Cassar Scalia, Costa, Deaver, De Cataldo, Ellroy con…

con Konaté, Recami e Schisa.

8 recensioni giallo-noir di Valerio Calzolaio

Brunella Schisa

«Anatomia di un mostro»

HarperCollins

304 pagine per 18,50 euro

Varese e Piacenza, soprattutto. Dicembre 2018. Il giardiniere di una villa costruita in un bosco tra Molina e Comerio trova il cadavere del proprietario Riccardo dell’Orso (nato a Bordighera nel 1947), ne resta sconvolto e chiama la questura del capoluogo Varese. Non per primi ma abbastanza presto arrivano il 59enne commissario capo della Mobile Domenico Mimmo Franchini con l’agente scelto Mario Carta. Il medico legale li mette sull’avviso, non è un bello spettacolo, vi sono state ore di terribili torture non subito mortali, per farsi dare combinazioni e codici segreti oltre che per sicura crudeltà: con una pinza gli sono stati strappati i capezzoli, con un coltello mozzate le falangi delle dita (poi cauterizzate per evitare il dissanguamento), con un cucchiaio tolti gli occhi, con un trapano elettrico sfregiato l’orifizio anale per cinque minuti. La vittima era un ricco vedovo, le prime indagini lo fanno pure emergere come una pessima persona: il figlio 39enne nerd Raniero, la 48enne Nora figlia della (seconda) moglie (del 1945) morta di tumore al cervello, altre testimonianze tendono a descriverlo proprio come un “mostro” e vengono fuori anche festini omo e vizietti di pedofilo, attirato da entrambi i sessi. Alla bella intelligente sensuale Nora Bettini fu impedito di vedere e assistere la madre e furono negate le poche cose cui teneva per ricordarla; lei è una psicologa penitenziaria, vive e lavora a Piacenza, il suo compagno è sempre più distante a Boston, ha solo il soriano Sic Sic in casa. Mimmo non sa chi sospettare, Nora qualche mostro detenuto lo ha incontrato o avuto in cura; ben presto risulta come possibile colpevole il 58enne Biagio Rea, appena sparito dal carcere di Arezzo dopo mesi di semilibertà e licenza, innamorato di Nora e in contatto solo con lei. Bisogna attirarlo in trappola, il pericolo sarà il loro mestiere.

La colta giornalista, traduttrice e scrittrice Brunella Schisa (Napoli, 1953) tenta con successo di descrivere le anatomie di due mostri (da cui il titolo) narrandole tramite i pensieri e le azioni di due riusciti personaggi (in terza persona), il commissario e la psicologa, con il concorso di parecchia corrispondenza, tante lettere rivolte alla donna in tempi diversi (nel passato recente e ora) proprio dai due mostri, insieme a qualche sua risposta. La figura di Nora emerge progressivamente come cruciale, le contraddizioni professionali e la lucidità intellettuale esposte con sensibilità femminile, odi attrazioni ripulse coraggi. Lei nata il 19 giugno 1970, famiglia ebrea laica, maturità classica, specializzata in psicoterapia analitica, occhi seri e scuri come onice, incarnato chiarissimo, pelle luminosa, capace di tentare (almeno) di ragionare coi mostri (che tutto le rimproverano se non possono sedurla). Tensioni ed emozioni al momento giusto, più registri emotivi per un ottimo noir (thriller più che giallo). Segnalo la ceramica di Grottaglie, a pag. 293. Rossi (Nebbiolo, Pinot Nero del Trentino, Barolo) e bianchi (Yrnm) sapientemente scelti e, nel caso, dosati; soprattutto quando è l’affascinante Mimmo a cucinare, pur lasciato dalla moglie per un altro e con le due figlie lontane. L’amica Anna ha creato la playlist “Ce la puoi fare” per le frequenti corse della prestante Nora.

