Francesco Gesualdi: rimettere al centro l’equilibrio e il benessere…

… di tutti gli esseri viventi

Intervista di Andrea De Lotto (ripresa da Pressenza)

Francesco Gesualdi bambino per mano a Don Milani

 

Come vedi il momento attuale?

Oggi siamo in un momento particolarmente critico e complicato: di positivo c’è che si sta cominciando ad avere la consapevolezza che le cose non funzionano, di negativo vedo che non c’è ancora chiarezza sulla strada che dobbiamo imboccare. Siamo in un’impasse dove c’è la tendenza a risolvere i problemi ritornando nelle braccia del vecchio, ma contemporaneamente si comincia a capire che questo non funziona e si stanno cercando nuove prospettive. Siamo in un momento di passaggio; non so quanto durerà…

La grande domanda è se avremo il TEMPO per decidere che direzione prendere prima che ci sia la catastrofe, soprattutto sul piano ecologico, dai cambiamenti climatici all’esaurimento delle risorse naturali, a partire dall’acqua, o dall’inquinamento dell’aria. La crisi ecologica si intreccia poi con la crisi sociale, rendendola ancora più complicata, perché un tempo pensavamo che per fare giustizia bastasse cambiare le regole dell’economia internazionale, del commercio, della finanza, mentre oggi ci rendiamo conto che bisogna cambiare il sistema dalle sue fondamenta. Il tempo della crescita è totalmente finito.

Questo ci mette in crisi profonda, perché noi, soprattutto nel mondo occidentale, siamo stati capaci di risolvere i problemi sociali nella misura in cui c’era crescita. Ora che la torta si restringe ritornano gli istinti animali e si rischia di andare verso un sistema più barbaro. Questa è la grande scelta che dovremo essere capaci di fare: come riorganizzare un sistema economico pensato per garantire la dignità a tutti, facendo i conti con il senso del limite. E siamo totalmente impreparati.

Notiamo che complessivamente il sistema sta funzionando perché siamo succubi di una certa colonizzazione ideologica: la concezione del mercato è entrata nella testa di tutti noi. Questo è stato uno dei grandi drammi della caduta del Muro di Berlino: indipendentemente dai giudizi che si possono dare sul socialismo reale, fin quando c’era un’alternativa a questo sistema, anche chi viveva “di qua” aveva la speranza che potesse cambiare. Da quando non c’è più un’alternativa vivente il sistema ha avuto buon gioco nel dire: “Vedete, non c’è alternativa!” E anche in noi con questa sindrome di TINA (there is no alternative) è subentrato un certo scoraggiamento e disillusione. Ora è ancora più urgente TROVARE UN’ALTERNATIVA, dato che tutto il mondo è finito tra le braccia di un capitalismo neoliberista.

Esistono molteplici esperienze che dal basso cercano di praticare delle alternative; sono micro-esperienze, ma sono dei germi. 

Ritieni ci siano luoghi e realtà nel mondo dove questo cambiamento potrebbe iniziare prima?

Ci sono dei luoghi geografici che ancora non sono stati contaminati dalla nostra ideologia, per esempio le popolazioni indigene, dove l’obiettivo centrale è il buen vivir concepito come un progetto di armonia con noi stessi, con la comunità, con il creato. La consapevolezza che tutto deve stare in equilibrio, mentre con la nostra mentalità occidentale abbiamo creato lo SQUILIBRIO. Abbiamo imposto al creato di adattarsi alle nostre esigenze, ma abbiamo fatto gli apprendisti stregoni.

Rispetto quindi alle popolazioni indigene dobbiamo imparare sul piano comportamentale e ideologico. La difficoltà è riuscire a trasferire nel nostro contesto quei pensieri. Dobbiamo quindi fare un lavoro di cernita di ciò che davvero ci serve, come e quale tecnologia impiegare, quale buttare.

Il lavoro è stato al centro della pedagogia di Don Milani. Cosa pensi della necessità della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, affinché, banalmente, ci sia lavoro per tutti e tutte?

