Ceragioli, Gori, Pandiani, Recami e il trio Besola-Ferrari-Gallone

recensioni giallo-noir di Valerio Calzolaio (*)

Elide Ceragioli

«Mele marce per la squadra»

Sensoinverso

Palermo e Torino (soprattutto). Qualche anno fa. Sei poliziotti di questure diverse continuano a fare squadra. A Palermo un sicario spara al giovane carabiniere Innocenzo Di Matteo, padre ucciso dalla mafia vent’anni prima, sulle tracce dei colpevoli. La madre vedova vive a Torino e chiede aiuto alla polizia perché trova l’appartamento a soqquadro; anche Teresina, la 13enne “ritardata” testimone dell’esecuzione viene spedita nel capoluogo piemontese. Altri pubblici ufficiali vengono eliminati, alcuni perché indagano, alcuni perché sono “mele marce”, complici a rischio di uno dei boss, Don Mimì. C’è un enorme carico di droga che aspetta in un container del porto di Messina, non si capisce più chi può acquistarlo. L’ispettrice omosessuale Gabriella Franchi a Genova coordina colleghi e amici: Piero Fantacci (malato di tumore) a Siena, Anna Gilli a Trieste, Giovanni Marras in Sardegna, Carlo Dalloio proprio a Torino, Antonio Palermo proprio in Sicilia. Mentre scoppia una guerra aspra fra le cosche, c’è un grande manovratore corrotto e sconosciuto che ostacola le indagini, pure quelle dell’Interpol.

Non manca certo il ritmo al secondo romanzo della serie inventata da Elide Ceragioli, 61enne toscana neuropsichiatra infantile (si sente!), da alcuni anni prolifica scrittrice di romanzi e racconti. Segnalo i test cognitivi. Narra in terza varia, su buoni e cattivi, con alcune incursioni di corsivo in prima, centrate sui pensieri della bella ragazzina “sana” ma turbata, con straordinarie capacità di disegno. La storia è più gialla che noir, non a caso la citazione iniziale è di Chesterton. La graziosa illustrazione di copertina riflette un tatuaggio del killer, essenziale per le indagini: una vorace serpe verde con lingua biforcuta e denti aguzzi sul braccio armato di pistola silenziata. Peraltro si usa anche esplosivo. Continui e reciproci ammazzamenti fanno zoppicare un poco il contesto socio-culturale e i caratteri formali di una siffatta squadra, tuttavia la storia corre, i personaggi intrigano, le emozioni hanno sentimento. Vivaldi prima dell’impatto, cioccolata calda di conforto. Attendiamo il prossimo.

 

Leonardo Gori

«Il ritorno del colonnello Arcieri»

Tea

Parigi e Firenze. Maggio 1968. Il colonnello del Sid Bruno Arcieri è nato nel 1902, infanzia a Firenze, ginnasio e liceo a Milano, poi l’Accademia (dopo la morte del padre per la “spagnola”) e una carriera di carabiniere, maggiore del Sim (dal 1938) sempre con gli alleati (per il buon inglese) nell’avanzata da Roma a Milano, antica bellissima ricca bionda fidanzata ebrea riparata in Israele dopo il matrimonio con un altro. Ha fatto carriera nei servizi, però a fine 1966 deve aver pestato qualche callo di troppo a ricchi e potenti. L’estate scorsa ha subìto un attentato, è riparato come un barbone in Francia, da qualche mese si arrangia a cucinare nel bistrot, si fa aiutare dai rossi, convive con la dolce bigliettaia 50enne Marie. Fisico asciutto, capelli ancora nerissimi, presbite, rugoso e roco, acciacchi e ferite varie, jazzofilo, decide di tornare a casa dove pare sia Elena, va a vivere in una comune e affronta amori e misteri (anche di altri) che cerca o in cui incappa.