 

Cristina Cassar Scalia

«La carrozza della Santa»

Einaudi

282 pagine, 18 euro

Catania (e Palermo). Febbraio 2017. La mattina del 6, il giorno dopo la festa di Sant’Agata, per caso due studentesse Erasmus francesi scoprono un corpo sgozzato e dissanguato, nell’androne del municipio del capoluogo etneo. Urlano e richiamano le forze dell’ordine. Era dentro una delle due carrozze del Senato, carotide e giugulare recise con un colpo maldestro, probabilmente mirato alla guancia, come se la vittima avesse girato la testa di colpo. Il sindaco telefona al vicequestore aggiunto Giovanna Vanina Guarrasi, trasferitasi da Palermo un anno e mezzo prima e già capace di risolvere vari delicati casi, lei 39enne attraente e decisa, stabilitasi da sola a Santo Stefano, golosa e cinefila. Il morto è il 71enne Vasco Nocera, nullafacente bello danaroso con diverse proprietà, anche fuori città; sposato con la benestante Beatrice Rizzaro, padre di due figli, l’agronomo 38enne Giordano e la commercialista 31enne Agata (lo stesso nome della 92enne arzilla nonna); contatti frequenti anche con una cugina e un fratellastro. Ulteriori verifiche immediate, rituali interrogatori, tabulati telefonici, il primo tempo dell’indagine è abbastanza lineare e non risolutivo, se non per la scoperta che l’ucciso se la faceva con la 31enne Sergia Vannotta, ex fidanzata del figlio, non bellissima ma alta e prosperosa, in teoria architetta, in pratica abituata alla bella vita. Senonché telefona Paolo Malfitano, procuratore aggiunto ed ex di Vanina (l’amore era sopito e sta rinascendo) annunciandole che il vicequestore Corrado Ortès, dirigente della sezione Catturandi della Mobile di Palermo le chiede di collaborare ancora una volta alla ricerca di Salvatore Fratta detto Bazzuca, l’unico ancora in libertà dei quattro uomini che, quando era una ragazzina, le avevano ucciso il padre a colpi di mitra davanti agli occhi. Vanina partecipa all’azione diretta, che fallisce per la presenza evidentemente di una talpa interna, fa avanti e indietro per qualche giorno dispensando utili consigli contro la criminalità organizzata e, nel frattempo, trovando il colpevole a Catania, ovviamente grazie pure all’essenziale aiuto soprattutto dell’83enne ex commissario Biagio Patanè.

La medica oftalmologa Cristina Cassar Scalia (Noto, 1977) continua a scrivere bei gialli, siamo al sesto ben congegnato romanzo dedicato a Vanina, ogni avventura ambientata a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, questa volta a ridosso delle avvenute celebrazioni 2017 della riverita santa di Catania (da cui il titolo) con le solite puntate verso l’amata (e cambiata) Palermo, due paesazzi con circa trecentocinquantamila e circa settecentomila abitanti e modi di dire rigorosamente alternativi (non solo arancini e arancine). La narrazione è in terza varia al passato, perlopiù sulla protagonista, oppure sugli altri investigatori: l’affiatata coppia dei risolutori Vanina-Biagio; la coppia di fidanzati un poco in crisi, il Grande Capo 50enne Tito Macchia, due metri per centoventi chili di peso, e la splendida ispettore 30enne Marta Bonazzoli, magrissima salutista; il vice e gli altri agenti in rodaggio; quelli della medicina legale e della scientifica; magistrati e magistrate, tutti con un rapporto variamente intenso con la protagonista. L’impianto è sanamente classico: incipit con un cadavere; il delitto da risolvere senza tanti fronzoli con l’emersione dei possibili alternativi responsabili; piste congiunte e separate della coppia Vanina-Biagio (entrambi nell’evoluzione della dimensione pure privata, con i colleghi e con gli affetti); un tuffo nel passato (qui il 1943, anno diverso nella Sicilia liberata rispetto al Nord resistente); chiusa tranquilla ma epilogo con il cenno a un successivo mistero (da raccontare nella prossima avventura della serie). Quando ci si chiarisce nulla di meglio di una bottiglia di Oban da centellinare insieme a un sigaro Partagás, pur se leccornie del bar Alfio e della trattoria Nino sono poi descritte nei dettagli. E che bello ascoltare i brani interpretati dal maestro Tommaso Escher al violino!