Io credo che il lavoro sia il grande tema sul quale dobbiamo mettere la testa, perché molti di coloro che hanno cominciato a scegliere la via della “riduzione”, tornano indietro e ripuntano alla “crescita”, per paura della perdita dei posti di lavoro. Il sistema è stato molto abile nel farci introiettare il seguente meccanismo: per rispondere ai nostri bisogni dobbiamo andare al supermercato a fare la spesa, quindi abbiamo bisogno di soldi, quindi dobbiamo vendere una bella fetta del nostro tempo in cambio dei soldi necessari a fare la spesa. Ora, se noi vogliamo un altro sistema che riesca a fare i conti con il senso del limite, dobbiamo risolvere questo problema: lo chiamiamo “problema del lavoro”, ma in realtà dovremmo chiamarlo “possibilità delle persone di provvedere a se stesse”. Come provvedere a noi stessi senza dipendere dal consumo degli altri. Allora qui il processo di riflessione deve essere profondo, cominciando a chiederci qual è il senso del lavoro, a cosa serve, come risponde ai nostri bisogni. Rivaluteremmo così il “fai da te”. Riduciamo notevolmente la dimensione del mercato ed espandiamo la dimensione dell’economia pubblica. Io dico che dobbiamo smettere di chiedere soldi alle persone; dobbiamo chiedere tempo, tempo gratuito per ottenere in cambio diritti gratuiti.

Credo che questa sia la strada che dobbiamo intraprendere; nel frattempo VA BENISSIMO la riduzione dell’orario di lavoro. Siamo in un sistema che non crea occupazione, tanto meno punta alla piena occupazione, anzi! Il lavoro è solo un costo e va ridotto il più possibile e si inventa di tutto per ridurlo, in quantità e in costo. La tecnologia in questo senso ha fatto la sua parte, ma anche l’immigrazione, utilissima ad abbattere i salari.

Quindi o redistribuiamo il reddito o redistribuiamo il lavoro; io sono più per questa seconda opzione, più dignitosa. In fondo si va verso la predizione di Keynes: negli anni ’30 affermava che i suoi figli avrebbero lavorato 15 ore alla settimana e invece siamo ancora a 40!

In questo possibile o necessario cambiamento credi vada rivisto anche il rapporto tra città e campagna?

Io credo che se vogliamo fare la pace con la natura dovremo demolire le metropoli che abbiamo costruito e che sono ingestibili e dovremo tornare a diffondere il nostro abitare sul territorio, perché è la concentrazione che crea i problemi. Smaltire migliaia di tonnellate di rifiuti è ben altra cosa che doverne smaltire pochi chili; le famiglie contadine pochi chili se li sono smaltiti sempre senza problemi. Dovremo quanto meno fermare il processo di urbanizzazione e rimettere in moto un processo al contrario; questo sarà possibile nella misura in cui garantiremo i servizi ovunque. Perché la gente se ne va dai posti disagiati, dalle montagne, dalle campagne? Perché quando ha bisogno di servizi come l’istruzione, la sanità, i trasporti, la comunicazione, là non li trova, ma se la società fosse organizzata in modo da garantire questi servizi di base ovunque, io sono convinto che la gente vivrebbe meglio in forma decentrata.

Anche il telelavoro può avere degli aspetti positivi; lo riterrei negativo se fosse l’unica attività che svolgiamo, ma nella mia concezione il lavoro dovrà essere molto vario, riducendo di molto quello “salariato” e aumentando quello “fai da te” o collettivo-comunitario. Poi il telelavoro è possibile per il terziario, ma laddove ci sono le macchine da far andare….

Non penso all’autarchia, ma sicuramente al fatto che ogni zona del mondo faccia il possibile per autosostentarsi: per esempio non c’è bisogno che le nostre scarpe vengano fatte in Thailandia o i cinesi comprino i nostri servizi. Bisogna rimettere al centro l’equilibrio e il benessere di tutti gli esseri viventi, mentre ora il sistema è completamente al servizio delle grandi imprese.

