Cassar Scalia, Lattanzi, Lucarelli, Manzini, Offutt con…

Scano e il duo Camilla Läckberg e Henrik Fexeus

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

Chris Offutt

«Le colline della morte»

traduzione di Roberto Serrai

Minimum Fax

224 pagine, 16 euro

Contea di Rowan, Kentucky orientale. Poco tempo fa. L’81enne Tucker, il più anziano della comunità, ex custode delle elementari, cammina all’alba circospetto ed esperto sulle colline alla ricerca di ginseng, che cresce basso nel sottobosco e non va colto troppo presto, talora è meglio aspettare anni. In una bella conca isolata rinviene una donna che riconosce, con il corpo addossato a un albero e la testa che ciondola, morta. Quella stessa mattina Mick Hardin si sveglia all’aperto nel bosco, abbastanza vicino alla capanna del nonno (vi aveva vissuto dopo la morte del padre, dai nove anni all’arruolamento) dove si ubriaca e dorme da giorni, con la testa che gli scoppia e un’enorme sete. Sta ancora provando a riprendersi quando arriva il suv della sorella Linda che, in uniforme da sceriffo, gli chiede aiuto: hanno scoperto il corpo, si tratta di una vedova di 43 anni, Veronica Nonnie Johnson, forse uccisa altrove tre giorni prima, ma il sindaco, il giudice e un pezzo grosso del carbone vorrebbero tenerla a distanza dalle indagini. Visto che Mike è cresciuto lì, conosce bene le colline e tutti sanno chi è, e poi è stato 14 anni nell’esercito per essere quindi trasferito alla divisione investigativa della polizia militare, occupandosi perlopiù di omicidi, ora di stanza in Germania, potrebbe accompagnarla e darle una mano, la gente gli parlerà facilmente. Finora in quella contea non si è mai trovato un cadavere senza che quasi tutti già sapessero chi era stato, si tratta sempre di beghe e vendette tra famiglie. Mike è tornato per tutt’altre ragioni: la moglie vive lì, gli ha comunicato di essere incinta e di non essere certa sulla paternità, lui non sa che fare. Intanto indaga accanto alla sorella, questa volta non è così semplice ricostruire le origini e i protagonisti del crimine.

Il grandissimo scrittore americano Chris Offutt (Lexington, 1958) esordisce nel puro crime noir con uno splendido romanzo. The Killing Hills è il titolo e il tema. Certi disaccordi sulle colline ti scappano di mano, e vanno a finire a cazzotti, o a fucilate. I legami di sangue contano più di ogni altra cosa: schietti, ma non aperti; sinceri, ma reticenti; guardinghi, eppure amichevoli. Tanti bei posti, è vero, tutti con storie difficili, dietro. La gente degli Appalachi continua in parte a vivere sotto vecchi codici che ti costringono all’azione: le offese risultano sempre un fatto personale, i segreti e le vendette si tramandano per generazioni. Sulle colline appare più pratico farli fuori i debitori, prima di rimettergli i debiti. Si mantengono così propri antichi usi e costumi: l’alto tasso di analfabetismo, la scarsa fiducia nella legge, il guardarsi sempre alle spalle, le malinconiche permanenti faide familiari, la cultura del baratto e del soprannome, il fermarsi per far salire in auto senza che si trovi l’autostop, il traffico intenso solo in occasioni di funerali o partite di calcio. La narrazione è in terza varia, abbastanza concentrata su Mick, il generoso riuscito protagonista (pur se Tucker era già apparso nel precedente romanzo, ambientato molti decenni prima). Tecnicamente la vicenda si svolge mentre lui è assente e viene reclamato dal lavoro in Europa, senza permesso ormai da giorni. Tuttavia, i fratelli vanno d’accordo e agiscono di concerto: i genitori erano separati, la madre aveva vissuto come una reclusa, il padre alcolizzato, il nonno eremita, sanno cavarsela. Mick, aperto a tutto, attento alle cose, in empatia con l’ambiente, è legato visceralmente alla sua terra ma se ne è andato, divenendo capace di vederne bene limiti e difetti, praticando poi un limpido codice non identitario di lealtà e giustizia, un veterano di guerra con ferite in Iraq, Afghanistan e Siria, qui alle prese anche con un delicato trauma personale, visto il rapporto d’amore con la moglie Peggy e il loro futuro oggettivamente incerto. Il comandante vorrebbe inviarlo a Camp Darby in Italia per un triplice omicidio. Fra i tanti ricordi belli della coppia vi è proprio la vacanza sulla costiera amalfitana, il vino, la pasta, il pesce. Per dimenticare non è bastata la cassa di bourbon bevuta da solo per nove piovosi giorni. Mick è destinato a tornare, non necessariamente stabile nel Kentucky oggi devastato dai tornado, l’autore sta già scrivendo la terza avventura della serie (ha dichiarato che i suoi modelli sono Izzo e Carlotto, ottimo e ne è all’altezza).