 

Giancarlo De Cataldo

«La svedese»

Einaudi

234 pagine, 18 euro

Roma, le Torri. Ottobre 2020 – gennaio 2022. La 23enne Sharon detta Sharo è nata e cresciuta lì. Su Roma, prima e dopo un millennio fa, svettavano oltre trecento torri medievali, simbolo e avamposto di poteri ed edifici nobiliari. Ve ne sono ancora una cinquantina e talora aree della città antepongono il “Tor” alla localizzazione specifica. Oggi però vi è un vero e proprio quartiere di parziale moderna periferia, ben riconoscibile geograficamente e culturalmente, che identifica chi vi abita, le Torri: l’obiettivo teorico era dare al popolo una casa dignitosa in un luogo ameno e confortevole, lontano dal centro; visto dall’alto, dal poggetto sopra il curvone, alla fine della rampa del Grande Raccordo, il quartiere sembra un serpentone avvoltolato in un doppio ordine di spire; ci sono due strade grandi e parallele, sulla principale vi sono dodici isole, ognuna con una coppia di torri, intorno prati mal tenuti; i ruoli sociali sono risaputi, ci si conosce (quasi) tutti, le notizie si diffondono subito, difficile allontanarsene per poco o per sempre. Lei è alta almeno uno e settantacinque, capelli biondi e corti, collo lungo, occhi chiari, denti perfetti, snella per quanto mangi, aria nordica, mai sbronza o fatta, niente piercing o tatuaggi, poco vistosa molto affascinante, lavoricchia da contabile in una parruccherìa, da tempo ha perso il padre caduto da un’impalcatura e convive con la madre sempre ammalata e scorbutica, spesso ubriaca. Si è appena lasciata con Fabio perché lo aveva scoperto a spacciare, conosce per caso il principe cinquantenne omosessuale Orso Alberto de’ Venturi, capelli brizzolati, viso affilato, voce profonda, toni raffinati, e si trova a dover far girare lei un bel po’ di droga nelle zone centrali di Roma. Ne vien fuori un certo casino, violenze e morti, guerra di capi e bande, nel giro di qualche mese la tenace Sharo viene conosciuta nel mondo criminale come la Svedese. Restare vivi è già un gran successo, il rapporto con il Principe si complica e diventa vieppiù intrigante.

Il grande scrittore italiano Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956), ormai in pensione da magistrato, abbandona un attimo il collega melomane Spinori e, con un ottimo noir a protagonista femminile (da cui il titolo e la copertina), torna nel crogiuolo aggiornato della criminalità romana legata allo spaccio. Ormai sulla strada non risulta più il ferreo controllo di una volta. Da quando i vecchi capi sono usciti di scena – per ragioni anagrafiche o di carcere o di piombo – la città pare ingovernabile. Non sono davvero più i tempi di Romanzo criminale. Ora tutti fanno come gli pare, basta non pestarsi i piedi. Spuntano come funghi nuovi soggetti pronti a tutto pur di farsi strada. Basta sapersi muovere un po’ in rete e si possono comprare barili di “Gina” (quella roba che se usa pe’ scopa’) e tirarci su bei soldini. Oppure, oltra al noto resto, circolano la Mafalda, Mdma, la roba che te tira su, e altri stimolanti, Ghb, Gbl, khat, catinone, più o meno sintetici, più o meno facili da trovare e smerciare. Fra bande organizzate di quartiere o meno, coatti e manovalanza, albanesi e calabresi, Sharo s’industria e s’arricchisce, attiva amori e alleanze, odi e vendette, pur se è il rapporto col potente colto evanescente principe che conta, un altro mondo e forse altre prospettive. Ricco e molto influente, viene da un’ antica famiglia, ha vasti possedimenti e collezioni d’arte. Si danno del lei, s’attraggono per diverse ragioni, quasi nulla a che vedere col sesso, lui è l’ultimo della casata, Sharo un diamante grezzo. In quindici mesi ne succedono tante, mascherine e pandemia aleggiano seriamente, le “guardie” restano sempre sullo sfondo. Bollicine decadenti, mentre il Pinot Nero annata 2012 forse è un vino da ricchioni. Orso Alberto è cresciuto a Mozart e Verdi, Sharo resta infatuata di Eggy e i versi della Trilogia delle Torri sono citati in modo pertinente all’inizio o dentro vari capitoli.

