Caudillismo vs partecipazione in Nicaragua

Il FSLN, che sorse dalle viscere del popolo e combatté per il suo progresso, poco a poco ha finito per adottare i metodi e gli strumenti del caudillismo, ossia della politica tradizionale che la destra ha sempre utilizzato, abbandonando e rinnegando il proprio passato rivoluzionario.

di Bái Qiú’ēn

L’attacco al culto di Napoleone venne iniziato dal colonnello Charras, nella sua opera sulla campagna del 1815. In seguito, e particolarmente in questi ultimi anni, la letteratura francese, con le armi dell’indagine storica, della critica, della satira e del motto di spirito, ha dato il colpo di grazia alla leggenda Napoleonica. […] Io spero, infine, che il mio scritto contribuirà a liberarci della frase scolastica, ora così corrente specie in Germania, circa il cosiddetto cesarismo (Karl Marx).

Dall’Indipendenza in poi, lo sviluppo storico-politico del Nicaragua si è sempre svolto sotto il segno dei caudillos, in quanto massimi rappresentanti delle oligarchie, le quali mantenevano uno stretto e rigido controllo sulle istituzioni. Poiché il caudillismo trova la propria origine psicologica nell’individualismo egocentrico e autocratico, a tutti gli effetti le istituzioni altro non erano che le oligarchie stesse, e viceversa.

Il caudillismo o caciquismo, traducibile in italiano con «cesarismo» o «bonapartismo», fa parte del DNA latinoamericano e il migliore esempio locale è senza dubbio incarnato dalla dinastia somozista, la quale ha controllato per oltre quaranta anni il potere politico ed economico del Paese, pur non essendo sempre formalmente alla presidenza della Repubblica. In precedenza, le famiglie Chamorro, Sacasa e poche altre, come vere dinastie hanno monopolizzato a turno lo Stato e, quindi, il potere nazionale.

La drastica rottura di questo schema avvenne nel decennio della Rivoluzione Popolare Sandinista, nel quale, pur con svariati errori e insuccessi, prevalse un’effettiva partecipazione dal basso, attraverso svariate strutture di democrazia partecipativa. Come l’esperienza dei cabildos abiertos, tradizione politica dei popoli indigeni dell’America Centrale, che non avevano letto Montesquieu né Marx. Ma effettuavano consultazioni nelle quali tutti i settori della popolazione esprimevano in modo democratico e paritario la loro opinione e si assumevano decisioni sovrane. Sistema decisionale che fu parzialmente incorporato dalla Corona spagnola nel governo coloniale fino all’Indipendenza.

All’interno della logica della difesa del progetto rivoluzionario, la Rivoluzione Popolare Sandinista creò un nuovo Stato, una macchina istituzionale del tutto nuova, senza precedenti. Con il trionfo del 19 luglio 1979 non si trattava solo di forgiare e di garantire strumenti sociali che non esistevano in passato, quanto piuttosto costruire un insieme di princìpi che rendessero e mantenessero effettiva la partecipazione politica, nonostante le restrizioni causate dall’aggressione economico-militare dell’Impero. Negli anni Ottanta, la dirigenza sandinista faceva un costante riferimento alla giustizia sociale e, pur all’interno di un’economia mista pubblico-privata, allo sviluppo produttivo in beneficio della popolazione, alla proprietà collettiva della terra e dei mezzi di produzione, alla promozione del cooperativismo e alla centralità dello Stato come principale regolatore e attore nell’economia.

La stessa direzione collegiale dei nove comandanti, pur con l’esistenza di un presidente della Repubblica, poteva essere vista come un caudillo collettivo che assumeva le decisioni in modo collegiale. Per la cronaca, in un’intervista a El Nuevo Diario, il comandante Tomás Borge affermò che «Esistevano serie differenze tra noi, che a volte si trasformavano in quasi risse, che non furono mai rese note. Tuttavia v’era lo spirito, in genere predominante, di assumere decisioni collettive» (27 aprile 2008). Per cui, nonostante tutti i suoi limiti e difetti, lo slogan Dirección Nacional, ¡ordene! aveva un senso nell’ottica dell’unità per la difesa del processo rivoluzionario e del Paese contro l’aggressione dell’Impero.

Pertanto, il processo politico che si era sviluppato nel corso del decennio rivoluzionario, al contempo ricco e per certi versi paradossale – sia per la sua portata sia per i suoi limiti e carenze –, deve essere valutato in questo contesto di partecipazione e di collegialità.