 

Lorenzo Scano

«Via libera»

Rizzoli

424 pagine , 16 euro

Cagliari. Di questi tempi. Il CEP è il noto quartiere cittadino con oltre cinquant’anni di storia, grazie a un progetto di edilizia popolare d’inizio anni sessanta, presto degradato con tanta droga e tanti furti, ancor oggi semi periferia urbana con scarsi centri di aggregazione, pur con alcuni spazi verdi ben curati. È il primo rione della città per numero di abitanti anziani (oltre 1300 su 2mila) e ultimo per le nascite. Chi può scappa, anche se gli mancherà e ammesso che trovi la via libera: Via libera è appunto il nuovo bel noir di Lorenzo Scano (1993) che inizia con un terribile suicidio giovanile e racconta la propria generazione tramite 3 minorenni inquieti e smarriti: David, già finito nel carcere minorile, Chanel, il cui padre è una vecchia gloria del pugilato e della piccola malavita, Filippo, rampollo drogato di buona famiglia attirato dai balordi di periferia. Si conoscono, boxano, si frequentano, amano, deragliano, qualcuno morirà. Finalista allo Scerbanenco 2021.

 

Antonella Lattanzi

«Questo giorno che incombe»

HarperCollins

468 pagine per 19,50 euro

Poco tempo fa. Francesca si è appena trasferita da Milano a Roma, con il marito Massimo e le figlie Emma e Angela, in un contesto urbano che appare perfetto ma manifesta stranezze. C’è un inespugnabile cancello rosso, i condòmini risultano uniti e mostrano di vedere o di sapere tutto, quasi come in una setta. Lei pensa di essere perseguitata, sente inquietanti respiri e ordini della casa stessa, si riempie di ossessioni e paranoie. Poi scompare una bimba di cinque anni, ha timore possa essere una figlia, ma loro tornano, quella che forse è stata uccisa è Teresa, figlia di Marika e Giulio. Partono le indagini, si rincorrono voci pettegolezzi segreti pericoli turbamenti minacce sospetti passioni, la mente di Francesca sembra implodere. Questo giorno che incombe di Antonella Lattanzi (Bari, 1979) è liberamente ispirato a un episodio di cronaca e risucchia il lettore in un noir claustrofobico di qualità, non convenzionale, narrato in terza fissa. Vincitore del Premio Scerbanenco 2021.

 

Carlo Lucarelli

«Léon»