 

Gian Mauro Costa

«Luci di luglio»

Mondadori

190 pagine, 18 euro

Palermo. Luglio 2017 e, soprattutto, luglio 1960. Erano i giorni della sfida televisiva nella popolarissima trasmissione di Mike Bongiorno “Campanile Sera”, un Comune contro un altro su cultura generale e sport dal vivo; fra i più bravi Monreale, cittadina limitrofa a Palermo, a quel punto in competizione con Chioggia. Erano i giorni del Festino di Santa Rosalia. E dell’annunciata fine del mondo. E della polizia del governo Tambroni che caricava le manifestazioni popolari durante gli scioperi: era accaduto a Licata, stava accadendo a Reggio Emilia, Genova e altrove. Al corteo di Palermo verso piazza Politeama convergono alcuni ragazzi in momenti delicati delle rispettive vite: il 16enne palermitano Franco Sommariva, che pensa a Rosetta e va a scuola la mattina, al lavoro il pomeriggio presso il cantiere edilizio dell’impresa dello zio, dove ha fatto amicizia con un picciotto poco più grande, il 20enne Andrea Gangitano che lo aveva invitato a scioperare; il quasi 17enne monrealese Gaetano Bellomare che pensa ad Antonella mentre dà una mano al bar della piazza, tante mance in quel periodo; il poligrafico Benedetto Miccichè, che coordina la sezione “Fratelli Rosselli” del Partito socialista italiano nel quartiere Zisa, vive con la moglie Maruzza e i loro due figli di quattro e due anni, pur pensando spesso alla compagna Marcella. Andrea viene ucciso dai proiettili; Franco, Gaetano e Benedetto si riparano nell’appartamento del vecchio noto professor Nino Morello, assente (e forse iellato). Uscendo Gaetano prende le chiavi e convince Franco a sequestrare in casa il docente solitario e mingherlino, chiedendo il riscatto al comitato di Monreale che ne avrebbe avuto bisogno per il Pensatoio in vista delle domande televisive. Diventano i giorni di scelte che cambieranno tutti per la vita.

L’ottimo scrittore e giornalista, ora in pensione dalla Rai, Gian Mauro Costa (Palermo, 1952) ambienta stupendamente un romanzo di formazione nelle colline, nei quartieri, nei borghi, nelle piazze, nei palazzi e negli appartamenti della sua area metropolitana, quando lui era ancor più giovane dei protagonisti. Le prime frasi (“Zero”) illuminano uno studio in penombra del capoluogo palermitano, proprio accanto al Teatro Massimo, dove l’anziano notaio sta aspettando certamente la domestica per la cena e probabilmente un antico conoscente: così decide di mettere per iscritto la storia che li riguarda, iniziata in quella stessa casa decenni prima, ben oltre mezzo secolo. Franco narra in prima persona, la narrazione si sposta spesso in terza sugli altri; prologo ed epilogo al presente, il resto (dei quarantatré serrati capitoli) al passato. Le luci (del titolo) ci sono di continuo, dei colori cangianti e della stagione estiva, nel cielo e nei cuori. Le vite familiari dei ragazzi sono descritte con garbo e acume, le passioni politiche e affettive con senso storico, l’intreccio di casi e necessità, di contingenze immediate e fenomeni di lungo periodo con intelligenza letteraria. Il contesto non è immaginario e l’autore ha attentamente esaminato giornali e filmati d’epoca. Sino alla fine non si capisce l’urgenza di “confessare” di Franco, sono quei giorni al centro del romanzo, cinquant’anni di vite parallele poi riassunte brevemente con le parole d’oggi prima dell’epilogo, consistente in una nota di cronaca su “Repubblica Palermo” del 3 agosto 2017. Birra Messina, musica napoletana con Modugno e Carosone, fra l’altro.

 

Moussa Konaté

«Omicidio a Timbuctu»

traduzione di Silvia Scialanca (che firma un’ottima interessante nota finale)

