Certe mosche sotto la pelle – di Mark Adin

Ti auguro di non dovere mai incontrare lo sguardo di Felice, tu che sei come me, che vivi la vita e non ne subisci il male, intendo ciò che non riusciresti a combattere. Avresti paura, di quegli occhi dai quali temere il contagio. Per questo, come me, li eviteresti. Dagli occhi di Felice partono chiodi arrugginiti che pretendono di configgersi nei tuoi. Non fastidiosi granelli di polvere, ho detto chiodi arrugginiti. Sono chiodi conosciuti dall’uomo, già usati per un antico supplizio. Felice è un contenitore di sensazioni che non possono uscire, una scatola senza etichetta, se potessi alzarne il coperchio vedresti tutto lo spavento, tutta la disperazione e la perdita di speranza. Per questo  è meglio non sollevare il coperchio, è meglio distogliere lo sguardo dal suo.

Felice era mio compagno di scuola alle elementari, un bambino taciturno. Una mattina arrivò in classe con la solita espressione, con la faccia di sempre. Per la verità, a pensarci bene, c’era in lui qualcosa di insolito e però impercettibile: aveva il capo un po’ più curvo in avanti, maggiormente incassato nelle spalle, lo sguardo vuoto. Si sedette nel banco alla mia sinistra, come al solito, prese il libro e se lo mise davanti, in silenzio. Anche tu, se fossi stato al mio posto, non ti saresti accorto subito che sull’altra guancia c’era una specie di decorazione di guerra da nativo americano: quattro segni rossastri impressi di fresco, le quattro dita del padre, ferroviere, uomo integerrimo. Fu come vedere l’altra faccia della Luna, quella nascosta.

Penserai che questa che leggi sia una delle tante storie patetiche, ti metto in guardia: è una storia pericolosa, è una storia che entra dentro e lavora. Pensaci bene prima di continuare a leggere. Un amico che viaggiava molto fu infettato da una specie di mosca che gli inoculò le proprie uova sotto la pelle. La larva crebbe all’interno del suo corpo, lui la sentiva diventar grande  dentro di sé, muoversi, sapeva che si cibava delle sue cellule. Lo sguardo di Felice è così, ti metto in guardia.  Ti si installa dentro. Non parlo solo di me, parlo anche di te che stai leggendo. Ti crescerà dentro, non ne uscirà più. Felice accennava sorrisi, ma non rideva. Stava con noi, ma senza partecipare. Parlava, poco, di cose banali, mai di sé. Girava in bicicletta da solo, su una Fuchs numero ventotto, verde, con il manubrio corto, con la solerzia di un fattorino che fa le consegne, senza avere mai nulla da consegnare.

Era vecchio a dieci anni, e all’oratorio non riusciva a legare con nessuno. Non era antipatico, non faceva lo stronzo. Anche tu non ti saresti spiegato perché, un giorno d’estate, sparì. Tutti notarono la sua mancanza, ma nessuno  si preoccupò di cercarlo, di andare a suonare il campanello di casa sua. Così passò un anno. L’estate successiva, il prete ci chiamò a raccolta. Imbarazzato, trasse di tasca una busta, la mostrò. Era una lettera di Felice. Non ricordo con precisione le parole, ma il contenuto penetrò la nostra allegria e la piegò in una smorfia. Fu come prendere un pugno in pancia. Ora, io non so se tu che mi leggi hai mai preso un pugno in pancia, non so neppure se hai mai subito una pur minima violenza. Forse non puoi immaginare. Quel pomeriggio sperimentai la sorpresa del dolore improvviso e ineludibile. Felice scrisse a tutti noi la rabbia per il suo isolamento, ci chiamò in causa, lucidamente, uno per uno. Chiese aiuto. Eppure, in seguito, nessuno di noi rispose, ancora una volta nessuno lo cercò.

Mi imbarazza parlarne, combatto come posso la mia ipocrisia. Anzi, voglio denunciarla: perché scriverne non mi assolve ma è terapeutico, scriverne è liberatorio. Ora, tu che mi leggi, non permettere che mi liberi di questo peso.  Vigila, per fatto di giustizia, e non tollerarlo.

Dopo decine di anni, per motivi di lavoro, mi sono recato in un laboratorio gestito da una cooperativa sociale che si occupa di disagio mentale, e lì ho incrociato Felice. Ho chiesto, mi sono informato, è seguito dai servizi sociali. Ho provato a parlargli, poi mi sono arreso alla mia vigliaccheria, me ne sono andato.

E salutandolo l’ho guardato negli occhi.

E’ di questo che ti parlo: lo sguardo di Felice  si è messo a dimora come  la mosca, sotto la mia pelle, e so che non ne uscirà. Piuttosto crescerà, si ciberà di me, lentamente, senza che io possa farci niente.

Non ti chiedo certo di intervenire, non puoi:  il problema è mio.

Vedi, ci sono molte cose che non mi vanno giù di ‘sta storia, te ne sarai accorto, ma credimi se ti dico che ciò che trovo più insopportabile non è la mosca sotto la pelle: è che il mio vecchio compagno di scuola sia stato chiamato Felice.

Mark Adin

Redazione
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Un commento

  • Non so se ti può consolare, ma pure io ho un “Felice” che rosicchia sotto pelle. Sono convinto che di “Felice” ce ne sono tanti, più di quelli che siamo disposti ad ammettere.

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