Ce la caveremo papà?

Subito c’è «un glaucoma che offusca il mondo». Poi «un buio freddo e autistico». E ancora: «quella luce avara che chiamavano giorno», «acqua senza vita», «amare ceneri del mondo» e soprattutto «nessuna vita a cui pensare».

Ho letto, con gran ritardo, «La strada» (Einaudi: 220 pagine per 12 euri; traduzione di Martina Testa) di Cormac McCarthy e mi è venuta voglia di ragionarne in blog. Non ho visto il recente film (di John Hillcoat) che ne è stato tratto e dunque non ne parlerò.

L’uomo e il bambino senza nome sono «l’uno il mondo intero dell’altro». L’adulto chiede troppo a se stesso eppure non basta mai: di continuo ripete al piccolo «mi dispiace» e «scusa» come se davvero lui avesse qualche colpa di fronte alle catastrofi. Spesso fra loro mancano le parole ma una frase che ritorna secca, ossessiva è «non so». Di solito il padre sprona il figlio con le parole «dobbiamo andare»: le stesse di un altro celebre romanzo che ha quasi lo stesso titolo («Sulla strada» di Jack Kerouac) ma lì è tutto un agitarsi vitale pur se la meta e gli scopi restano vaghi mentre qui c’è un lentissimo, doloroso, impaurito muoversi cercando cibo e un po’ di calore, sfuggendo ai «cattivi» e sognando «i buoni». Aspettandosi ben poco da qualche dio perché «dove gli uomini non riescono a vivere gli dèi non se la cavano certo meglio».

Ogni tanto un breve sorriso: per il piccolo una corsa o un camion giallo con il quale giocare; per l’adulto trovare per caso un sestante e rimanere impressionato dalla sua bellezza.

Un padre certamente eroico, qualunque senso si voglia dare a questo abusato e ambiguo aggettivo: convinto che deve salvare suo figlio e con lui forse il mondo intero. Eppure quel ragazzino che è nato dopo la catastrofe, che non ha mai giocato con altri bambini, può credere al mondo di prima? C’è una frase (anzi un pensiero) chiave verso metà del libro: l’uomo senza nome guarda suo figlio e «forse per la prima volta capì che ai suoi occhi lui era un alieno». E poco più avanti: «non poteva riaccendere nel cuore del bambino ciò che ormai era cenere nel suo».

Di certo le storie che ogni tanto racconta il padre non possono essere credute e il figlio glielo dice con durezza: «nelle (tue) storie aiutiamo sempre qualcuno mentre in realtà non aiutiamo nessuno», anzi.

La catastrofe costringe a tirar fuori il meglio o il peggio che è dentro ognuno di noi?

Non dirò come si conclude il romanzo ma solo che resiste un esile, quasi improbabile speranza per il domani.

A parte la straordinaria scrittura, in «La strada» mi ha colpito molto che non si dica nulla della catastrofe. Che chi legge sia subito piombato in una realtà dove non ha più importanza il perché o il come sia accaduto. Nessun futuro, nessuna speranza, neanche i nomi dei protagonisti. L’uomo ha pochi ricordi, sempre più confusi.

La fantascienza ha raccontato sin troppe volte l’apocalisse (in forma di invasione aliena oppure nelle versioni guerra atomica o collasso ecologico) e qualche volta ha saputo farlo con efficacia, rabbia, intelligenza, verosimiglianza. Chissà quanto e cosa McCormack conosce di questa fantascienza più o meno “classica” la quale comunque ha lasciato semi nell’immaginario personale e collettivo. In ogni caso «La strada» è un libro che non ha paragoni e che a sua volta lascerà un segno.

Se avverrà – e per qualsiasi ragione accadrà – il collasso ci troverà del tutto impreparati, tanto più se la “vita” scomparirà non solo nell’artificiosa forma di cibo fresco nei negozi ma all’origine, cioè nei boschi, nei fiumi e nei cieli. I pochi o molti sopravvissuti non saprebbero da dove ripartire. Anche per aver saputo raccontare questo «La strada» è un gran libro. Voglio sperare che chi lo ha letto e leggerà lo consideri anche il realistico frammento di un possibile futuro da evitare. In piccola parte il domani dipende anche dalle scelte politiche che ognuno di noi fa. O almeno questa è la mia convinzione.

 

COME SCELGO I LIBRI? (UNA NOTA NON BREVISSIMA)

Mi capita girando (o in posta) di sentirmi chiedere il perché di certe mie scelte – o lentezze – nelle recensioni. Non parlo solo di fantascienza ovviamente. E non mi riferisco solo al blog ma anche a qualche testata («Come solidarietà» a esempio o «L’unione sarda») dove collaboro.

Forse è utile chiarire. C’è il mio «gusto» naturalmente e quel potentissimo fattore chiamato «caso» e un altro, assai insidioso, noto come «tempo». Aggiungete, è ovvio, quel che so e il molto che ignoro. Ci sono poi, almeno per me, da qualche anno i pochi soldi in tasca. Se certi libri non li hanno in biblioteca o non me li manda l’editore… beh per quel che mi riguarda difficilmente verranno letti; posso addolorarmene però non c’è soluzione. Ma

allora mi condizionano gli editori «gentili» che mi fanno tanti omaggi? Sì e no. Ho un accordo (ora esplicito, ora più tacito) con alcuni uffici-stampa di case editrici: se i libri che chiedo o che loro mi mandano io all’ultima pagina decido che poco mi garbano… per nessuna ragione – salvo un’aggressione a mano armata, è ovvio – li recensisco. Non lodo un libro che, secondo me, è brutto e/o inutile; anche se fosse di un Nobel della letteratura, della pace, della chimica e di cavolivari che è poi il cugino della cognata del compare di uno che lavorava con mio fratello.

Cerco però di rispettare la fatica delle piccole case editrici che, in un mercato truccato, vengono strangolate anzitutto dalla distribuzione e poi dalla lobby delle recensioni (spero che ci intendiamo; se no ditemelo e mi spiegherò meglio). Dunque non mi pare corretto chiedere alle case editrici molti libri con il rischio che poi… vengano bocciati dal “criticone” Barbieri; se me li mandano lo stesso, grazie ma vedi sopra: non sarà quello a condizionarmi. Anche io “rischio” qualcosa leggendoli: di aver perso il mio tempo.

Forse chi passa spesso da questo blog ora vorrebbe chiedermi (mi è successo da poco) dei miei rapporti con Urania. Visto che ne parlo spesso, che Urania ha soldi (gruppo Mondadori), che in fondo almeno per la fantascienza mi posso considerare quasi “autorevole” e competente… «è ovvio che le mandano i libri per tempo, che la aggiornano» ha detto una gentile signora che ama il mio blog e dunque – un giorno che starnazzavo a Bologna – era venuta a conoscermi dal “vivo”. No, signora. Mai ricevuto le novità di Urania e infatti, mio malgrado, quando i prezzi sono insolitamente alti o io sono più povero del solito, rinuncio a prenderli. La gentile signora si stupì e mi chiese una spiegazione. Risposi che, come si dice a Roma, «più son ricchi e più son pezzenti». Ovviamente questa frase non riguarda chi lavora in Mondadori (o altrove) ma “i piani alti” dove fra l’altro considerano i libri una merce qualunque. Fine – per ora? – della spiegazione sui criteri. (db)

 

Redazione
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4 commenti

  • mario sumiraschi

    Devo ammettere che Daniele attrae sempre con le sue motivazioni… Quando mi chiedono: – quali criteri hai per scegliere un libro ? – rispondo: – beh, mi fido del Barbieri ovviamente -. Prova ne sia che già per “WW1: Risveglio” di Robert Sawyer ho scoperto un superlibro ricco di affascinanti ipotesi e con numerose porticine che devono essere avvistate, scoperte e aperte per la gioia dell’intelletto. E sempre ovviamente mi affretterò a procurarmi il libro di Cormac McCarthy che già mi evoca struggenti emozioni.
    Ho la sensazione di aver visto una foto con DB che sta benedicendo la folla osannante in cerca di un miracolo, ma forse mi sono sbagliato.

    • grazie Mario,
      sulla foto sei stato ingannato forse dalla prospettiva o dalla fretta-frettona: c’è un miracolo che prova a benedire una folla di “piccoli db” ma se guardi bene molti di loro hanno in mano sassi. In effetti il miracolo ha la stessa espressione ebete che carattetizza P2-1816… In alto a sinistra invece (sì, proprio lì) sorride un volto che potrebbe essere Massimo Troisi. Un miracolino versione … san Pietrino? chissà (db)

  • in effetti anche a me ha colpito la scelta di non spiegare la catastrofe, ma di raccontare solo questa odissea. c’è sempre qualcosa di non detto nei romanzi di mc carthy: anche in “non è un paese per vecchi” ho avuto la sensazione che mancasse qualcosa, su cui l’autore lasciava “scegliere” il lettore. un po’ strano, penso…
    a ogni modo, per quanto il libro sia scritto bene, e abbia alcuni spunti davvero belli (il ferain del papà e del bimbo “noi portiamo il fuoco”, evocativo da morire), non mi ha creato empatia. come del resto “non è un paese per vecchi”. evidentemente la mia sensibilità e quella dell’autore texano (ricordo bene?) sono lontane….

    • grazie Alberto,
      conosco pochissimo McCarthy. “Non è un Paese per vecchi” (film) mi aveva entusiasmato – come quasi tutte le opere dei fratelli Cohen – e avrei voluto leggere il libro per confrontarlo … Poi per colpa delle 2s (soldi scarsi) ho soprasseduto (db)

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