C’era due volte

un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo… dalle parti dei pastori

Na vota ‘ndavia nu vecchiu / chi cusia nu saccu vecchiu / ogni puntu chi minava / centu pidita rumbava

(una volta c’era un vecchio / che cuciva un sacco vecchio / ogni punto che gli dava / cento pidita rumbava)

Da un’antica barzecula grotterese

Si racconta che un tempo non lontano, all’incirca un secolo e mezza fa, un fattore, Dio lo stramaledica, arricchitosi con i soliti mezzi, avendo trovato moglie e moglie di buon cuore, si fosse ritirato in una sua gran casa costruita al confine con le terre che aveva acquistato.

Ben deciso a utilizzare piacevolmente gli ultimi anni della sua vita, che la gentilezza della consorte rendeva comunque gradevole, in tutti gli atti si conformava a quelli dei gran signori conosciuti in gioventù; e dei quali, oltre al ricordo delle grandezze, non trascurava conservare quelli dei mal tratti con i quali sgratificavano i contadini, sgratificando lui per primo; memorie che ispiravano il modo e le maniere con i quali a sua volta si regolava con i sottoposti. Zappatori, mietitori, vaccari e pecurareji (pecorai). Soddisfazioni comunque se ne prendeva tante, tra le quali anche quella di recarsi una volta al mese a Napoli, dove sapeva esserci la possibilità del lusso; e più di tutto quella di conoscere donne di mezza età che si dicevano fanciulle e non esitavano a mostrarsi generose nei confronti di chi ostentava propensione a mettere facilmente mano al portafogli.

E la moglie, direte voi? La moglie o non sapeva, o fingeva di non sapere. Eravamo in tempi in cui molto era concesso agli uomini e tutto veniva chiesto alle donne.

Ugualmente non riusciva a vivere nello stato di beatitudine nel quale sapeva, o credeva di sapere, essere gran parte di coloro che vantavano il possesso di una quantità di danaro uguale alla sua. Cioè felice nel suo stato, pronto allo scherzo e alla risata, sbadigliando quando occorreva, mostrandosi magnanimo se le circostanze lo richiedevano. Al contrario, si lasciava facilmente invadere dal cattivo umore. Forse frutto di un pessimo carattere e di una personalità il cui peggio non era facilmente reperibile nel mondo.

Di questi suo cattivo umore molto si doleva la moglie, povera! Donna dolce e di buon cuore se mai in Grotteria ve ne fu una. E non sapeva proprio come fare a rasserenarlo, come prenderlo. Non c’erano buone pietanze che tenessero; non arrendevolezze notturne in grado d’entusiasmarlo. Non sorrisi, non carezze, non buone parole. Nè regali, festicciole e visite di parenti e amici. I quali, anzi, accorgendosi di non essere poi tanto graditi, diradarono le visite, fino al punto di farsi vedere solo nelle feste comandate. E a volte neppure in quelle; mille scuse venivano addotte per non incontrarlo. Salvo la vecchia suocera, buona e brava in grado insolito anche per le migliori, che s’ostinava d’andare a confortare quella sua povera figlia, tanto ben maritata, quanto mal combinata.

Picchì non ti menti a fari cojjhi cosa (perché non ti metti a fare qualcosa)” suggeriva in continuazione al genero. “Tu sempri lavurasti, standu intra a casa t’arrovini da sulu!”

Ma il genero da quell’orecchio non ci sentiva. Sudato in gioventù aveva sudato, e tanto; non gli sembrava che nella mezza età fosse il caso d’incanaglirsi di nuovo nel lavoro. Ora era tempo d’asciugarsi, non di sudare ancora. S’arraggiava quando la suocera gli faceva quelle prediche. Gli risultavano aspre, mordevano la coscienza, davvero insopportabili! Scendeva allora a prendere la mula e si recava in visita alle catapecchie dei suoi lavoranti, qualche chilometro distante. Qualcuno da insolentire e se del caso prendere a calci, se non nerbate, era sicuro di trovarlo.