Einaudi

208 pagine per 17,50 euro

Bologna (e dintorni). Da novembre a marzo (scorsi). I carabinieri trovano l’infermiera 21enne Marta Leosetti sotto il lavandino della cucina, incastrata tra il tubo di scarico e i detersivi. Le due camere sono vuote, in bagno nella vasca ci sono due cadaveri immersi nel sangue, i coinquilini Paolone e Lorenza. Siamo fra le casette a schiera ricavate dai padiglioni del vecchio manicomio di Imola, quando l’hanno dismesso; si tratta di una residenza psichiatrica giudiziaria e in quella villetta era stato detenuto per quasi dieci anni, stabile e sotto controllo, l’Iguana, il serial killer cieco Alessio Crotti, che ora è scomparso. Subito trasferiscono in un luogo segreto, a Monteombraro sull’Appennino, l’ispettrice capo Grazia Negro, che l’aveva fatto catturare oltre dieci anni prima e che da trentatrè settimane aveva mollato polizia e mostri per mettersi in aspettativa e diventare mamma single da un donatore. A lei dopo un cesareo sono così appena nate due gemelle all’Ospedale Maggiore di Bologna, via tutte e, poco dopo, portano nel casolare isolato pure il 35enne Simone Martini, ex compagno non vedente (dalla nascita) di Grazia che a suo tempo l’aveva aiutata nell’indagine e che da più di un anno sta chiuso in casa quasi senza rispondere al telefono e incontrare nessuno, facendo però tanto allenamento di pesi ed esercizi fisici in una stanza arredata da palestra, eremita del fitness. Poi c’è qualcun Altro che assomiglia a Ray Cooper, gira in taxi e sembra coinvolto, però agli inquirenti non torna quasi niente in questa storia, molti sono destinati a pagarne un caro prezzo.

Il grande poliedrico scrittore, oltre che sceneggiatore e conduttore televisivo, Carlo Lucarelli (Parma, 1960) torna periodicamente sui suoi principali personaggi. Grazia Negro è già stata protagonista in Lupo mannaro (1994 e 2009), Almost Blue (1997, con Simone), Un giorno dopo l’altro (2000), Il sogno di volare (2013) e in altri racconti. Nel nuovo bel romanzo (2021) siamo in piena pandemia, il viaggio sembra emotivo e sensoriale, i volti del trucido male sono abbastanza coperti. La narrazione è asciutta e mista, con continui colpi di scena e cambi d’umore: in terza varia al presente e al passato, in prima varia sempre al presente. Grazia è il prisma attorno a cui tutti ruotano, proprio quando lei vorrebbe non far più la cacciatrice di persone pessime, ha scelto di isolarsi e, con la fecondazione artificiale, di fare la mamma e basta, godersi almeno le prime settimane delle figlie, non mollarle neanche un attimo, allattarle per quel che può, dedicarsi loro in via esclusiva e trovar il nome a entrambe visto che non ha fatto in tempo a decidere nemmeno quello. Una qualche musica si ascolta in tutti gli ambienti, con tutti i sensi allertati, pur se a scandire la vicenda è la canzone d’amore criminale (omonima del titolo) Léon della rock band dei Melancholia (2021), mentre chi uccide si intrattiene o estrania con i versi di Lost Umbrella (2020) e Amandoti (1990).

 

Camilla Läckberg e Henrik Fexeus

«Il codice dell’illusionista»