Bello e colto il noir storico in terza fissa del 58enne fiorentino Leonardo Gori, ennesimo di una fortunata serie, ripresa con Franco Cardini e alimentata dall’amicizia con Marco Vichi, che consente il solito duetto e dialogo del colonnello con il commissario Franco Bordelli. Qui siamo in pieno maggio francese, anche nelle università italiane (infiltrate)! Emergono bene (e male) le trame poco consone alla democrazia dei servizi democristiani connessi alla destra greca (Aneipoti docet). Molti muoiono affinché il colonnello trovi qualche scomoda verità. Il marchio di fabbrica sono i continui riferimenti a vicende e momenti della movimentata biografia, si spazia dal 1910 al 1966 come niente fosse. Bruno ha mangiato sempre male, ma ora prepara cose gradevoli e abbina vini perfetti. Magnifica citazione di «La sposa in nero» di Truffaut (1968) tratto da Cornell Woolrich (1940). I primi Beatles e l’eterno Jimi Hendrix aggiornano la musicultura.

 

Riccardo Besola, Andrea Ferrari, Francesco Gallone

«Il Colosso di corso Lodi. Mala & Fernet» 

Fratelli Frilli 2015

Milano. Marzo 1975. Benito Mala Malaspina è commissario della Squadra Mobile, Dino Fernet Lazzati giornalista di un settimanale pettegolo. Cominciano a scoppiare bombe, ma la pista non sembra politica. Sono esplosioni accurate e mirate, vogliono uccidere un singolo ragazzo ed evitare altri danni: prima, in auto Daniele Belotti, figlio di ricchissimi imprenditori (e il padre mette subito una taglia di 20 milioni di lire); poi, al cesso (esterno) della casa di ringhiera Ruggero Colombo; ancora, nella sala proiezioni del cinema dove lavora Corrado Poretti. Erano coetanei e forse la mattanza non è finita. Benito è felicemente sposato anche se non possono far figli, fuma Muratti, ha l’attendente romano e un capo fascista che vuole subito un colpevole purchessia, viene presto estromesso. Il bruttino Fernet continua a bazzicare la cronaca nera, scrive altro, beve amaro e prova a dargli qualche dritta, insieme alla bella giovane reporter Doriana. Saranno loro, comunque, a capire cosa sta accadendo.

Tre milanesi intorno ai quaranta anni (nati nel 1974, 1977 e 1978) hanno fondato un trio letterario affiatato e il festival “Milano calibro Noir”. Insieme narrano con simpatia e curiosità la Milano di quando ancora non c’erano (almeno con la loro testa), sono al terzo romanzo della serie (i primi due riferiti al 1973 e al 1974). Usano la terza persona, quasi fissa sui due amici indagatori, più Mala che Fernet. Ogni tanto intercalano definizioni da cruciverba ed enigmistica (passione della moglie del poliziotto). Il titolo fa riferimento alla grossa ombra che qualcuno ha visto prima o dopo le esplosioni. C’è molta musica, i tre ragazzi hanno ampie collezioni di dischi in vinile, soprattutto 45 giri di successi dell’epoca (come “L’importante è finire” di Mina), il cibo in secondo piano. Il romanzo è garbato anche se a quel tempo era difficile per un cronista pensare di pubblicare proprio un noir.

 

Francesco Recami

«L’uomo con la valigia»

Sellerio

Milano e dintorni. Inizio primavera 2014. L’ex tappezziere in pensione quasi 70enne Amedeo Consonni (appartamento 8) e l’ex professoressa divorziata sua attuale compagna Angela Mattioli (appartamento 2, ma ha anche altre quattro deleghe) vanno all’assemblea del condominio della casa di ringhiera dove vivono. Una coppia di arrembanti architetti ha appena comprato due appartamenti e vogliono convincere la ventina di inquilini che sono urgenti costosi lavori strutturali e forse a molti conviene vendere, ci pensano loro. Quasi finisce a botte ma Amedeo ha un appuntamento, quando escono si defila, la nipote Ketty gli ha chiesto aiuto, corre dove lei gli ha detto e trova una bella giovane insanguinata nella vasca, qualcuno lo fotografa con il coltello in mano, fugge con una sgangherata valigia, entra in clandestinità per risolvere l’arcano. Le due storie corrono parallele: Angela è arrabbiata ma deve scongiurare il ricatto sulla casa, Amedeo è disperato e, credendo di doversi proprio salvare la vita, comincia a commettere vari reati. L’ennesimo guazzabuglio inestricabile.