Del Vecchio editore

246 pagine, 16 euro

Timbuctu, Mali. Fine 2010. Nell’accampamento dell’allegra famiglia di Aghaly Ag Hussein è l’ora dello zuhr, mezzogiorno, il momento della preghiera islamica recitata, la seconda delle cinque preghiere quotidiane. Rhissa, il figlio maggiore del patriarca, appare preoccupato perché il suo dispettoso fratello Ibrahim non è ancora tornato, manca dalla mattina. La moglie del patriarca Fatma Walette Sidi-Mohamed è allettata da molte lune e gioca con Ahmed, il nipote di nove anni e terzo figlio di Rhissa, il quale, d’intesa con la propria moglie e con quella incinta di Ibrahim, va a prendere il dromedario per cercarlo sulla strada verso Timbuctu. Dopo qualche chilometro trova solo il corpo, sdraiato su un fico, appoggiato sulla schiena, coperto di sabbia e con il volto insanguinato, è morto. Lo carica sul dromedario e va in commissariato. Famiglia e amici sono convinti che il responsabile vada individuato nella comunità apparentata (cugini che non si amano) di Saïf Ag Youssef. Intervento pubblico immediato? Spedizione punitiva privata? A fatica si concorda poco tempo per qualche preliminare procedura ufficiale. Il fatto è che quasi in contemporanea c’è una sparatoria contro un cittadino francese. Le due storie sono collegate? C’è un rischio incombente di terrorismo islamista? Di traffico di droga e rapimenti? Si muove l’ambasciata francese. Nella capitale Bamako si convoca una riunione al vertice e chiedono al commissario Habib di andare direttamente sul posto, accompagnato da due giovani, il suo fido assistente e un agente dei servizi francesi. Partono in battello verso l’area fluviale del Niger, un paesaggio indimenticabile. L’indagine fra i tuareg avrà bisogno di conoscenze e introspezioni sofisticate, come nello stile del mitico personaggio.

Non perdetevelo! Il grande maliano Moussa Konatè (Kita, 1951 – Limoges, 2013) ha insegnato e scritto a lungo, romanzi e saggi, opere per ragazzi e per il teatro. Fra l’altro, onesti umili capolavori noir. Letteratura di genere, certo, consapevolmente, ma differente da quella che mai avete potuto leggere, africana subsahariana. Niente a che vedere con il giallo classico, con l’hard-boiled, con il polar o con il noir occidentale, pur se è evidente che questi generi o sottogeneri sono stati tutti sentimentalmente digeriti. Konaté mette in campo un’altra portentosa cultura civile, che prevede (come ogni cultura sociale) pure crimini e misfatti, individuali e collettivi, per ragioni sia contingenti che strutturali. A proprio modo, assolutamente non esotico né prettamente pedagogico. Racconta facendoci conoscere tradizioni e abitudini, simboli e codici, corruzione e integralismo, assetti di famiglie e poteri, storia e geografia del Mali e di parte dell’Africa. Noir nel senso di romanzi che fanno capire differenze e fratture della società in cui sono ambientati. La narrazione è in terza varia al passato, prevalentemente sui poliziotti. Investigare in Mali è diverso che indagare in Francia: i costumi variano da una regione all’altra; l’islam e il cristianesimo convivono e si mischiano con l’animismo; il Mali di ieri non si ritiene vinto dal Mali dei tempi moderni; c’è sempre un qualche marabutto indovino del quale tenere (poco) conto; condurre un’indagine a cavallo, sul dorso di un dromedario o a piedi, nel deserto, non è proprio la stessa cosa che correre in macchina in una città francese. Una meraviglia di stile e contenuto, di ritmo e dialoghi, competenti ironici originali. Il probo e maturo protagonista è Habib Kéita, commissario capo della squadra anticrimine (qui prossimo alle dimissioni): discende dalla stirpe dell’imperatore fondatore della grande etnia dei mandingo, ricchi importanti studi dai bianchi in Francia (e dai rossi a Bordeaux, ma in patria si è riconvertito all’acqua); ha una cheta discreta moglie tradizionale e tre cari giocosi figli (qui il maggiore è adolescente). L’erede prediletto è il giovane intrepido collaboratore ispettore Sosso Traoré (qui promosso capitano). Cucina, bevande, melodie della meravigliosa leggendaria Timbuctu: vien voglia di partire, portatevelo!

 

Francesco Recami

«I killer non vanno in pensione»