traduzione di Alessandra Albertari e Laura Cangemi

Marsilio

720 pagine, 22 euro

Stoccolma. Oggi nella pandemia, tra febbraio e ottobre scorsi. La bionda Tuva lavora in un bar del quartiere di Hornstull, è in ritardo di oltre mezz’ora, il figlio Linus la sta aspettando al nido. Si mette un caffè nel bicchierino di carta e corre verso la metro, ma le gambe le cedono, sviene. Si ritrova con gli arti incastrati in una cassa di legno molto stretta, non lo sa ma è la cosiddetta sword casket o sword box. In rapida successione alcune spade la tagliano superficialmente con precisione e poi la squarciano da parte a parte, muore. La polizia non sa dove metter le mani quando la cassa viene ritrovata il giorno dopo in un luna park, il corpo non viene identificato, non ci sono né indizi né indiziati; si trova disorientata e senza idee pure l’autonoma squadra speciale al di fuori dell’organigramma, coordinata dalla competente figlia del capo della polizia. Qualche giorno dopo, prima che la stampa intervenga, l’ostinata, agguerrita e paranoica ispettrice Mina Dabiri (viso acqua e sapone, coda di cavallo) suggerisce di coinvolgere nel caso il famoso 47enne Maestro Mentalista Vincent Walder e va a vedere il suo applauditissimo spettacolo al teatro di Gävle, riuscendo a parlarci dopo l’esibizione e a spiegare le ragioni per cui hanno bisogno di un esperto sia di psiche umana che di illusionismo classico: sembra esserci un messaggio nell’omicidio e forse non è la prima e comunque l’unica vittima. Dopo un’altra settimana Mina lo richiama e si rivedono: pur non essendo né psicologo né terapeuta (si considera un intrattenitore), Vincent è invitato il giorno dopo alla sede centrale della polizia per essere presentato alla squadra. Scatta subito la necessità di una manutenzione psicologica del gruppo (i maschi sono vigili e diversi) e i passi avanti stentano ad arrivare, si muore ancora e, forse, bisogna invece andare indietro nel tempo, a Kvibille, al 1982, a quando l’illusionista era bambino.

La brava notissima autrice e imprenditrice Jean Edith Camilla Läckberg Eriksson (Fjällbacka, 1974, quattro figli) e il mentalista e conduttore televisivo Henrik Fexeus (Örebro, 1971, tre figli) hanno scritto davvero a quattro mani il primo lungo episodio di una trilogia con due nuovi protagonisti “strani”, goffi e affascinanti. La narrazione è in terza varia su due differenti piani narrativi, da una parte ora con tempi al passato, mese dopo mese, dall’altra quasi quaranta anni fa con tempi perlopiù al passato e infine al presente. La misofoba Mina e il simmetrico Vincent sono pieni di manie e ossessioni, inevitabilmente si attraggono con stile e rispetto. Il dipanarsi della vicenda è l’occasione per conoscere e ammirare retorici linguaggi del corpo e ossessivi calcoli numerici, comunicazione non verbale e psicologia pratica, lavori sulle illusioni e giochi di prestigio, decifrazione di codici e fenomeni abduttivi, insomma che succede nella nostra testa per contribuire a determinare i nostri comportamenti. E viceversa. Il titolo ne consegue. Per capirci: il lancio di un’occhiata divertita può comportare attrazione chimica, ovvero un picco della produzione sia di cortisolo, l’ormone dello stress, che di dopamina, la cosiddetta “sostanza del piacere”, e allo stesso tempo far aumentare la secrezione di serotonina, che a sua volta provoca un rialzo del quaranta per cento di testosterone. E ciò vale sia nelle riunioni circoscritte che di fronte alle tanti differenti persone di un pubblico spettacolo. A buon rendere. Ne risulta un avvincente giallo, ricco di cambi e colpi di scena, e un’interessante acquisizione culturale, scritta con stile e maestria.

 

Cristina Cassar Scalia

«Il talento del cappellano»

