Cesena: tutto normale dicevano e mio padre è morto

La lettera della figlia di un anziano morto alla struttura Maria Fantini è stata inviata a Davide Fabbri che scrive: «vi supplico, prendetevi 10 minuti per leggere questa addolorata e commovente lettera-denuncia».

Sono a scriverle per metterla al corrente delle vicissitudini di mio padre, vissute all’interno della struttura Maria Fantini di Cesena.
Il giorno 7 marzo 2020 la struttura Maria Fantini, struttura presso la quale soggiornava mio padre, emanava disposizioni come da normativa emergenza anti contagio Covid-19 e chiudeva le porte, chiudeva l’accesso a tutti i famigliari degli assistiti. Premetto che fino al giorno prima mio padre, affetto da alzheimer, non presentava nessun altro problema. Da quel giorno non ho mai più avuto la possibilità di vedere il mio caro babbo, né attraverso video-chiamate, né con altri sistemi; ho iniziato io giornalmente a telefonare per chiedere notizie circa la situazione all’interno della struttura, e soprattutto le condizioni fisiche di mio padre, visto che comunque nei mesi scorsi avevo notato poca attenzione da parte del personale nei suoi confronti: lui era uno dei pochi ad essere autosufficiente, camminava e si alimentava autonomamente, e se accompagnato in tempo utile in bagno, anche nei bisogni fisiologici era autonomo. Io e mia madre tutti i giorni eravamo lì con lui, ed è stato davvero difficile accettare di non poterlo più assistere, aiutare, perché sentiva la nostra vicinanza, anche se con quella malattia è difficile crederlo.
Inoltre il periodo che mio padre è rimasto in struttura (circa 5 mesi) a partire dall’ 11 novembre 2019, ma in attesa di essere trasferito in altra struttura, perché – a detta del personale preposto e condiviso da noi familiari – questa struttura non è stata ritenuta adatta alla sua situazione: camminava continuamente e gli spazi non erano consoni. Ogni giorno lo andavamo a trovare per dargli assistenza, lo aiutavamo a fare il bagno, la barba, accompagnarlo in bagno, fargli compagnia mentre mangiava e con piccoli gesti di aiuto consumava tutto il pasto e beveva normalmente (bastava allungargli il cibo e le bevande con gentilezza e lui finiva tutto in un attimo). Anche durante l’ultima festa di carnevale ha mangiato, bevuto e ballato il valzer, ha ballato il tango. A lui piaceva molto il ballo!

Ritornando al periodo di divieto d’accesso ai famigliari, le risposte alle telefonate date dagli operatori erano sempre le stesse: “tutto normale”. Il 23 marzo scorso in risposta alla mia solita telefonata quotidiana, un’operatrice mi comunica che mio padre è attivo come sempre, passeggia nel corridoio, ma mangia meno e lo vede un po’ dimagrito. “Niente di preoccupante” mi dicono. Segue una telefonata del 25 marzo con una operatrice assistenziale, che mi conferma che è tutto come i giorni precedenti, ma il babbo continua a mangiare meno. Lo vede molto debole e per questo ne avrebbe parlato col medico per prescrivere qualche ricostituente, ma nessun sintomo preoccupante, né febbre e nè tosse; mi riferisce però anche che in struttura avevano iniziato a fare a tutti i tamponi per il Covid-19.
Da quest’ultima telefonata ho incominciato a preoccuparmi enormemente; nel pomeriggio dello stesso giorno ho chiamato l’infermeria di turno della struttura per chiedere delucidazioni sia sulla questione tamponi, che sulle condizioni fisiche di mio padre. Una infermiera mi risponde che quello che mi avevano riferito al mattino non era vero: dalla loro cartella clinica non risultava nessuna terapia per aiutarlo ad alimentare e idratarsi, ribadendo ancora una volta che mio padre stava bene.
Questa risposta mi avrebbe dovuto tranquillizzare; al contrario io non ero per nulla tranquilla. La mia mente si chiedeva il perché dei tamponi a tutti gli ospiti della struttura, visto che al momento continuavano a dirmi che era tutto a posto.
Il giorno dopo nel primo pomeriggio ho richiamato al telefono la struttura, e parlando sempre con la stessa operatrice mi ha confermato che era tutto a posto: il babbo passeggiava e stava bene, ma era molto debole, fiacco e debilitato. Lo stesso giorno verso le ore 19:30 dalla segreteria della struttura ricevo comunicazione che l’esito del tampone di mio padre era risultato negativo. Felice di questo, mi ero rincuorata. E così tutte le telefonate intercorse successivamente erano dettate dal fatto che tutto procedeva nella normalità.
Peccato che purtroppo non era così. Il 27 marzo scorso ho appreso dai giornali locali che nella struttura era presente un focolaio da coronavirus, che aveva già infettato gli ospiti. La domanda che mi tormentava era: ma chi l’ha portato quel maledetto virus all’interno di una struttura chiusa ai famigliari da circa un mese? Erano state adottate tutte le misure di precauzione e di sicurezza? Si potrà sapere prima o poi come sono andate esattamente le cose? Io avrei potuto portarmelo a casa mio padre, come ho fatto per 10 lunghi anni.