Sellerio

580 pagine, 16 euro

Treviso. Aprile 2015. Piove da giorni. Nelle sue omelie parrocchiali, preparate meticolosamente al computer da dove poi le legge, il celebrante don Carlo Zanobin allude al rischio di Apocalisse, per i fiumi che stanno per traboccare e travolgere le operose città. Il lavoro presso la Direzione Provinciale dell’INPS sembra scorrere tranquillo, con le solite dinamiche fra furbi e quieti, eleganti appariscenti e grigi marginali, chiacchiere e pettegolezzi su ogni aspetto pubblico e privato, meteorologico e sportivo, carrieristico e sessuale. Walter Galati risulta a tutti un modesto impiegato, preciso e subalterno, sfruttato dall’opportunismo di colleghi nullafacenti o corrotti; oltre che, a casa, sottomesso alle pretese della moglie Stefania (deve pure badare al cagnolino Fufi). In realtà, si tratta di una copertura per esercitare meglio la seconda redditizia professione di killer poliglotta di successo, irreprensibile e spietato. Ha iniziato circa dieci anni prima, più o meno da quando si è sposato. Non fa carriera in ufficio e continua a prendere solo 1.450 euro al mese; poi riceve messaggi cifrati a una casella postale elettronica con incarichi di varia difficoltà, realizza omicidi di personaggi noti o sconosciuti, prende 400.000 dollari a contratto, ne ha già completati diciassette, è intenzionato a smettere e sparire. Gli arriva l’ordine di uccidere un vecchio a Procida, età nome foto modalità, c’è qualcosa che non gli torna, forse è l’occasione per farlo fuori, ci potrebbe essere di mezzo un altro killer contro di lui, addirittura la mitica Colomba. La situazione si complica perché sta arrivando un’ispezione ministeriale, giustificata ma dirompente, sui suoi colleghi impiegati della Banda dei Quattro, i quali non possono che reagire con violenza. Ne succederanno di tutti i colori, mentre il Sile straripa: equivoci misfatti crimini e morti a volontà.

L’irriverente divertente scrittore satirico toscano Francesco Recami (Firenze, 1956), noto in passato soprattutto per romanzi e racconti gialli dedicati ai condomini di una casa di ringhiera a Milano, poi per una seconda serie toscana di favole (incubi) noir, narra in questo nuovo romanzo la doppia vita di alcuni di noi, in particolare quando sopravvengono elementi perturbatori. La narrazione è in terza (quasi) fissa sul protagonista, modesto funzionario ed eccelso assassino. Dopo un avventuroso decennio vorrebbe andare in pensione (sul conto in Svizzera ci sono circa sette milioni di dollari) ma non è certo che sia previsto dalle regole dell’Agenzia (da cui il titolo: identico quello generale e quello del primo capitolo). Lo svolgimento è ricco di riferimenti agli animali, soprattutto ai cani, non solo quelli del parallelo intreccio di efferate aggressioni; anche a tante altre famiglie e specie, tanto che quasi alla fine di ognuno dei dieci capitoli c’è un colto paragrafo scientifico in neretto sulle possibili contiguità evolutive di faine, iene, scimmie, scorpioni e altri con comportamenti umani come predazione in eccesso, infanticidio, movimento impazzito di fuga, violenza sessuale, cose così. Associazioni e movimenti in difesa degli animali hanno così un loro ruolo in tutte le vicende. Segnalo le povere traduttrici russe o ucraine delle esperte escort offerte ai russi per convincerli a investire sulla Sex City veneta. Grandi vini bianchi regionali accanto ad Amarone e grappa. Allo stremo delle forze, quasi in coma, l’ispettrice sente in testa solo canzonette tipo New Trolls e Loretta Goggi.

 

Jeffery Deaver

«La mappa nera»