Sei d’accordo sul fatto che questo periodo di Covid abbia mostrato tra l’altro che i cambiamenti radicali sono possibili e quindi il futuro non è così scontato?

Sono completamente d’accordo: altri modi di vivere “se non quello predeterminato” sembravano impossibili e invece è stato possibile. E tutto sommato ci si può guadagnare, se si ha un minimo di capacità di riflessione sul piano delle relazioni. Sì, è vero, delle impostazioni che sembravano inviolabili sono state messe in discussione. Il problema è che questo si sta vivendo come un’eccezione e il rischio è rimettere tutto “com’era prima”, a partire dal lavoro. E invece ci sono altri modi di consumare e di produrre, senza essere legati alla crescita.

Di fronte al possibile baratro e quindi al bivio che abbiamo davanti, quanto è necessario accelerare il nostro impegno, fare un salto di qualità nelle nostre lotte?

Le lotte si fanno insieme agli altri; poi ci rimane il nostro spazio individuale che dobbiamo cercare di occupare fino in fondo. Quindi la mia prima domanda è questa: “Sto cercando di occupare tutti gli spazi di potere che ho a mia disposizione per cercare di cambiare le cose?” Se uno risponde si, può andare a letto tranquillo e la strada farà il suo corso. La domanda successiva è: “Quali possono essere le azioni più intelligenti per spingere il sistema a cambiare?” Cosa che addirittura molte imprese stanno cominciando a dire! Io leggo il Financial Times tutti i giorni e rimango stupito nel vedere paginone pubblicitarie dove amministratori delegati di potenti multinazionali chiedono di adottare sistemi nuovi che limitino il riscaldamento globale. Cioè, la consapevolezza sta crescendo, le grida arrivano dappertutto. Certo la risposta che il sistema sta dando è solo tecnologica, perché non mette in discussione il suo paradigma di fondo che è la crescita. E quello è invece lo scoglio da risolvere, diversamente non andiamo da nessuna parte. Il sistema non ha capito che se non abbandona questo continuo obiettivo della crescita, non fa altro che andare incontro al prossimo disastro.

Qualcosa di buono che è successo in questo periodo è la comune ammissione dell’importanza dell’intervento dello Stato, dopo anni di “messa all’angolo” in favore del privato. Era stato lo stesso liberismo d’altra parte a marginalizzare l’intervento dello Stato, per poi richiederlo con forza quando sono stati il sistema o le banche ad andare in crisi, vedi 2008. Ora dobbiamo riuscire a cogliere questo diffuso riattivarsi dello Stato, non semplicemente per fargli fare da stampella del libero mercato, ma per una seria e generale salvaguardia dei beni comuni.

Io ho lavorato per anni nella sanità pubblica quando questa era il pilastro centrale, con le sue contraddizioni, ma in un periodo per così dire “splendente”; negli ultimi anni la privatizzazione è avanzata in maniera strisciante in alcune regioni più che in altre. E’ stata una demolizione graduale, perché il potere sa che i cambiamenti forti e repentini provocano reazioni. La gente si è ritrovata senza rendersene conto in un nuovo contesto dal quale non si può tornare indietro. Certo, forse una volta si passava una settimana in ospedale prima dell’intervento e ogni giorno veniva fatto qualcosina; poteva essere uno spreco, ma si è passati all’estremo opposto, in cui in poche ore si fa tutto e si viene rispediti a casa. Anche qui c’è da ritrovare l’equilibrio. L’ospedale non può essere una “semplice officina” dove si fa l’intervento e il resto ricade sulla famiglia.