Einaudi

316 pagine, 18 euro

Catania. 26 dicembre 2016-3 gennaio 2017. Nevica. Nunzio Scimemi ha paura di essersi scordato una finestra aperta nelle stanze d’ingresso del vecchio magnifico albergo in ristrutturazione, il Grand Hotel della Montagna. Alle tre del mattino, reduci da festeggiamenti, convince la fidanzata 60enne Tanuzza (una vedova, stanno insieme da tre anni) che deve tornare un attimo al cantiere isolato di cui fa il custode, si trova su una strada che porta in cima all’Etna. Scendono dalla Panda 4×4, lei resta dietro al bancone, lui sente uno spiffero nel salone, entra e vede un finestrone socchiuso, poi con la torcia illumina il cadavere di una donna sul pavimento. Richiudono la porta, scappano fuori di corsa, si chiudono tremanti in auto e chiamano i poliziotti, che arrivano ma non trovano più niente: una pozza d’acqua davanti al caminetto, nessun corpo o impronta o traccia di sangue. Raggiungono al telefono il vicequestore aggiunto Giovanna Vanina Guarrasi, che si trova a Palermo per le feste, con la sorella a casa della madre e del suo ottimo secondo sposo. Vanina recupera la Mini bianca, va a salutare il caro Paolo Malfitano, magistrato alla Dda nonché ex compagno lasciato quattro anni prima e da qualche mese riapparso con turbamenti e passioni, e se ne torna subito a Catania, a fatica, c’è un gran traffico. Che l’indagine abbia inizio, la sua squadra l’aspetta al completo, sia carusi che veterani (compreso Patanè in pensione). C’è una sola denuncia di scomparsa, riguarda Azzurra Leonardi, bella e brava pediatra 41enne in servizio al Policlinico, l’ha sporta il marito separato. Si avviano ricerche, verifiche, interrogatori, finché il giorno dopo vengono trovati due cadaveri al cimitero di Santo Stefano, quello della donna insieme a quello di monsignor Antonino Murgo, un sacerdote sessantenne di Acireale, già cappellano di Sua Santità, entrambi strangolati (forse in luoghi e momenti diversi), ora adagiati insieme e uniti da un nastro rosso e da altri addobbi. Da chi? Perché?

La medica oftalmologa Cristina Cassar Scalia (Noto, 1977) continua a scrivere bei gialli, siamo al quinto ben congegnato romanzo dedicato a Vanina, ogni avventura ambientata a circa un mese di distanza l’una dall’altra, questa volta a cavallo tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. La narrazione è in terza varia al passato, perlopiù sulla protagonista, oppure sugli altri investigatori. Lo stile appare simpatico, scorrevole, colto e attento alle parole, incistato là alle pendici della muntagna, dell’Etna (per quanto la protagonista sia originaria di Palermo e lì mantenga legami). Il titolo fa riferimento all’empatia e al carisma emanati dal talentuoso ucciso, giustamente stimato come uomo di fede ed educazione (fra gli scout, oltretutto). Non erano brutte persone. Trovare movente e occasioni degli omicidi non è affatto semplice, le piste latitano come i possibili colpevoli: fortunatamente Patanè e Guarrasi pensano all’unisono e lentamente arrivano alla stessa conclusione da strade diverse e parallele, entrambe avvincenti. Tutti gli altri personaggi sono diventati ormai di casa, sia nella vita poliziesca che nella vita personale di Vanina, cinefila, dipendente pure da sigarette e cioccolato fondente. Le turbolente descrizioni del guazzabuglio affettivo e professionale (l’attrazione per un medico gentile, la gravidanza di Giuli, i ricordi del padre ucciso dalla mafia e il richiamo del capoluogo regionale, le dinamiche in Questura e la ricerca del covo di un importante latitante) risultano efficacemente parte dell’indagine, “gialle” tanto quanto la trama. La vicina garantisce cibo di qualità, lei non saprebbe dove mettersi le mani, pur se gusto e appetito non mancano (anche nei confronti del vino rosso). Nella playlist dell’auto questa volta all’inizio seleziona Vasco; poi spesso alle canzoni di parole preferisce i Brahms, Paganini e Bach del maestro Escher.

 

Antonio Manzini

«Le ossa parlano»