Capirete dunque in quale considerazione lo tenessero i lavoranti, uno o due dei quali, i più vecchi, avevano ancora memoria di quando, fianco a fianco, chini sulla dura terra, sudavano in quel loro interminabile voltare e rivoltare le zolle.

Un giorno d’agosto, credo si trattasse del canonico 16, giorno nel quale era considerato quasi d’obbligo piovesse e il bel tempo e il caldo venissero spezzati e spazzati via rapidamente dall’improvviso di un temporale; in uno di quei giorni in cui l’autunno certifica di non essere poi tanto lontano; in uno di quei giorni dunque accadde che verso mezzogiorno iniziassero a venir giù alcune rade gocce d’acqua, gocce oblique e pesanti; gocce che i vecchi del paese non mancarono di identificare per quel che erano. L’aprirsi delle cataratte del cielo.

Ed infatti, pochi secondi di indugio, e prese a mandarla giù come se quello fosse l’ultima occasione per scaricarsi dal peso delle nuvole. Poi possibilità non ce ne sarebbero state più (e infatti, fino settembre inoltrato, alcuni anni anche fino a novembre, di piovere se ne perdeva persino il concetto).

Tempo un minuto o due e le poche iniziali divennero cento, mille, e poi diecimila, con una intensificazione che fece presto a mature la minaccia in realtà di temporale. Con la terra surriscaldata che fumava (almeno all’inizio); e la polvere che veniva sollevata, mescolandosi al vapore, quasi oscurando l’aria (almeno all’inizio); e il piangere, e lo stridor di denti. L’universo, troppo combattuto, pareva pronto ad arrendersi a quella specie di nuovo diluvio.

Povari, povari pecurareji!” cominciò allora a piagnucolare pietosa la moglie del fattore (dio lo stramaledica!), figlia essa stessa di un pecoraio: prima ancora di affacciarsi al balcone e constatare. Allacciò le dita avanti il petto e, sporgendosi appena, cercò il destino degli uomini attraverso il velo della pioggia; scorgendo subito nella lontananza, figure intabarrate di alcuni che, messe al sicuro per tempo le pecore (lo fiutavano il temporale, quei tipi; lo sentivano nelle ossa), correvano ora verso la casa padronale, confidando in un qualche soccorso.

Che descrivo a fare la loro situazione? Confido a mia volta sappiate. E se pure non sapete, sappiate immaginare. Il battere della pioggia! l’intervento dei tuoni! lo stormire degli alberi impazziti! il muggito spaventato del bestiame… Bisognerebbe averlo visto imperversare quell’acquazzone per comprendere. Dico che pioggia simile a quella che mi è stata descritta, e per come mi è stata descritta: come si trattasse del secondo diluvio universale, vidi una sola volta, da fanciullo, in quel di Grotteria; e cinquanta anni più tardi nello Yucatan, in Messico, in alcune terrificanti decine di volte nelle quali osservai esterrefatto quel che potesse essere. Scrosci e minacce d’estate, acqua calda, il pendio non abbastanza per farla rifluire, camminando costantemente su vie che iniziavano a somigliare a fiumi, i piedi immersi in diverse dita d’acqua: il tempo di scendere dalla macchina per entrare in casa e si era già tutti bagnati, fino alle ossa.

Non bastò al maltempo tutta quell’opera di intimidazione. Con la medesima rapidità con la quale aveva fatto irruzione, mutò in grandine, chicchi grossi come nespole, cadendo sul duro delle scale esterne e sui tetti, esplodeva spargendo intorno a sé nuvole di ghiaccio. Corse allora in camera da letto, dove il marito sdraiato fingeva di leggere il giornale e gli disse con urgenza, preda di un palese stato di agitazione:

Maritu meu, maritu meu! U malutempu i cojjhi! (marito mio, sono stati colti dal mal tempo)”

Chittigridi ?” chiese il marito richiudendo il giornale. “Chi ti pijjià!?” (Che gridi? Che ti ha preso?)

I pecurareji! Stannu arrivandu.”