Che cosa possiamo fare noi? Dobbiamo convincere le persone che la prospettiva di un’economia che fa i conti con il senso del limite è possibile. Alex Langer diceva: “La conversione ecologica non avverrà mai fino a quando non sarà socialmente desiderabile.” Ciò che noi prospettiamo deve essere vissuto come una prospettiva migliore del presente che stiamo vivendo. E non è facile, perché in questi ultimi decenni il sistema ha vinto e ha prospettato una serie di comodità legate ai consumi; dobbiamo riuscire a fare un cambiamento radicale rispetto al modo di concepire il nostro benessere. Il benessere è la capacità di soddisfare tutte le dimensioni dell’essere umano: non siamo un bidone aspiratutto che butta giù ogni cosa, o un tratto digerente che deve ingurgitare tutto ciò che la pubblicità offre. C’è anche una dimensione affettiva, spirituale, sociale e il vero benessere è la situazione in cui tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica. Se diventa questa la nuova armonia da raggiungere, il possesso di cose assume un rilievo molto più ridotto, non occupa più tutta la scena, ma solo un frammento.

Questo quindi è un passaggio fondamentale. Bisogna ricordare che l’equità non è un gesto di generosità, ma anche di tornaconto personale, perché per mantenere l’ingiustizia è necessario accettare lo scotto della violenza e nella violenza nessuno sta bene.

Io sento che rispetto a questo c’è un grande vuoto, si tenta di sperimentare in maniera frammentata, ma manca un progetto d’insieme. Credo che i movimenti e chiunque abbia maturato certe convinzioni dovrebbero mettersi insieme agli altri per fare questo lavoro di progettazione.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

3 commenti

  • Sono molti, secondo me, i passi condivisibili di questo testo. Un paio di osservazioni vorrei fare. La “crescita” , con la quale noi occidentali siamo riusciti ad assicurare una vita dignitosa non a tutti gli strati (alias: classi) delle popolazioni dei nostri paesi, è avvenuta oltre che a scapito dell’ambiente, depredando ed impoverendo i paesi che chiamavamo del “terzo mondo”. Questo sta provocando le migrazioni pressoché bibliche del nostro tempo, sicché è impossibile continuare per questa strada. Un’altra, come giustamente dice Gesualdi non è alle viste.
    Quanto al lavoro non credo che la questione di assicurare a tutti e tutte la possibilità di lavorare sia risolvibile per mezzo delle imprese che mirano a fare profitto, perché hanno imparato a produrre impiegando sempre meno lavoro. Il che è gravissimo dal momento che il lavoro non è soltanto un mezzo per procurarsi di che vivere ma è una delle dimensioni costitutive della identità di ogni persona. Ne è prova il fatto che a proposito del lavoro (e credo che sia l’unico caso in cui sia possibile farlo) si può scambiare il verbo fare con il verbo essere, senza che il significato cambi: sono un tornitore, faccio il tornitore; faccio l’insegnante, sono un insegnate. Chi è costretto a dire che può dire di fare, niente? Molti/e disoccuopati/e, a sentirli/e, dicono appunto di sentirsi niente.

  • Francesco Masala

    leggendo queste parole di Francesco gGsualdi
    “Questo ci mette in crisi profonda, perché noi, soprattutto nel mondo occidentale, siamo stati capaci di risolvere i problemi sociali nella misura in cui c’era crescita. Ora che la torta si restringe ritornano gli istinti animali e si rischia di andare verso un sistema più barbaro. Questa è la grande scelta che dovremo essere capaci di fare: come riorganizzare un sistema economico pensato per garantire la dignità a tutti, facendo i conti con il senso del limite. E siamo totalmente impreparati.”

    mi è tornato in mente quello che dice(va) qualcuno, che si impara per apprendimento o per trauma.
    a livello di specie umana temo che funzioni sempre più il secondo sistema

  • Gian Marco Martignoni

    Sono d’accordo con Nino Lisi : se è vero che la strada della redistribuzione del lavoro e della riduzione dell’orario assume un ‘enorme rilevanza per il futuro del movimento operaio, non c’è dubbio che la creazione del lavoro dovrà avvenire per il tramite dell’intervento dello stato – inteso nella sua dimensione articolata e decentrata – ed in forme classicamente cooperative. Certo la dimensione della ” riconversione ecologica ” abbisogna di una quanto mai necessaria ” decolonizzazione dell’immaginario “. Come disporsi e lavorare in questa direzione è la scommessa che dobbiamo affrontare , individuando a tal scopo le opportune forme organizzative.

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