Ottima parodia del genere e dissacratoria parodia delle serie di genere (iniziata nel 2011) per l’ottimo affermato fiorentino 59enne Francesco Recami; da una decina d’anni pubblica bei romanzi, fuori e dentro la serie. Nel quinto romanzo (dei sei preventivati) sulla casa di ringhiera (modesto edificio del primo Novecento, con una corte rettangolare e ringhiere di ferro battuto, nel quartiere milanese Casoretto) si fa un po’ il verso, in terza varia al passato come al solito. Al centro vi è quasi sempre il vedovo anziano ingenuo curioso collezionista di notizie, articoli e appunti per ogni crimine dell’ultimo ventennio, che riprende addirittura a fumare e finisce in un rifugio antiatomico. Tornano tutti gli altri noti inquilini e godibile resta la fantasia esilarante nell’intreccio di destini e casi, caratteri e personaggi. L’agente Miglietta ha già pubblicato tre libri di genere noir, lui che si intende di cimici intercettatorie e servizi da caffè. Si mangia locale, brianzetta e china calda.

 

Enrico Pandiani

«Più sporco della neve»

Rizzoli

Torino. Il nevoso inverno scorso. Zara Zarina Bosdaves e François Fanfan Kenguela si amano. Lei è alta e bionda, snella e avvenente, quasi 40enne; dopo un ventennio in polizia nel Nordest ora fa da “private eye”, ottime tecniche di aikido e di scasso; la figlia Valia studia a Londra, il padre anziano ex antiquario Angiolo vive al piano di sopra della casetta che hanno acquistato. Lui è un marcantonio nero, africano colto e intelligente, a lungo ha vissuto a Parigi ai bordi dell’illegalità, ora gestisce il bel locale Cosmopolite (comprato con euro Bosdaves). Vengono risucchiati da parallele vicende pericolose e vanno in crisi. Zara rischia la vita per salvare la ricca bella antiquaria Anna Baldini dall’uxoricidio; poi la cliente la indirizza verso un altro incarico: la scomparsa di un trafficone che forse ha avuto fra le mani qualcosa di prezioso; i pericoli aumentano. François cerca di aiutare un vecchio amico algerino a ostacolare un giro di permessi di soggiorno falsi (a 3000 euro ciascuno, corruzione inclusa) dopo che una loro conoscente è stata massacrata, deve ricominciare a giocare col fuoco.

Enrico Pandiani ha via via affinato un originale stile noir e torna con la sua fortunata protagonista, l’investigatrice privata trasferita nella capitale piemontese alla guida di una iQ, sempre affamata di Pinguini. Linda copertina con alberi del Monginevro, poco di genere. Il titolo fa riferimento agli incontri nei due casi, gente sporca, come il personaggio che più colpisce, il truce e apatico torturatore Remo: fa continui videogiochi sul Nintendo e riflette solo sull’essere messo a terra. Risulta più simpatico il drone sballottato che usa Pietro, collaboratore avvocato dell’agenzia. La narrazione è in terza varia, quasi fissa e alternata sulle due separate vicende degli innamorati, il sesso li aiuta, si fanno consolare. Emerge una notevole cultura del vino, sia per l’enoteca di Saluzzo (insegna del 1862) sia per le sontuose degustazioni (il Pelaverga del Castello di Verduno, oppure il Ghemme abbinato al rognone), pur se non mancano birra etiope e Vat 69. Zara ascolta soprattutto Mark Lanegan e Aimee Mann.

(*) Le recensioni di Valerio Calzolaio negli ultimi 15 anni sono state pubblicate su «Il salvagente», settimanale che ha dovuto sospendere l’uscita in edicola; ma Valerio continua a inviarle, in attesa di… nuove riviste o nuove formule.

 

 

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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