Sellerio

402 pagine, 15 euro

Val d’Aosta e dintorni. Aprile 2014. Il vice questore Rocco Schiavone può ormai tornare al lavoro. Ha testimoniato al processo romano contro il primo dirigente di polizia Mastrodomenico, a capo della banda armata sulla quale aveva indagato nel 2007, poi nel 2012 responsabile del suo trasferimento in montagna (pur per giustificati motivi disciplinari); ha finalmente bruciato le scarpe e gli abiti della moglie Marina uccisa per gli sviluppi di quell’indagine, lei comunque continua ad apparirgli e a parlargli; ha venduto a un buon alto prezzo l’attico a Monteverde Vecchio, sente di non avere più davvero nessun legame con Roma; ha dormito in una stanza d’albergo a piazza Vittorio, «’sta città m’ha cacciato e a tornarci non vedo il motivo»; ha salutato con affetto gli amici d’infanzia Brizio e Furio, tutti e tre traditi da Sebastiano complice della banda. Al rientro scopre che Lupa ha partorito tre cuccioli ma viene subito coinvolto da una brutta storia: nei boschi vicino Saint-Nicolas (a una trentina di chilometri dal capoluogo) durante la passeggiata un ortopedico in pensione ha rinvenuto ossa umane, di bimbo. Chiamano subito vari esperti e l’antropologo forense di Torino offre un nome ai resti (finché non trovano quello vero): Pillo era alto un metro e 25 e doveva avere tra dieci e undici anni, si vede una vecchia frattura alla gamba sinistra, difficile dire da quanto è morto, forse nel 2008. Trovano pure una spilletta con lo stemma scudo di Capitan America e cominciano a fare ricerche fra gli scomparsi e i pedofili, domande in giro. Presto riusciranno a scoprire l’identità dell’ucciso, la spilla è di Mirko di Ivrea, quasi certamente strangolato, probabilmente violentato, tutta la squadra della Questura non se ne dà pace, bisogna trovare chi è stato. In tutti i modi. Rocco è la quinta volta che incappa nell’omicidio di un minore, non riesce a ignorare orrori malattie sangue lacrime, si concentra solo sull’indagine, con tanta pazienza e il solito acume (anche nel gestire i suoi uomini e donne).

Undicesimo godibilissimo romanzo letterario dell’eccelsa serie Schiavone per l’attore e regista di teatro Antonio Manzini (Roma, 1964), originale anche perché concepita come opera unica “alla ricerca del tempo perduto”. Dal 2013 finora ha narrato diciannove mesi valdostani del suo personaggio romano, sempre con uno straordinario meritato successo (anche in televisione, strumento diverso e separato, a breve la quinta stagione). Qui il processo di desertificazione interiore (il continuo circuito di illusioni e delusioni) è confermato dal senso di solitudine amoroso ma affievolito dal totale disgusto e dalla fattiva rabbia verso il pedofilo assassino. «I fatti corrono, scivolano via come oggetti in una scarpata e vanno a finire in luoghi nascosti dove recuperarli è impossibile. Solo le parole, a volte, possono fermarne la corsa», enunciate o lette o scritte. Tutto avviene in terza persona varia al passato (quasi sempre su Rocco), lo stile appare sempre curato e coerente fra commozione e sorriso, i dialoghi affiatati e divertenti, il titolo connesso alle vere attività del Labanof di Milano per i cadaveri senza nome (ancor più meritorie in relazione al naufragio di Lampedusa il 3 ottobre 2013), così sintetizzate dall’antropologo nel caso concreto: «Ossa luquuntur. Le ossa parlano. I denti… la tibia sinistra… l’osso ioide…». Il protagonista non rinuncia a Loden e Clarks, si rattrista per Mirko ucciso e il figlio che non ha avuto, sottolinea alcune significative rotture di coglioni dell’ottavo livello: le rimpatriate fra colleghi (è tornata anche Caterina), ginnastica e sport, l’acquisto di un nuovo telefono. Tutti gli altri e le altre della squadra aggiornano propri casini e passioni: per esempio Italo le pericolose illegali truffe al poker o Michele la conquistata normalità del rapporto con Federico. Come sempre tanti libri nelle righe o fra di esse, tanti personaggi definiti dagli animali cui assomigliano. Segnalo il molto fico capo ufficio stampa del FAI a Milano che potrebbe aver conquistato la mamma di Gabriele: chi mai sarà? Whisky sì, se è vino queste volte bollicine oppure rosso. L’anatomopatologo Alberto Fumagalli è pure esperto di musica, considera Kikujiro di Joe Hisaishi in L’estate di Kikujiro una delle più belle colonne sonore di sempre e Atom Earth Mother dei Pink Floyd qualcosa di definitivo.

 

Redazione
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