Ah, i pecurareji… stannu arrivandu… e bonu, bonu. Lasciali arrivare.”

S’ingurnaru tuttu povari figghi (sono tutti bagnati, poveri figli). Va l’aprinci, va… (vai ad aprirgli, vai)”

Per tutta risposta il marito si girò sul fianco, mostrandogli la schiena. La moglie, ancora non comprendendo, insistette:

Non senti come chiovi? Va l’aprinci, pi l’amuri du Signuri, ca si stannu abbandunandu d’acqua…” (vagli ad aprire, per l’amor di Dio, che si stanno abbandonando d’acqua.)

Il marito niente, come se nemmeno avesse parlato.

Mi sentisti? U malutempu si staci levando… (il maltempo li sta portando via). Va l’aprinci, pi l’amuri du signuri!”

No!” rispose con enfasi allora il signor marito. “Non ci l’apru!”

Non ci l’apri?”

Nonzignori. Non ci l’apru!”

Ma comu? Non ci l’apri? Sti povari pecurareji! Non senti come chiovi?”

Sentu, certu ca sentu!”

E non ci l’apri?”

Non mi passa neanche per l’anticamera del cervello,” chiarì il fattore (Dio lo stramaledica), recuperando un italiano che pur sapeva adoperare, ma che se ne infischiava normalmente di parlare. In quella specifica contingenza era palese il vantaggio di farlo, la solenne evidenza del caso resa dalla parola, enormità d’occasione, non intendeva sprecarla.

Coincidenza magistrale, da fuori iniziarono a bussare. Voci preda del panico. Che chiedevano, invocavano. La grandine intensificava, alcuni chicchi grandi come arance, la vita in pericolo… Faceva freddo ed erano tutti già bagnati fino alle ossa.

L’apriri, l’apriti!” si udiva invocare. “L’apriti, pi l’amori du Signuri!”

E ancora: “Facitindi a carità, ca stamu morendu!” (fateci la carità, siamo in pericolo di morte)

Li senti? Li senti i povari cristiani. Damunci riparu, ca sinnò s’ammalanu” (diamogli riparo, altrimenti si ammalano)

Pi mia possono schiattari.”

Non diciri accussì, picchì l’interessi è puru tò. Chi ti guarda i pecuri, se s’ammalanu?” (non dire così, è per il tuo interesse)

M’indifuttu i nenti, m’indifuttu!”

Ma pecchì, pecchì, chi ti ficiaru sti povari pecurareji?”

La voce della moglie fattasi angosciata. Il mordere della coscienza, paura delle critiche del prossimo, l’irragionevolezza del marito, il discredito… lui niente, duro, irragionevole.

Nascisti pacciu, secundu a mia. Pazzu nescisti!” (sei diventato pazzo, secondo me. Pazzo.”

Essì. Ora puru pacciu, sugnu!” (Essì, adesso sono pure pazzo!)

Si po sapire allura se non sei pazzo perché non ci vo l’apriri?”

Al che il marito ebbe uno scatto, si mise a sedere e poi in piedi. Scostò una tenda e guardò anche lui fuori. I pecorai che s’agitavano, alcuni che si guardavano intorno alla ricerca di ripari inesistenti, i più che disperavano.

Vo sapiri pecchi? E te lo dico. Certo che te lo dico! Picchì, quandu è tempo che fanno a ricotta, e mettono i calderoni pieni di latte sul fuoco, io li sento sai? Mi avvicino di soppiatto alle loro basse casette e sento, sento tutto…”

Benedittu u signuri. E chi po’ sentiri?”

Sentu, sentu. Sento mentre girano il latte dentro i calderoni, e mangiano formaggi e ricotta e bevono vino, mangianu, ‘mbivunu e jettanu pidita (e scureggiano). Puuuuuh! Fannu e gridano: a facci du patruni (alla faccia del padrone!). Ecco picchi non ci l’apru.”

Io gli do ragione. Anche se, fossi stato al posto dei pastori, avrei fatto e detto lo stesso. E voi?

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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