La delusione è stata forte, l’atteggiamento, il comportamento della struttura ancora non lo capisco. Perché mi hanno nascosto o non detto la verità fin da subito? Qualcuno mi dovrà rispondere. Lo pretendo.

Immediatamente la mattina seguente ho contattato la struttura, non riuscivo a darmi pace. Sono stata messa in contatto direttamente con il direttore della struttura. Gli ho chiesto perché non fossero stati avvisati i famigliari, e lui con stupore mi ha risposto in questo modo: «Ma come, lei non è stata avvisata?». Non posso credere che un direttore di struttura non si accerti dell’avvenuta comunicazione ai familiari.

La rabbia verso questi atteggiamenti e comportamenti mi avrebbe portato a fare e dire cose che non posso qui scrivere. Con difficoltà e molta calma gli ho chiesto di spiegarmi la situazione all’interno della struttura, come stavano gli ospiti e cosa stava facendo la direzione della struttura per contenere l’epidemia e salvaguardare la salute di chi stava bene, come mio padre. Il direttore mi ha risposto con queste testuali parole: «Gli infettati sono stati isolati e chiusi a chiave nelle loro camere, quelli che ipoteticamente possono aver avuto contatto con i contagiati sono stati collocati in un’altra ala del piano, ed i negativi (come mio padre) sono stati collocati in un altro spazio chiuso, con le porte anti panico». E poi mi ha assicurato che mio padre aveva comunque lo spazio per camminare. Gli ho chiesto, visto che mio babbo era risultato negativo, se potevo portarlo a casa, e lui mi ha risposto che non sapeva rispondermi a questa domanda, e che avrebbe chiesto consiglio all’Azienda USL. Il lunedì mattina mi avrebbe fatto sapere. Lui non mi ha mai risposto a tale domanda. E comunque aveva commentato che siccome il babbo era collocato in una struttura, dovevano controllare dove veniva collocato per assicurarsi che non venisse lasciato solo, visto che noi familiari l’avevamo portato lì, perché non eravamo più in grado di seguirlo. La mia indignazione a questo tipo di commento-giudizio non è misurabile. Lui non poteva sapere quanti sacrifici abbiamo fatto per mio padre e quanto bene gli abbiamo voluto. A questo punto non potendo fare nulla e confidando nella professionalità e serietà del personale addetto presente in struttura, ho atteso notizie ogni giorno sulle condizioni di salute e fisiche di mio padre, sempre le stesse fino a giovedì 2 aprile, quando ricevo una telefonata dalla segreteria della struttura che mi comunica che mio padre è risultato positivo al tampone.
Lo sconforto mi assale. Nel tardo pomeriggio, assieme a mia sorella anch’essa molto preoccupata, telefono nuovamente all’infermeria per saperne di più sulle condizioni del babbo. Mi risponde la stessa infermiera della volta precedente, riferisce che mio padre è molto assopito e che avevano dovuto aiutarlo a mangiare. Mia sorella allora ha chiesto se potevano ogni tanto sorvegliarlo, perché non cadesse. Si è sentita rispondere che poteva anche succedere, che non c’era tempo e modo di seguirlo personalmente. Potete immaginare come siamo rimaste da questa imbarazzante risposta.

Venerdì 3 aprile scorso il sindaco di Cesena con un provvedimento d’urgenza (una ordinanza per motivi di igiene e sanità pubblica, inerente la diffusione del Covid-19) ha trasferito all’Azienda USL la gestione e il coordinamento dei servizi assistenziali e del personale sanitario e socio-sanitario – in maniera straordinaria e temporanea – della struttura, fino al ripristino delle condizioni di sicurezza. Il sindaco ha sospeso l’efficacia dei provvedimenti di accreditamento concessi precedentemente dai Servizi Sociali comunali e dall’Azienda USL alla struttura.

