitare il prigioniero in carcere; entrambi cominciano lentamente a convincersi che forse non era stato individuato il vero colpevole e che sia utile riprendere le indagini, il che farà tornare a galla mestizie e dubbi del passato, senza essere certi che ne valga davvero la pena.

Gran bell’esordio letterario per la giovane poliedrica Gaia Greco (Lacco Ameno, Ischia, 22 dicembre 2000) già videomaker e sceneggiatrice: l’uso intelligente e critico del genere giallo noir per un eccellente romanzo di formazione (necessario alla sua vita autonoma) con mille rimandi e simmetrie, arte e scienza, tante letture e prime scritture alle spalle. La narrazione è in prima ipersensibile persona al presente, a lungo alternando i capitoli contemporanei con il testo dei diari, due quando Tom aveva 6 anni, non riusciva a fare amicizia e iniziò a scriverli (con la maestra Baker, prima vittima) e due a distanza ogni volta di un triennio (con le vittime successive), a 9, 12, 15 e a 18 anni, quando rientrò precipitosamente dall’Università di Chicago dove studiava appunto lingua e letteratura. Il congegno non è artefatto, funziona, del resto sappiamo che anche Julie sta divorando quei testi infantili e adolescenziali. Funzionali sia la copertina, con due scarpe rosse sportive da movimento, sia il titolo, con la solitudine di chi sente gli altri altrove (lontani). Il tema di fondo riguarda le inevitabili letali artrosi familiari, forse all’insaputa dei saggi del sudafricano David Cooper (1931-1986): tanti sposati nutrono un odio profondo e brutale per il proprio matrimonio. Il papà preferiva il vino, rispetto alla birra amata dallo sceriffo. Con la restaurata Mustang degli anni sessanta (migliore della sua Countryman), Henry, l’amico nuovo sceriffo (figlio del vecchio), sceglie una compilation di antiche canzoni per portarlo al carcere di Lincoln, anche se Tom preferisce i locali Bright Eyes (con studio di registrazione a Omaha).

Piera Carlomagno

«Nero lucano»

Solferino

350 pagine, 18 euro

Grottole e Matera. Gennaio 2020. Quando arriva col buio nel delizioso paesino natale del ricco marito imprenditore Brando Carbone, che l’ha preceduta di qualche giorno, Leda Montessori, bella varesina dall’accento antipatico (lì), sofferente di amenza, non lo trova a casa e il cellulare è staccato. Loro risiedono stabilmente a Varese, nella bambagia. Lei è atterrita e offuscata, non sa cosa e come fare. Ancora vestita elegante, scappa verso il bar di Giulio, dove sa che quell’orso brutto tiene una bottiglia di Oban a sua disposizione, beve per obnubilarsi e si sottomette alle voglie dell’uomo, non è la prima volta. La mattina dopo la patologa e antropologa forense 39enne Viola Guarino viene presto chiamata da Corrado Basile, procuratore della Repubblica di Matera: lei è una consulente specialista della scena del crimine, hanno appena trovato un cadavere orribilmente sfregiato in località San Giuliano, alla diga. Il cranio è spaccato in due, abiti e scarpe sono firmati, brilla tra le mani della vittima una cartina geografica della Basilicata con vari luoghi segnati in rosso, si annunciano rogne. Mentre Viola studia, odora e fotografa i particolari del macabro ritrovamento, la raggiunge anche il sostituto procuratore Loris Ferrara, tornato da chissà dove, appena rientrato in servizio dopo mesi di aspettativa. Avevano avuto una relazione appassionata e intensa prima che lui si dileguasse per tornare dalla moglie. Da parte sua, di prima mattina Leda cerca al telefono Lia Guidi, l’eccelsa efficiente tuttofare segretaria personale di Brando, è certo l’amante. Tuttavia, la trova ignara, sorpresa e preoccupata: c’è un appuntamento importante, devono dare risposta per un grande affare in Giappone, serve urgentemente il capo. Si rivolge ai vigili urbani e il giorno dopo si fa accompagnare in questura. Viola e Leda s’incontrano, il cadavere viene identificato. Poi ne verrà trovato un altro, morto già da qualche giorno e un’ulteriore scomparsa fa presagire il peggio. Qualcuno si sta vendicando.

L’ottima giornalista e scrittrice salernitana Piera Carlomagno (Salerno, 1963), laureata in lingue e letteratura cinese, attivissima sul piano culturale e sociale, da almeno un decennio pubblica guide turistiche e interessanti romanzi, soprattutto gialli; prosegue ora con successo la bella serie noir lucana con Viola Guarino. Il tocco è sempre più personale, avvolgente, maturo: una protagonista competente e intuitiva, scientifica e spirituale, con tante sfaccettature culturali ed emotive, liberamente immersa nel tratto più antico dell’ecosistema lucano, testardo e profondo, minerale e animale. La narrazione è in terza al passato, quasi fissa su Viola, con alcune simpatiche incursioni fra le rutilanti signore del bridge, protagoniste dell’oligarchia regionale, e i rari intrusivi pensieri di chi sta uccidendo, brevi impressioni in corsivo sui propri atti. Il nero del titolo ha plurivalenze: oggetti di vestiario e di morfologia così “colorati”, genere di emozioni e scritture, la rappresentazione iconografica della Madonna a Viggiano, il mitico ambito petrolio. Il malaffare si annida spesso nel potere immobile, nel blocco sociale che governa da sempre quella regione (analogamente ad altrove), grazie a una rete di maglie strette di clientele (e spesso massoneria) che opera nel silenzio con metodi antichi, che controlla le stanze dei bottoni compreso il palazzo di giustizia. A prescindere da Viola, che porta vento con sé, gira in moto, ha una portentosa nonna lamentatrice funebre e uno straordinario nonno farmacista colto. Tanti libri, più o meno in primo piano. Alcolici di varie fattezze e misure, ovviamente l’Amaro Lucano e il Matera Greco. La musica di riferimento è il jazz, la filodiffusione è fissa sul canale jazz da camera, però è la canzone di Vasco a farle meglio interpretare lo sgozzamento del coniglio.

 

Giancarlo De Cataldo

«Il suo freddo pianto. Un caso per Manrico Spinori»

Einaudi

228 pagine per 17,50 euro

Roma. Gennaio 2019. Il melomane sostituto procuratore della repubblica di Roma Manrico Leopoldo Costante Severo Fruttuoso Rick Contino Spinori della Rocca dei conti di Albis e Santa Gioconda ha appena finito la requisitoria del terzo dei dodici processi in calendario d’udienza quel primo lunedì dell’anno alla sesta sezione del tribunale; a tratti appare distratto, dalla noia per alcune logorree e dalla preoccupazione per le indebitanti spese della mamma ludopatica. Esce un attimo all’aperto e lo raggiunge la storica collaboratrice con una busta gialla, che contiene una riservata rilevante informazione sulle dichiarazioni di un pentito. Afferiscono all’omicidio di Francesco Lo Moro nell’agosto 2009, di cui proprio lui si era occupato, individuando un colpevole, che poi aveva scelto la strada del suicidio. Manrico non si ricorda proprio nulla del caso, chiede di prendere il fascicolo in archivio, cerca senza successo l’amico collega che lo ha coinvolto; infine, a tarda sera si accorda per incontrare il pentito il giorno dopo. Si tratta di uno spacciatore di piccolo rango, noto come er Farina, che aveva saltato il fosso davanti alla prospettiva di una ventina di meritati anni di galera. Lo tengono sotto protezione speciale, insieme alla maltratta moglie. Sta offrendo indicazioni precise su mandanti e interessi in gioco, sembra affidabile e dice loro che dieci anni prima presero una cantonata, lo ha sentito da più parti nel suo giro, qualcuno aveva costruito una versione di comodo. La vittima era un trans, conosciuto come Veronica; a quel punto Manrico ricorda bene la vicenda, fa domande ma non ottiene nuovi indizi e allora coinvolge l’altra giovane collega Pm Valentina Poli e l’intera sua squadra femminile per capire se e dove si sbagliò. Forse anche la successiva overdose dell’amica Betty è dubbia e i due agenti che curarono da vicino le scene del crimine non erano integerrimi. Capire con quali moventi antichi e moderni diventa decisivo, visto pure che uno dei due viene ora investito.