«Il popolo […] non può essere effettivamente fonte del potere, se non lo esercita in qualche modo direttamente, e non solo per mezzo di istituzioni che lo rappresentino. Il potere popolare implica cioè nella misura del possibile (la quale non è certo facile da definire, ed è comunque progressiva) l’esercizio diretto del potere da parte delle masse popolari: implica, in altri termini, un certo grado di democrazia diretta. […] Si tratta quindi di inventare forme di articolazione tra le istituzioni di democrazia diretta e di democrazia indiretta, in modo tale che il popolo abbia sempre la possibilità o di esercitare direttamente il potere, o di controllare coloro che lo esercitano in suo nome. È appunto questa la linea di tendenza del progetto sandinista». Così scriveva Giulio Girardi alla metà degli anni Ottanta (Sandinismo marxismo cristianesimo. La confluenza).

Dopo l’inattesa sconfitta del 1990 iniziò una sorta di ritorno alla politica tradizionale, con la paradossale incorporazione del sandinismo stesso in questa logica. Paradossale poiché la discussione rimase confinata all’interno delle strutture di vertice del Frente, mutando leggermente il vecchio slogan e trasformandolo in Dirección Nacional, ¡discuta! Con il passaggio all’opposizione si sono avute riforme organizzative interne e mutamenti ideologici nell’élite per adattarsi alla nuova contingenza, in un ambiente caratterizzato dalla fine della guerra fredda, dalla crisi dei paradigmi della sinistra rivoluzionaria e di un ambiente elettorale competitivo. Paradossale, poiché uno dei motivi centrali della lotta politico-culturale del Frente Sandinista era la democratizzazione della politica, attraverso la partecipazione popolare diretta e lo sviluppo della vita politica, sociale ed economica del Paese.

Paradossale, poiché la sconfitta elettorale generò nel vertice del partito una crisi d’identità, soprattutto in relazione ai suoi princìpi e alla sua ideologia, poiché il popolo che riteneva di rappresentare gli aveva voltato le spalle nelle urne. In un contesto di crescente povertà, esclusione sociale, crisi ideologica e avvio di politiche neoliberiste, la soluzione, se così la vogliamo chiamare, fu l’attuazione di una duplice politica: da un lato, il sostegno a coloro che organizzavano scioperi e proteste anche a base di tranques, e, dall’altro, la formulazione di accordi con i vari governi neoliberisti.

Dal ritorno al governo, che coincide a tutti gli effetti con l’idea di una riconquista al potere e alla sovrapposizione tra i due concetti diametralmente opposti di dirigere e comandare, nella pratica il popolo è stato un puro e semplice osservatore: non ha avuto canali di espressione, partecipazione e soprattutto decisione, salvo il voto nei processi elettorali. Forse, però, noi pretendiamo troppo pensando che una nuova società non la si possa decretare dall’alto ma deve essere costruita dal basso, avendo il popolo come protagonista. E, sempre forse, siamo ancora troppo legati all’idea che «il proletariato non può, come hanno fatto le classi dominanti e le sue diverse frazioni rivali immediatamente dopo il loro trionfo, prendere semplicemente possesso del corpo statale esistente e far funzionare quest’apparato per i suoi propri fini» (Karl Marx, 1871).

Chiunque poteva rilevare un progressivo e sempre più notevole deterioramento del livello di coscienza politica nella società rispetto agli anni Ottanta, la mancanza di qualsiasi discussione, nessun confronto di idee sui grandi problemi nazionali. Era sempre più difficile vedere qualcuno leggere un libro o, addirittura, un giornale. Il che si rifletteva nella sostanziale apatia politica e nel mugugno sempre più diffuso, che prevalevano tra la cittadinanza nel suo insieme, a prescindere dalla collocazione ideologica.

All’interno dei partiti, non eccettuato il Frente Sandinista, non esisteva alcun dibattito teorico, né una minima analisi derivanti da una democrazia basata sui canoni delle oligarchie, né sulle sue strutture politico-istituzionali. Il FSLN, che sorse dalle viscere del popolo e combatté per il suo progresso, poco a poco ha finito per adottare i metodi e gli strumenti del caudillismo, ossia della politica tradizionale che la destra ha sempre utilizzato, abbandonando e rinnegando il proprio passato rivoluzionario. Il verticalismo, che aveva necessariamente caratterizzato la struttura politico-militare durante la clandestinità e la lotta armata, passò dalla logica spersonalizzata e collettiva della Direzione Nazionale al personalismo caudillista di Daniel e di Rosario. Costruendo nel corso degli anni quella che possiamo definire «egemonia danielista», incarnando a tutti gli effetti il ruolo di caudillo circondato dai propri fedelissimi più che quello di leader dell’avanguardia.

Se il FSLN, come tutti i movimenti guerriglieri, era un’organizzazione politico-militare altamente gerarchizzata, con una struttura di comando obbligatoriamente verticista, dalla derrota electoral del 1990 in poi riprese poco a poco queste caratteristiche. Esasperandole sempre più nel corso del tempo, ma in un contesto politico assai diverso rispetto a quello della clandestinità e concentrando tutto il potere decisionale in una sola persona. Il culmine di questo processo accentratore avvenne nel maggio del 2011, quando a Lenín Cerna Juárez fu tolto il ruolo statutario di Segretario organizzativo del Frente e passato nelle mani di Daniel, che era ed è il Segretario politico e il presidente della Repubblica. La notizia fu data pubblicamente da Rosario, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Per la destra picapiedra, questo tipo di “democrazia dall’alto” non è mai stato un grosso problema, poiché fa parte della sua essenza e del suo modo di pensare: nessun rapporto diretto con la gente, con le masse e con i loro bisogni, con i loro sentimenti e aspirazioni. Al contrario, non dovrebbe appartenere alla sinistra che teoricamente è incarnata nel FSLN e nelle sue origini popolari, quando era strettamente legato alle esigenze storiche delle masse e con proposte di trasformazione strutturale nei vari spazi della vita nazionale, con la ricerca della giustizia sociale, della libertà, della democrazia integrale e la fine dello sfruttamento.

«Certamente l’unico fa più in fretta a deliberare (a trovar la ragione, la verità) che non una collettività. Perché l’unico può essere scelto tra i più capaci, tra i meglio preparati a interpretare la ragione, mentre la collettività è composta di elementi diversi, preparati in diverso grado a comprendere la verità, a sviluppare la logica di un fine, a fissare i diversi momenti attraverso i quali bisogna passare per il conseguimento del fine stesso. Tutto ciò è vero, ma è anche vero che l’unico può diventare o essere visto come tiranno e la disciplina da esso imposta può disgregarsi, perché la collettività si rifiuta, o non riesce a comprendere l’utilità dell’azione, mentre la disciplina fissata dalla collettività stessa ai suoi componenti, anche se tarda ad essere applicata, difficilmente fallisce nella sua effettuazione» (Antonio Gramsci, 8 dicembre 1917).

A tutti gli effetti, però, la stessa ideologia del Frente si era già diluita negli anni del neoliberismo, pur conservando il nome (il logo) e talune frasi rivoluzionarie, per quanto spogliate del loro originario contenuto radicale e trasformativo. La conversione ha portato a un’organizzazione di carattere sempre più elitaria fino a diventare personalistica (o familistica). Non solo gli stessi Consejos de Poder Ciudadano, dei quali fanno parte solo i militanti del Frente, in realtà sono una struttura partitica che poco ha a che vedere con la partecipazione popolare degli anni Ottanta, ma con il decreto n. 3 dello stesso gennaio 2007 si creò il Consejo de Comunicación y Ciudadanía, al cui vertice si era autonominata Rosario Murillo (recentemente sostituita dal figlio Daniel Edmundo).

Continueremo a sbagliare, ma riteniamo che non sia sufficiente dichiararsi di sinistra per esserlo realmente. Soprattutto quando i mezzi utilizzati per costruire una nuova società sono in netta contraddizione con il fine. Pretendere di realizzare o anche solo di dirigere una “rivoluzione dall’alto” significa solamente affermare il proprio fallimento come rivoluzionari.

Nel documento ufficioso Esquema organizativo del Poder Ciudadano diffuso all’inizio di maggio del 2007, si specificava che i consigli di barrio e di comarca erano i meri esecutori delle decisioni assunte ai livelli superiori. Per evitare possibili fraintendimenti, si specificava che le decisioni erano assunte dal vertice, mentre i livelli locale e intermedio (municipale, regionale) potevano avanzate proposte e raccomandazioni che i ministri erano tenuti a recepire nelle loro scelte politiche. Basta riflettere un attimo per comprendere come le due cose siano antitetiche e inconciliabili.

A tutti gli effetti, nel Nicaragua del neoliberismo erano ormai del tutto scomparsi i confini ideologici tra i partiti politici, per cui la differenza tra la destra e la sinistra si riduceva al marketing: il miglior sorriso, la frase maggiormente accattivante, la capacità di mobilitazione e così via. Una sorta di gestione politica del marchio per lanciare il prodotto sul mercato della politica: mentre il sandinismo storico era abbandonato e l’orteguismo basava tutta la propria politica sotto la retorica bandiera antimperialista, il liberalismo-conservatorismo si riuniva sotto quella storica dell’anti-sandinismo. Una specie di brand management applicato alla politica, come la descrisse parecchi anni fa Naomi Klein in relazione ai prodotti commerciali (No logo, 2000).

Ciò che nel linguaggio commerciale si chiama «pubblicità», in quello politico è la «propaganda». Che sia un paio di scarpe o un partito politico, il mercato impone i medesimi meccanismi di convinzione.

La vittoria elettorale di Daniel nel 2006 doveva porre fine al periodo neoliberista, riprendendo la via della partecipazione popolare bruscamente interrotta, ma le enormi differenze interne e internazionali rispetto agli anni Ottanta hanno portato a scegliere in modo pragmatico (?) il mantenimento della politica economica dei sedici anni precedenti. Dietro il facile slogan El Pueblo Presidente, il popolo è il presidente, c’è il nulla: dovrebbe indicare l’incremento della partecipazione diretta dei cittadini alla gestione locale e comunitaria, ma si limita a convocare gli elettori alle urne, senza offrire veri e propri meccanismi che li coinvolgano fattivamente nelle principali decisioni.

L’idea più avanzata di democrazia è nel modello partecipativo che, in sostanza, non contempla soltanto l’elezione dei governanti e dei rappresentanti legislativi, bensì un insieme di meccanismi tramite i quali la società nel suo complesso influenza le decisioni pubbliche, oltre a garantire un controllo effettivo dal basso sulla gestione dello Stato in tutte le sue articolazioni. Questo modello non solo è del tutto inesistente nella «seconda tappa della rivoluzione», ma si elude accuratamente ogni possibilità di partecipazione diretta, al fine di evitare qualsiasi critica o proposta alternativa.

I governi della destra neoliberista smantellarono completamente le conquiste della Rivoluzione Popolare Sandinista, compresi gli strumenti più avanzati di partecipazione, ma il FSLN nelle mani di Daniel e di Rosario non contrastò questo processo negli anni del cosiddetto gobierno desde abajo, bensì ne divenne complice con l’obiettivo di tornare al potere. E dal 2007 in poi non ha ritenuto necessario ricostruire il diffuso tessuto partecipativo creato negli anni Ottanta. Se non sulla carta, con strumenti essenzialmente di partito, per definizione non inclusivi e utili solamente per bajar consignas. E per mantenere il potere a ogni costo, attraverso quella che è a tutti gli effetti una semplice rete di sorveglianza e di controllo. La quale, in tutta evidenza, non ha funzionato nel 2018.

Quando nel 2005 Hugo Chávez cominciò a parlare del socialismo del XXI secolo, affermò che uno dei pilastri doveva essere «la trasformazione economica» e l’altro era «la democrazia partecipativa». Aveva pure aggiunto che si doveva a ogni costo evitare di «cadere negli errori del passato», soprattutto in quella «deviazione stalinista» che aveva eliminato il protagonismo popolare e burocratizzato il partito. Nulla di tutto ciò è accaduto in Nicaragua, anzi, si è agito e si continua ad agire in senso esattamente opposto.

Per quanto la Costituzione del Nicaragua sancisca una sorta di minima combinazione con alcune strutture di democrazia partecipativa, non si è realizzato alcun concreto avvicinamento del popolo agli affari nazionali. Più di ciò che stabilisce la Costituzione come quadro giuridico, è nel sistema e nelle pratiche politiche il vero tappo che non riflette né gradisce un vero spirito democratico e inclusivo, ossia una vera partecipazione della società civile in tutte le sue organizzazioni. A tutti gli effetti, come in qualsiasi democrazia borghese, i cittadini sono solo e soltanto semplici spettatori che, ogni cinque anni, approvano o disapprovano con il loro voto le decisioni prese nei piani alti.

La Rivoluzione Popolare Sandinista continua a essere presente come simbolo, richiamata ogni volta che serve, come un passato pieno di gloria e di eroi, per giustificare il presente e il futuro ben stretto nelle mani del grande e invincibile condottiero. Un presente e un futuro che non appartengono più alle migliaia di persone che nel corso dei decenni si sono dimostrate capaci di generare il cambiamento, ma che ora sembrano solo soggetti passivi. Una situazione psicologica assai dolorosa per tutti i militanti e i simpatizzanti che hanno dedicato i loro anni migliori a un progetto di società che, oggi come oggi, è totalmente rinnegato nei fatti.

La distanza siderale tra la teoria di Chávez e la realtà di Ortega la si può misurare nella mancata “resa dei conti” con il passato del socialismo reale e nel confronto critico con le sue basi costitutive come la mancanza di spazi democratici di discussione e di confronto, l’incremento del totalitarismo, il produttivismo senza limiti, il dogmatismo e l’intolleranza nei confronti delle divergenze, il partito unico, il mantenimento della logica del capitale come rapporto essenziale tra la produzione e il lavoro, la mancanza di partecipazione e di protagonismo delle classi subalterne in materia di scelte politiche ed economiche, ecc.

Non occorre una profonda analisi socio-politica per rendersene conto. Passeggiando per il Nicaragua trovereste soltanto enormi cartelloni o manifestini appiccicati in ogni luogo con la scritta «El Pueblo Presidente», ma senza eccezione alcuna compare la foto di Daniel o, tutt’al più, di Daniel e Rosario. In nessuno vedrete una foto del pueblo, totalmente inesistente nell’iconografia pubblica. Si tratta solo di vendere un prodotto sul mercato della politica (del potere), con il martellamento subliminale della sovrapposizione equivalente tra Daniel e il pueblo: l’uno e l’altro sono la stessa cosa. Allo stesso livello di vecchi slogan pubblicitari evocanti un desiderio che nulla ha a che fare con il prodotto e che i diversamente giovani ricorderanno: Liebig ti ama, Chi Vespa mangia le mele (chi non Vespa no)…

Anche tutto ciò aveva contribuito a innescare la protesta del 2018.

In questa realtà fattuale, non meraviglia che si parli delle successive sanzioni ad personam come fossero un attacco al Paese e colpiscano direttamente il popolo. Neppure può stupire che Laureano Ortega, stando a quanto afferma The New York Times del 5 maggio, abbia cercato un dialogo con il potente vicino, al fine di alleggerirle.

Da vetero-sessantottini appartenenti a quella che anagraficamente fu definita «generazione del Vietnam», siamo ancora realisti e continuiamo a chiedere l’impossibile. Perciò, riteniamo che a sostenere l’effettività del Pueblo Presidente dovrebbe essere la concezione di una democrazia sempre più inclusiva, nella quale la piena partecipazione della società civile nella sua complessità abbia concretamente voce in capitolo sia a livello sociale sia politico-economico. Ossia, ciò che è stato a suo tempo enunciato come «socialismo del XXI secolo». Solo così si potrebbe parlare dell’esistenza di una vera via verso la democrazia socialista con la piena uguaglianza politica, economica e sociale di tutti i membri della nazione. Solo così avrebbe senso parlare di un effettivo Pueblo Presidente.

In caso contrario, si fa solo della propaganda fine a se stessa. Quella stessa che il giovane socialista sardo Antonio Gramsci criticava aspramente, recensendo l’opuscolo del libertario Luigi Molinari Il dramma della Comune: «Il Molinari fa una ricostruzione retorica degli avvenimenti, infarcita di parole, piena di un entusiasmo fittizio, che non può lasciare alcuna utile traccia. Il Molinari manca di ogni senso storico: scrive della Comune come i libri scolastici delle cinque giornate di Milano: muta il termine dell’entusiasmo, non ne muta la qualità e la forma; è del peggior borghesismo, che manipola un fatto proletario invece che un episodio del Risorgimento. […] Non si risponde alla critica borghese con l’entusiasmo e le parole grosse: ciò può essere comodo, permette di non pensare, di non affaticarsi, ma non è davvero encomiabile. Dove va a nascondersi il realismo dei sovversivi? Dove vanno a nascondersi i rimproveri che i sovversivi non risparmiano ai borghesi per l’opera loro di imbottimento di crani, per l’educazione falsa che impartiscono, sfigurando gli avvenimenti, esagerando il bene, cercando di nascondere il male?

«Di bene e di male è intessuta la vita, tutta la vita, anche quella proletaria. Nella Comune si sono commessi errori, ci sono state manchevolezze: a che pro nasconderli? A che pro sciogliere inni ditirambici, invece di esaminare criticamente gli avvenimenti, per mettere in rilievo i valori, per far notare come gli errori, le manchevolezze sono inerenti a qualsiasi azione umana, e non possono, non devono soffocare i valori effettivi? […] Un proletario che si senta obbiettare l’incapacità amministrativa, l’empirismo infantile di un capo comunardo, non saprà rispondere con altro che con un fragoroso evviva, oppure si sentirà profondamente umiliato di dover confessare che a ciò non aveva mai pensato, come non aveva mai pensato a controllare i suoi fornitori di merce intellettuale, e domandar loro nutrimento sano e vigoroso invece di entusiasmi fittizi e di infarcimenti di parole» (16 marzo 1918).

Redazione
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