La segreteria della struttura comunicava che mio padre sarebbe stato trasferito dal Maria Fantini all’ospedale Bufalini di Cesena, per avere le cure necessarie. Quindi risulta palese che le condizioni fisiche di mio padre erano cambiate già in struttura, dal momento che con il divieto d’ingresso a noi famigliari non era stato seguito come il suo stato fisico richiedeva e quindi probabilmente abbandonato a sè stesso. Alla luce della telefonata intercorsa con il medico del Bufalini nella mattinata di sabato 4 aprile scorso, dove mi chiedeva informazioni sullo stato fisico di mio padre, perché fosse così debilitato e disidratato, non posso che pensare che la struttura non abbia dato l’assistenza dovuta e necessaria per la sua patologia, e ancor più grave non abbia messo in atto tutte le misure adottabili per evitare il contagio del Covid-19.

Purtroppo il babbo a causa di tutto questo non c’è più. Non ce l’ha fatta. Lunedì 13 aprile ci ha lasciati: è deceduto in questo tragico periodo senza l’affetto e la vicinanza dei suoi cari, che lo rimpiangeranno a lungo per la sua bontà e semplicità d’animo. Chiedo anche a nome della mia famiglia, che venga fatta chiarezza su tutta questa vicenda, affinché vengano alla luce le responsabilità e il probabile cattivo operato, tenuti nascosti. Ci meritiamo di sapere. Vogliamo la verità, che per noi non c’è stata, questo non ci ridarà nostro padre, ma servirà a dargli giustizia, e se qualcuno ha sbagliato dovrà pagare, in maniera tale che non accadano mai più queste cose.

Cesena, 18 aprile 2020

La figlia dell’uomo morto alla casa di riposo “Maria Fantini” di Cesena

Il commento di Davide Fabbri

IL DRAMMA DEI DECESSI DA CORONAVIRUS ALL’INTERNO DELLA CASA RIPOSO PRIVATA MARIA FANTINI DI CESENA
Rendo pubblica una lettera eloquente, scritta dalla figlia di un anziano poi deceduto a causa del coronavirus: era ospite della casa di riposo privata Maria Fantini di via Renato Serra a Cesena. Una struttura diventata nell’ultimo periodo focolaio pericoloso di diffusione del Covid-19: con 63 ospiti e 40 operatori ci sono stati 11 decessi, 23 contagiati e 13 ricoverati in altre strutture.

Sappiamo che le strutture per anziani sono state le più colpite dall’emergenza sanitaria. Ma vi supplico. Prendetevi 10 minuti per leggere questa addolorata e commovente lettera-denuncia di ricostruzione di quel che è accaduto. Il punto di vista di una figlia. La quale ha pagato rette cospicue a una struttura privata convenzionata col pubblico, che doveva prendersi cura di suo padre. E’ un vero e proprio atto di accusa, che tutte le istituzioni – in testa Comune più A.Usl – e l’opinione pubblica non dovrebbero trascurare.

Occorre al più presto rivedere il modello di gestione di queste strutture private accreditate dagli enti pubblici. Occorre cambiare il sistema dei controlli pubblici.
Nello specifico la lettera evidenzia pesanti e plateali criticità gestionali, inadeguatezze e inefficienze, carenze di informazioni e di coinvolgimento dei familiari. Parliamo di una struttura privata in mano alla Fondazione Maria Fantini, gestita quasi interamente in appalto da un altro soggetto privato, la cooperativa Team Service, del gruppo legato alla coop IL CIGNO appartenente al gruppo Pactum, che è in mano alla a. d. Maria Grazia Giannini, moglie dell’ex vicesindaco di Cesena Carlo Battistini.
Questa lettera è stata girata al sindaco di Cesena Enzo Lattuca e all’assessore comunale ai “servizi per le persone e le famiglie” Carmelina Labruzzo. Ed è stata inoltrata alla Procura della Repubblica di Forlì, che ha avviato recentemente indagini esplorative in tutte le strutture residenziali per anziani del territorio provinciale di Forlì-Cesena, in merito ai decessi e ai contagi di ospiti e operatori.
Mi chiedo: è stato fatto tutto il possibile – nel contrasto all’epidemia da coronavirus – per prevenire il contagio, per evitare e limitare drammi e tragedie nei confronti della popolazione più indifesa e fragile? Io credo di no.

Cesena, 29 aprile 2020
Davide Fabbri, blogger indipendente

 

Davide Fabbri

Un commento

  • Ho letto la lettera,possibile che in una costosa struttura privata per anziani i fatti siano questi?Sono molto addolorata questa famiglia e tutte le altre che hanno perso un familiare.Bisogna fare luce,RIP.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *