Centri d’accoglienza o cosa?

Una piccola genealogia dell’accoglienza dei richiedenti asilo al tempo della crisi permanente

di Tommaso Sbriccoli (*)

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Nel settembre del 2008, a seguito dell’«eccezionale afflusso di cittadini stranieri extracomunitari giunti irregolarmente in Italia», l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi firmò un’ordinanza (numero 220) che istituiva di fatto la possibilità di ospitare i richiedenti asilo in strutture private usualmente adibite ad altri utilizzi (ad esempio alberghi, cascine e campeggi). Il Governo poteva quindi, tramite le prefetture e scavalcando il sistema di gare pubbliche, selezionare direttamente soggetti terzi presenti sul territorio, spesso privi di ogni esperienza nel campo, per organizzare l’accoglienza di quegli stranieri che, arrivati in Italia dalla Libia, avessero deciso di richiedere la protezione internazionale. Tale sistema ha prodotto in poco tempo la nascita di 42 centri governativi, secondo la stima di Ludovica Jona in un suo articolo sull’Unità intitolato “Business Emergenza” e pubblicato il 29 gennaio 2009.

È in questo sistema, nato dall’emergenza e dall’improvvisazione, che si può rintracciare l’origine dell’attuale sistema dei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), che dell’emergenza e dell’improvvisazione continua a mostrare i caratteri.

Parallelo ad altre forme istituzionali di accoglienza, quali lo SPRAR e i CARA, il sistema in esame ha ormai compiuto otto anni, mostrando quanto l’idea di emergenza che ne sta alla base vada intesa più come una costruzione costante della crisi che come una reale difficoltà contingente dovuta a fattori fuori dal controllo governativo. 

Proprio in uno di questi 42 centri di emergenza, quello creato all’interno del Camping “Il Veliero” di Follonica, in provincia di Grosseto, è iniziata la mia personale esperienza con i richiedenti asilo in Italia nel 2008. 

L’occasione è stata offerta da accordi presi tra l’allora Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Siena e i soggetti coinvolti per l’accoglienza a Follonica, che hanno permesso di iniziare un percorso di ricerca di studenti e dottorandi del dipartimento all’interno della struttura. In poco tempo, la ricerca si è tramutata per molti dei partecipanti, per me in primo luogo, in qualcosa di differente. L’assoluta mancanza di un servizio di supporto ai richiedenti all’interno del camp(o)eggio per quanto riguardava il loro percorso legale di richiesta di asilo ha fatto sì che alcuni di noi, soprattutto coloro che avevano una conoscenza delle lingue dei richiedenti, iniziassero un’attività di mediazione culturale e linguistica e di sostegno nella preparazione dei dossier per l’intervista in Commissione Territoriale. 

Questa prima esperienza ha fatto sì che mi rendessi conto in prima persona di una serie di fatti che, a distanza di anni e lavorando ancora all’interno di molti CAS, rimangono fondamentali per la comprensione del funzionamento di questo tipo di strutture.

Per quanto esistano esperienze virtuose nella gestione di tali centri, infatti, il sistema si appoggia su una serie di assunti che minano alla base la possibilità di produrre esperienze realmente efficaci e rispettose delle sue supposte finalità.

Umanitarismo, interessi economici e securitarismo si mescolano, sebbene in dosi differenti, in ognuno dei numerosissimi progetti di accoglienza sparsi sul territorio nazionale (secondo i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno sono 3.090 i CAS attualmente attivi, sebbene non esista un elenco pubblico di tali strutture). Un recente report condotto da Libera, Cittadinanzattiva e LasciateCIEentrare denuncia in effetti la mancanza di trasparenza su gestione e finanziamento dei CAS e “sul rispetto degli standard di erogazione dei servizi previsti da convenzioni e capitolati d’appalto”.

L’esternalizzazione dell’accoglienza al di fuori di ogni rete strutturata di controllo e supervisione istituzionale fa sì che gli standard dei servizi offerti dai differenti CAS siano del tutto diseguali, con situazioni estremamente drammatiche accanto a tentativi di tradurre la libertà e mancanza di controllo nella gestione dei centri in esperienze positive di elaborazione di nuovi modelli di accoglienza dal basso.

L’aspetto di guadagno economico, prioritario per molti di coloro che si buttano in questo nuovo “business”, spinge a utilizzare il discorso umanitario come specchietto per le allodole, come discorso vuoto sotto il quale si nasconde un mero interesse commerciale. Inoltre, per aumentare i profitti, sono spesso i servizi più necessari che vengono tagliati (non solo l’assistenza legale, medica e psicologica e l’insegnamento dell’italiano, talvolta anche la qualità e quantità di cibo ed acqua!) e si concentra la propria azione principalmente sulle pratiche di controllo dei richiedenti, in termini quasi polizieschi.

All’interno di una cornice dell’emergenza permanente, del resto, diviene estremamente difficile, anche per quei gruppi e associazioni che si sforzano quotidianamente di costruire un differente modello di accoglienza, stabilizzare e rendere strutturali pratiche e schemi di intervento positivi. Ciò che sembra essersi stabilizzato negli ultimi otto anni, infatti, è proprio la precarietà strutturale di un sistema che vive della propria incertezza, perché grazie ad essa può allo stesso tempo coltivare relazioni affaristiche private e la continuamente cangiante posizione della politica rispetto alle questioni riguardanti gli emigrati. In parallelo al sistema dell’accoglienza dei “profughi”, infatti, la legislazione sugli stranieri in Italia continua a stringere le sue maglie, rendendo sempre più difficile e laborioso, se non talvolta impossibile, il percorso di regolarizzazione degli immigrati.

Questo dispositivo di produzione dell’illegalità è un ulteriore ostacolo all’elaborazione di percorsi virtuosi di accoglienza, rendendo spesso vano ogni tentativo di collegare i molteplici piani delle traiettorie esistenziali dei richiedenti, dal permesso di soggiorno al lavoro, dalla salute alla formazione, dal problema abitativo a quello della mobilità.

Tale sistema, infine, produce anche precarietà, incertezza e ingiustizia nei confronti di molti di coloro che vi lavorano (ormai l’operatore per richiedenti asilo, o il mediatore linguistico e culturale, sono divenute posizioni lavorative assai diffuse), che spesso si confrontano con situazioni complesse e turni estenuanti senza le garanzie, il riconoscimento e il supporto necessari.

Per questo, la critica dell’attuale sistema di accoglienza dei richiedenti asilo non può prescindere da un’analisi storica dei processi di produzione e gestione dell’alterità e dell’ingiustizia e da un discorso e da una azione che riguardino, nel loro complesso, le modalità in cui lo Stato governa molteplici ambiti della vita. Laddove le politiche attuali suggeriscono divisioni e ripartizioni, infatti, dovremmo invece vedere un piano comune, che lega non solo aspetti differenti della stessa questione, ma anche supposte differenti questioni tra di loro.

(*) Tommaso Sbriccoli è dell’Associazione Verso–Laboratorio Interculturale. Questo suo articolo è tratto dal «Granello di Sabbia» numero 24 di marzo-aprile 2016 «Il Grande Esodo» su http://www.italia.attac.org

 

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