Il bravo magistrato e grande scrittore Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956) non è un melomane di gioventù, a un certo punto ha riscoperto l’impatto emozionante dell’opera lirica che gli ha scombussolato la vita e, per l’ennesima volta con successo, anche l’identità letteraria. Siamo già alla terza avventura della nuova serie di noir, tre libri divertenti in diciotto mesi nostri, tre casi clamorosi in meno di tre mesi per Manrico: il bel signorile melomane è un gran personaggio, perfetto per mescolare l’esperienza professionale e la passione musicale di De Cataldo con due differenti generi narrativi. Il credo è rigoroso: “non esiste esperienza umana – delitto incluso – che non sia già stata raccontata da un’opera lirica. Bisogna individuarla. E rimettere al centro della scena il melodramma della realtà”. Si comincia con il morto, come da copione giallo, qui una vicenda chiusa da riaprire. Seguono tutti i riti dell’investigazione, sia letterari che istituzionali. La narrazione è in terza (quasi) fissa al passato. Manrico va alle prime, cita opere, ascolta lirica e classica, studia analogie emotive col caso, è caparbio, eppure a lungo non riesce ad associare alcuna narrazione lirica all’intreccio criminale. Qualche spunto lo trova, pur se i passi in avanti e la soluzione finale vengono soprattutto dal lavoro delle investigatrici collaboratrici, molto diverse fra loro e in differenti fasi dell’esistenza: la gentile meticolosa coordinatrice 40enne Sandra Vitale, in rotta col marito fedifrago; la bassa giovane sarda Gavina Orru, sempre concentrata e corrucciata (col caschetto), imbattibile al computer, ben legata al 32enne professor Filippo neo amico del nerboruto ispettore testadicuoio fidanzato della bella “fascista” romanaccia Deborah Cianchetti, un metro e ottanta di tatuaggi e muscolatura da karateka, ormai tentata da matrimonio e maternità; senza dimenticare l’efficiente spiritosa segretaria Brunella e, soprattutto, la 34enne Valentina, vivace e bella marchigiana di Macerata (e Manrico ben conosce lo splendido Sferisterio, per tanta buona lirica estiva all’aperto). Lui è ambito, ma non sempre cede al fascino e alle proposte femminili; ritrova con soddisfazione l’ex compagna di classe Sibilla, non sempre disdegna gli sbalzi umorali di Stella, spera ancora si faccia presto risentire Maria Giulia. Un mondo popolato di donne vitali, pur se restano utili fondente e buon alcol (rhum, whisky, vino di qualità). I pianti ci sono, pur rari (come quello sincero di Betty), la freddezza è diffusa e non solo lirica (da cui il titolo), plurivalente (professionale, femminile-maschile, climatica, verbale, musicale-jazz e altro ancora). Come al solito impariamo molto sulla giusta giustizia garantista, sul Dna e sul pessimo scandalismo morboso.

Frédéric Dard

«I bastardi vanno all’inferno»

traduzione di Elena Cappellini (originale 1956)

Rizzoli

190 pagine, 14 euro

Francia del Sud. Anni cinquanta. Molti conoscono la serie poliziesca del superlativo commissario Sanantonio inventata dal poliedrico scrittore francese Charles Antoine Frédéric Dard (1921 – 2000), 288 romanzi in sessant’anni (spesso con pseudonimi e di tutti i generi), 184 avventure con Sanà, centinaia di milioni di copie vendute, innumerevoli trasposizioni cinematografiche, fama e successo (con il primo figlio del primo matrimonio che prosegue ancora la serie). “I bastardi vanno all’inferno” è un bellissimo testo del primo periodo, l’autore stava ormai divenendo ricco e famoso, scrisse un’opera teatrale noir (1954), lo stesso grande regista decise di farne anche un film (1955) e poi l’editore gli chiese il romanzo (1956): tutto tra dramma e commedia sugli ironici colpi bassi della vita, drammaturgia pura e linguaggio ficcante, narrato da uno dei due protagonisti prigionieri in un carcere, un poliziotto sotto copertura e una probabile spia, i loro dialoghi, la loro fuga da amici. O no?

 

Redazione
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