traduzione di Sandro Ristori

Rizzoli

444 pagine, 19 euro

San Francisco. Inizio estate 2019. Il taciturno Colter Inquieto Shaw di mestiere fa il localizzatore, ovvero insegue ricompense, materiali e affettive. In genere cerca le persone che qualcuno vuole ritrovare, valutando caso per caso, non lavora per criminali, risulta allergico alle burocrazie. Ha circa 31 anni, parla solo sobrio e composto, sorride molto raramente, è permanentemente leale e irrequieto; uno da non prendere alla leggera, talento da vendere nello sviscerare ogni tipo di indizio, calcola gli eventuali nessi di causa ed effetto e le probabilità dei possibili eventi futuri. Sfiora il metro e ottanta, capelli biondi corti, occhi blu con spruzzate di grigio, carnagione chiara, corporatura muscolosa e compatta, spalle larghe, muscoli tesi, cicatrici su guancia, coscia e (più grande) collo; vive solo in un camper (Winnebago), se può gira in moto (Yamaha da cross), affitta berline anonime e servizievoli. Il padre Ashton ha insegnato ai tre figli il grande Libro del Mai, l’arte della sopravvivenza in condizioni estreme o inattese (sfiduciati verso le autorità ma rispettosi della legge), pure al maggiore Eremita Russell (circa 37), da tempo altrove, e alla minore Astuta Dorion (circa 28), sposata con prole nel Maryland; il capofamiglia è stato ucciso molti anni prima, la madre vive ancora isolata alla Tenuta, vicino a Fresno. Colter decide di darsi definitivamente e finalmente l’ indispensabile sfida personale: completarne la missione, scoprire chi e perché lo volevano morto, sa che la società BlackBridge faceva pessime cose e che è ancora in corso un progetto per manipolare i collegi elettorali con le droghe. Il padre aveva anche carpito e nascosto qualcosa, forse indicato in una mappa, che potrebbe sconvolgere la California, gli Stati Uniti, il mondo. Colter s’avventura ma deve pure ritrovare la giovane Tessy, la madre glielo chiede nel modo giusto. E si rifà vivo il fratello. Il pericolo costante è il loro mestiere.

L’eccelso scrittore americano di thriller Jeffery Deaver (Glen Ellyn, Illinois, 6 maggio 1950) dopo altri cicli ed esperienze narrative (dal 1988) e lo straordinario successo della serie con Lincoln Rhyme (dal 1997), ben conosciuto in 24 lingue e oltre centocinquanta Paesi, pure al cinema, insiste con il nuovo affascinante personaggio. Dall’inizio della pandemia, ha scritto ancor di più: la nuova avventura di Lincoln di prossima uscita e varie consecutive storie di Colter Shaw, questa volta quasi in contrastata coppia con Russell. Come al solito i testi dell’autore hanno meccanismi perfettamente oleati, ormai ritmi e linguaggi delle serie televisive, meno chiacchiere e più azione, dialoghi godibili ed essenziali. Il titolo americano richiama il momento “finale” circa la ricostruzione della vicenda paterna, il titolo italiano lo strumento iniziale usato per capire il da farsi, senza successo. L’esergo rende l’idea dell’argomento di fondo, una frase di Noam Chomsky: «Per i potenti, i crimini sono quelli che commettono gli altri». Siamo al confine fra la corruzione pubblica nello spionaggio industriale e gli interessi privati a condizionare ogni mercato: «le aziende non hanno coscienza né convinzioni, non hanno sentimenti, pensieri o desideri… Non fanno parte del Popolo, dal quale e per il quale la nostra Costituzione è stata redatta…». Gli eroi solitari, come il protagonista, dovrebbero cercare di limitare i danni. Non a caso preferisce scrivere appunti a mano sulla carta: se digiti o ascolti crei un rapporto effimero con le parole. Tante birre locali, anche se l’onnipotente cattivo beve pessimo Chardonnay barricato mentre i manifestanti urlano: «Non ci vendiamo alle multinazionali». Il chitarrista preferito di Colter è l’australiano Tommy Emmanuel, ma Russell conosce meglio il rock.

 

James Ellroy

«American Tabloid»

traduzione di Stefano Bortolussi

Einaudi (prima edizione italiana: Mondadori 1995)

772 pagine, 20 euro

Usa. 1958-1963. Cinque anni di storia americana inseriti in contesti criminali e romantici, ecco il mitico “American Tabloid”, primo romanzo della trilogia che, dopo la tetralogia ambientata in California (uscita fra 1987 e 1992, iniziata con “Dalia nera”), ha reso immancabile la lettura dello scrittore James Ellroy, pseudonimo di Lee Earle Ellroy (Los Angeles, 4 marzo 1948): «Dipingo la nostra storia politica come una vicenda di alta criminalità seguita da poliziotti violenti dai turbolenti legami amorosi con donne forti». Qui tre di quegli sbirri facilitano l’ascesa al potere di John F. Kennedy e complottano poi per assassinarlo, audace verosimiglianza: elezioni truccate del 1960; Baia dei Porci con Cuba, omicidio presidenziale di Dallas; Cia, Fbi, Mafia, Ku Klux Klan; di tutto di più; verità dei fatti “risibile” (come riconosce l’autore), potenza letteraria magnifica ed elettrizzante: «È tempo di demitizzare un’èra e costruire un nuovo mito, dalle stalle alle stelle».

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *