Cent’anni fa la banda Bonnot

Avvolto in un materasso a mo’ di scudo, l’anarchico Jules Bonnot tenta l’ultima difesa. Contro di lui piovono proiettili e bombe: fuori sono in 500, fra poliziotti e soldati, in mezzo a loro un uomo manovra un oggetto quasi sconosciuto, una cinepresa rudimentale. Siamo a Choisy-le-roi, nei sobborghi di Parigi. In poco tempo arrivano migliaia di curiosi.

L’assedio è lungo. L’uomo braccato scrive una sorta di testamento dove si assume le sue responsabilità e scagiona gli innocenti, ben sapendo che nella rete poliziesca sono cadute persone che nulla hanno a vedere con la Banda.

Dentro la casa risuona un colpo. Molti pensano che Bonnot si sia sparato; è così ma il colpo al petto lo ha solo ferito. Quando poliziotti e soldati irrompono, “il nemico pubblico numero uno” è ancora vivo. Impugna la pistola. Viene falciato. E’ il 28 aprile 1912. Epilogo prevedibile di una storia sanguinosa. Nel segno del crimine, della politica e della modernità con l’automobile, vera protagonista delle rapine, e con quelle riprese, le prime di un assedio poliziesco.

Jules nasce nel 1876 in una famiglia poverissima. Sin da ragazzo si lega alle idee anarchiche. E’ operaio, anche in fonderia, meccanico e autista. Nel 1910 va in Gran Bretagna e guida l’auto per Arthur Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes, che però lo licenzia quasi subito. Tornato in Francia, Bonnot frequenta il gruppo degli «illegalisti» e il giornale «L’anarchie» diretto dal belga-russo Victor Serge. Qui trova persone come lui, disposte a passare all’azione: assaltare banche e uffici postali con una nuova tecnica cioè a bordo di auto veloci.

Si inizia il 21 dicembre 1911 con l’attacco ai portavalori di una banca e il primo morto. Il 28 febbraio 1912 la banda colpisce un notaio. Il 25 marzo nuova rapina con due morti. In mezzo altre sparatorie sanguinose per rubare le auto che servono ai colpi. E’ il panico. Monta una campagna contro gli anarchici. La paranoia dilaga: persino Marcel Proust, in campagna per vedere i meli in fiore, viene scambiato per un anarchico.

A fine marzo dopo una rapina fallita a Chantilly, il cerchio si stringe. Bonnot viene braccato dalla polizia; riesce a sfuggire una prima volta ma è ferito. Pochi giorni dopo l’epilogo. Nel diario-testamento scritto durante l’assedio si legge: «Era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita, senza esser capace neppure di sognarla. Non me lo avete concesso. E allora, peggio per me, per voi, per tutti». E ancora: «In ogni caso nessun rimorso». Questa frase era tatuata sul braccio di Giuseppe Sorrentino, complice di Jules Bonnot, ed è anche il titolo scelto, nel ’94, da Pino Cacucci per il romanzo nel quale ricostruisce minuziosamente la vicenda.

Altri due della banda (Octave Garnier e René Valet) muoiono il 15 maggio 1912: per snidarli polizia ed esercito usano anche la dinamite. Una ventina di persone viene arrestata. Il processo inizia il 3 febbraio 1913. Alcuni “illegalisti” irridono la giuria: «Luigi XIV l’ho strangolato io» è l’unica frase con cui Raymond Callemin risponde ai giudici. Nella sua celebre auto-difesa, prima che i giudici gli tolgano la parola, Victor Serge (condannato a 5 anni) dice: «la società fabbrica il crimine e i criminali, le idee disperate, i suicidi e il denaro-veleno». Ed è questa anche la tesi di Cacucci: Bonnot e gli altri erano predestinati alla miseria o alla violenza. In ogni caso nessun riscatto.

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