Chi, come, dove, quando, perché

scherzo in 5 atti di Enrico Caravita (*)  

La poesia è sempre dietro, davanti e a fianco alla bellezza, le gira intorno come un abito, a volte si stringe al corpo e a volte si rilassa come una tunica.

***

Buio.

Luce.

Occhio di bue a illuminare l’attore in proscenio a sipario chiuso.

K: Il mio nome è Enrico Caravita. Fate attenzione a quello che dico perché scelgo le mie parole con cura e non mi ripeto mai.

– Io sono “un corpo a prestito” -.

Sì, proprio così.

Avete capito bene.

– Mi calo nella parte -.

In tutti i sensi.

Se uno guardasse il mio curriculum troverebbe tante diverse professioni.

Tant’è che qualcuno potrebbe pensare che io sia un ballerino … nel senso: – che mi piace saltare da un lavoro all’altro -.

C M Q” comunque

Vuoi l’indole, vuoi nuovi stimoli, vuoi la voglia di crescere, o un nuovo ambiente o solo il desiderio di non continuare a battere la stessa strada ha fatto sì che di lavori ne ho cambiati tanti soffermandomi solo su alcuni di questi … tanti.

(MUSICA)

Ho fatto:

l’imbianchino,

il cameriere,

il cambusiere,

il barista,

il manovale,

l’apprendista falegname,

il carpentiere,

il barbiere,

(PAUSA)

l’istruttore di windsurf,

quello di canoa,

l’agente commerciale,

il bracciante,

l’autista,

il fornaio,

Il calzolaio,

(PAUSA)

l’operaio,

il giardiniere,

il facchino,

il portuale,

il carrellista,

il carropontista,

l’apprendista,

l’istruttore

il presentatore,

l’animatore,

(PAUSA)

K: Il lavoro che hai amato di più?

K: L’attore!

Vedete voi come classificarmi … io mi sono sempre definito in base a quello che era scritto sulla mia carta d’identità del momento.

Al momento, in quella attuale cioè, è scritto OPERAIO.

Ero OPERAIO infatti.

SI’ ERO.

al momento invece sono DISOCCUPATO.

Avendo scoperto, di recente, che la parola DISOCCUPATO non può essere scritta sulla carta d’identità, di fatto così negando la verità e recitando il falso io qui stasera mi arrogo il diritto, di fronte a voi, di dire e fare e definire la mia persona, come più mi aggrada e di vestire gli abiti, metaforicamente parlando, che più preferisco.

Comunque

Quando ero OCCUPATO, ero occupato come OPERAIO per una cooperativa all’interno di uno stabilimento metalmeccanico della mia città.

Ma siccome “Caravita ha fatto del casino”, direbbe qualcuno,

altri direbbero “Caravita ha fatto valere i suoi diritti” 

non mi è stato rinnovato il contratto.

Di fatto perdendo il lavoro.

Per la cronaca … la vertenza sindacale

l’attuale disoccupato,

l’ex operaio … l’ha vinta !

Ma intanto il lavoro Caravita non ce l’ha !! – urlano quelli là!

– Ma vaffanculo !! – io di qua.

Non trovate che per uno che si sente un “corpo a prestito” il mestiere dell’attore sia il vestito, o l’abito, perfetto?

Io lo credo ma per quell’abito non era ancora arrivato il suo momento …

Comunque

Ho sempre considerato le parole, abiti da indossare.

E le situazioni, quelle reali intendo, ambienti in cui:              abitare 

sostare,

giocare,

nuotare,

lavorare,

affogare,

passeggiare,

svernare,

Questa situazione qui per esempio, quella di stasera intendo, dove io sono sul palco di fronte a voi, dove io devo essere l’attore e voi lo spettatore, è per me paradossale.

Paradossale perché sono un me stesso che recita le sue stesse parole, non parole di altri.

– Ahhhh!!!! –

C M Q

Comunque

Ritorno nel personaggio!

Mia madre diceva sempre che da piccolo ero come il prezzemolo. Dove mi mettevo stavo. Interagivo, giocavo … che fossero bambini o adulti … qualcosa da fare lo trovavo sempre all’interno del gruppo, della situazione …

Quasi come se trovassi il modo, il passepartout per entrare nel meccanismo e armonizzarmi!

Le situazioni, le parole diventavano, e lo sono ancora, CONFINI da riempire, colorare con quello che … SONO.

(MUSICA)

Piccola danza sul posto come fossi un burattino del paese dei balocchi

K: corpo / ossa / voce / sangue.

K: un antico proverbio cinese recita che un uomo per trovare la sua strada deve attraversare almeno 3 incroci nel corso della sua vita. Questo è il primo.

In questa avventura – che è LA VITA – a un certo punto ho incontrato un mestiere che è stato per me una sorta di battesimo, di iniziazione.

Che mi ha permesso di mostrami e mi ha mostrato una via … che mai avrei pensato di “toccare” e/o “vivere”.

Visto che i lavori agricoli all’età dei 18 anni erano trooooopppo faticosi per il sottoscritto, dato che occorreva svegliarsi prestopresto e a quel tempo mi piaceva fare tarditardi … capìi che era gioco trovarsi un altro lavoro … diametralmente opposto … un lavoro, magari notturno … magari anche divertente …e questo lo capii dopo essermi addormentato in vespa e:

(suono con la voce della frenata e del respirone da cagnone)

K: svegliato poco prima di schiantarmi nel culo di una cinquecento fermo al semaforo di via Berlinguer.

Un amico faceva tutti i fine settimana il lavabicchieri in un locale di Lido così sull’esempio di Miguel, l’amico appunto, decisi di propormi come lavabicchieri e cerca che ti cerca … beh! Non trovai da fare il barman???!!!

che spettacolo!!!

Un locale in voga, un ambiente nuovo, facce … nuove, luci del bar come riflettori, un palchetto la pedana del bar e tanto tanto tanto alcoooool!!!

E i proprietari che mi dissero:

M – Kike, vai … –

E QUESTO E’ IL CHI.

Un lavoro che mi ha permesso di conoscere la notte e il mondo della notte.

Un mestiere attraverso il quale muovere i primi passi verso sconosciuti come voi a cui raccontare una storia o ascoltare una storia.

Con cui fare soldi facilmente divertendomi …

I contatti? Erano veloci: il tempo di un drink!

E potevo essere:

professionale,

cinico,

confessionale”,

ubriaco

sboccato,

educato,

alterato,

effemminato

curioso

ubriaco

Timido

Impacciato

Sfacciato

Rilassato

Estasiato

ubriaco

Alto

Magro

Grasso

Tonto

Goffo

Muto

Lesso

Comunque

ubriaco

Ogni ruolo mi permetteva di entrare in contatto con clienti, persone diverse.

Poi è diventato un lavoro.

Non era più divertente

Oppure la parte mi stava stretta rischiando così di: “Come recita il detto: … zoppicare…”.

Comunque

Dalle notti nel bar ho imparato questo:

(MUSICA)

1°- il bar ha una porta sempre aperta.

Da lì può entrare chiunque;

chiunque

2°- se dai da bere, ti devi prendere cura di quelli a cui dai da bere;

vero

3°- i ‘mbriaghi cambiano ma disen sempre e stesse cose,

sempre

Generasion dopo generasion dopo generasion!

4°-

STOP MUSICA

le notti ti tolgono le mattine.

Stanco delle notti e desideroso di mattine ho cambiato lavoro.

Totalmente!

Non ho cercato … troppo … il primo che ho trovato così ho cominciato!

… “secondo incrocio” … – quello del cinese – così ho cominciato,

al porto.

Carico e scarico le navi.

Ora usiamo i mezzi, le macchine, le gru.

Poi man mano che la stiva si svuota per pulirla bene usiamo badile e spazzole.

E’ aumentata la sicurezza così i pesi che dobbiamo alzare sono meno pesanti rispetto a quando ho cominciato.

Quello del porto è un altro mondo, un altro luogo.

Un mondo nuovo sconosciuto se non ci sei mai stato.

Il porto di Ravenna poi è diverso da tutti gli altri porti.

E’ totalmente estraneo alla città da cui prende il nome.

Me lo ha fatto notare una volta un marinaio francese. Si faceva chiamare Jaja o si chiamava così, non so.

Jaja nome d’artista. Beh i francesi sono tutti un po’ artisti solo per come parlano, mica come noi che siamo contadini anche se lavoriamo al porto o anche se facciamo i pescatori.

I contadini.

I romagnoli sono contadini.

Che poi non c’è niente di male nel fare il contadino.

Ma per come ti chiamano – contadino – sembra una colpa, un marchio!

Ma vaffanculo … francesi, contadini, romagnoli e pescatori.

C M Q” comunque

Il porto qui vive due stagioni. Che NON sono quella del freddo e quella del caldo ma quella abbagliante, della luce che sbatte sul cemento e ti acceca, e quella della nebbia, dove non si vede niente, solo grigio, solo profili, contorni. Che è lunghissima, da settembre a giugno e non si vede niente.

Vedi solo i profili. Delle navi, delle gru.

I suoni sono lontani lontani e tu ci sei dentro, molto dentro.

Devi stare in occhio però, altrimenti ci muori.

E poi lì – ricordo – è tutto più semplice.

Hai solo due direzioni e basta.

Ravenna, dove comincia il canale.

Marina, dove il canale finisce.

Poi ci sono le stive che sono una diversa dall’altra.

Quelle profonde e strette.

Quelle basse e larghe.

Quelle ampie in tutti i sensi. In lunghezza e in larghezza.

Poi c’è il carico che cambia.

Ci sono navi

container,

tronchi,

urea,

argilla,

cereali,

farine,

zucchero,

klinker,

fespato,

carbone,

coils,

segati

Oppure si scaricano liquidi come

Petrolio,

metano,

pre-lavorato

Le stive sono paesaggi lunari quando d’inverno c’è il sole buono e l’aria è tersa oppure di notte con le luci artificiali e ti trovi dentro e sei a finire e c’è la gru che raccoglie la mucchia che il bobcat e l’escavatore fanno mentre negli angoli gli uomini con il badile raccolgono i residui.

Sembrano quadri o poesie i fotogrammi che hai davanti agli occhi. Se ti fermi a prendere fiato, per fumare e ti tappi le orecchie così da sentire solo il rumore sordo che passa dai tappi …

Non sei più a Ravenna, non sei più in un porto.

Non sei … sei proprio da un’altra parte.

Tu sei piccolo mentre tutto attorno a te è così grande che il rapporto non è più a misura d’uomo.

Non c’è lingua per comunicare ci sono gesti che si fanno codice e mani che si fanno idioma. È come stare a vedere un balletto … non so se mi spiego, perché non è un balletto è altro … voglio dire è una … mmmhh …

Coreografia.

Coreografia.

Così vedi un essere umano grande quanto te che a gesti fa muovere tutto ciò che di più grande c’è.

In uno spazio grande, grandissimo, immenso.

Da lì, da dove ti trovi, anche le ciminiere con i loro sbuffi di fumo sono belle.

Vorresti darci una boccata anche tu poi soffiare via tutto e …

… e c’è il signor D che bestemmia e impreca come un forsennato. Se le parole fossero fumo anche lui sputerebbe fuori tutto quello che quelle ciminiere ci regalano. Ma non è poesia quella che esce dalla bocca del signor D come non è aria buona quella che esce da quelle ciminiere … quindi vaffanculo alle ciminiere e vaffanculo anche a lui, al signor D!

che quasi si fa ammazzare per agganciare i sacconi prima

così può andare via prima

prima della fine del turno!

Chissà poi dove cazzo deve andare di fretta uno così … che lo vedo sempre … che lo sento sempre che sa di alcool, che sa di fumo e ha quegli occhi lì, quelli con la patina sopra il bianco, e si ciuccia sempre la sua caramella di menta che mangiava anche mio nonno.

Mi capita più volte nel turno di afferrarlo per la cintola.

Rischio di essere persino menato invece che ringraziato.

Vaffanculo signor D per tutte le volte che ti ho preso per la cintura e non ti ho fatto cadere dal trespolo.

Vaffanculo …

Capita che incontri il teatro così come hai preso per la cintura il signor D.

E con il teatro comincia un viaggio.

Un viaggio che non avevo mai fatto.

L’arte, intendo quella più vera, quella che non è professione, intendo quella che è per tutti, che è bella perché vibra, ti muove, ti riempie proprio … come se ti si gonfiassero i polmoni di acqua e respiri, non affoghi.

Quella cosa lì che tutti abbiamo provato una volta … almeno.

Ti rapisce.

Punto.

Al principio il primo, il porto, mantiene il secondo e così porto il teatro al porto ed il porto a teatro.

I due mondi si accettano e comunicano.

Poi l’equilibrio cambia e devi scegliere.

K: E tu (mi faccio la domanda come se mi sdoppiassi) cosa hai scelto?

K: Io ho sempre scelto il bello.

Non perché sono più furbo.

Non mi sento più furbo.

Sono solo più fortunato. Ecco cosa sono. Più fortunato.

Ho cominciato a fare l’attore.

Che tutt’ora credo non voglia dire niente … è l’anagramma di teatro, ho scoperto.

Con il teatro ho conosciuto persone … persone …

A volte ero come in un libro di fantasia, in posti fuori … fuori dalle mappe turistiche, dove la gente parla lingue buffe, dai suoni strani:

ho lavorato in Serbia, in Bosnia, in Montenegro, Kossovo, Palestina … , a Lisbona, Berlino, in Brasile, in Libano, Italia, Turchia, Kurdistan …

Ma ho sempre concepito questo viaggio come un’andata e un ritorno, come fosse un ponte.

I contorni dei posti dove vivevo e i confini delle persone incontrate avevano una più grande definizione. Erano più netti, più marcati.

I miei invece erano più fluidi, meno definiti, più contaminati.

Ho viaggiato anche velocemente perdendo tutti i miei riferimenti.

Credo di essere stato più oggettivo su quello che avevo davanti agli occhi e meno oggettivo e vigile su di me. O forse era concentrato sul resto.

E con questo vi ho definito il DOVE.

Ponti, non-luoghi, bolle di sapone.

Ma c’è una bella differenza tra trovarsi chiusi dentro un non luogo o una bolla di sapone o su di un ponte.

Tant’è che come dentro una bolla di sapone ho percorso questi luoghi come fossero ponti. Luoghi di scambio dove moneta corrente sei tu e sei ripagato per quanto dai.

Non c’è denaro, non c’è stato denaro e forse per questo è stato uno scambio democratico … nel senso che ognuno ha preso per quanto ha dato.

E in tanti hanno scambiato: bambini, genitori, curiosi, artisti …

Ho riconosciuto l’importanza del viaggio, viaggio come esperienza e come scambio di esperienza.

Viaggio come cambiamento. Nell’essere e nell’agire.

Viaggio come dottrina di conoscenza.

Allora entri in un semplice caffè della fredda Berlino, ti siedi a un tavolo come fosse un’isola e cominci ad ascoltare e a parlare con chi si siede al tavolo e approda alla tua isola e capisci allora che il mare, tutti i mari, sono vie di comunicazione e noi pesci che ci spostiamo in questo mare

CHE E’ ANCHE IL COME …

K: E IL QUANDO?

Una sera, mi trovavo a Berlino, all’ EIS 36, gelateria di Kreuzberg, quartiere di Berlino.
In programma c’è la proiezione del film “Il cammello che piange”. Io, da parte mia, incalzo Gonzalo dicendogli: – Come? “Il cammello che piange”? In tedesco senza un sottotitolo manco in spagnolo? –
Lui ride e va in cucina.
A seguire i fumetti di Samir Harb e Samir Harb in persona per presentare il suo lavoro.

Infine musica.

(SHUFFLE IN LA MENO)

Il bar o la gelateria o il ristorantino, a seconda dei momenti della giornata, … o la famiglia che ci trovi … è particolare, no no no, è unica.
Lei è Maria Albertina una italo argentina, dal sorriso irradiante e dalla voce squillante, dagli occhi vivi che ti ravvivano, lui è Gonzalo, della selva ecuadoregna, catapultato a Berlino all’età di 10 anni … rimpiange il suo villaggio e la sua selva.
Non so molto di loro, li ho conosciuti questa primavera e le volte che torno a Berlino vado a salutarli. Qui e’ come essere a casa. In tutti i sensi e … come quando torni a casa ti chiedono come stai ma anche cosa è cambiato.
… l’EIS 36 non è il posto delle bugie! Così ognuno con la propria faccia risponde, se vuole, alle domande ma ripeto, l’EIS 36 non è il posto delle bugie che qui si vedono e si sentono come si sente la differenza che passa tra una torta fatta in casa ed una confezionata.
L’EIS 36 è una grande casa per la gente che l’attraversa.
È uno spaccato latino aperto per chi ci entra e ha voglia di ridere di conoscere o solo stare.
Ci sono argentini, spagnoli, cubani, italiani ma anche tedeschi e turchi. Le lingue che si parlano sono tutte queste e un inglese mediterraneo come collante generale.
STOP MUSICA


Anche in questa Berlino le cose vanno come nel resto dell’occidente, dietro la copertina patinata e tirata a lucido delle zone turistiche o dei quartieri “bene”, le parole che la riempiono hanno i colori dei volti e i tratti decisi delle vite che si fanno vita.
C’è un allegria di fondo in questa gelateria che come un motivetto di un vecchio juke-box viene accesa di tanto in tanto per scaldare e scaldarsi, così trovi un ragazzo italiano partito da Latina e arrivato qui per fare il dj che dorme da un mese in un ostello e trova dei lavoretti saltuari per tirare avanti.
Erano partiti in due, dice. Uno ha mollato ed è tornato. Qui è dura – continua – ma non mollo e quando sento un po’ di nostalgia vengo qui da Albertina e da Gonzalo e … riparto –
C’è Sofia che viene da un piccolo paese argentino, figlia di un tedesco e di una argentina. Figlia di quel mondo hippie che è andato a nascondersi in paradisi (faccia a punto interrogativo) naturali che poi diventano stretti per i figli che semmai vogliono vedere quel mondo da cui sono scappati i loro genitori.
C’è quel simpatico matto di Giovanni scappato da Iglesias … oppure c’è il cubano, un po’ irruento che ha disegnato la bandiera del suo Paese sulla lavagna dei piatti del giorno senza capire che all’EIS 36 non c’è bisogno di bandiere.
Poi ci trovi i turisti, no devo dire che la fauna non è per niente male.
La poesia è sempre dietro, davanti e a fianco alla bellezza, le gira intorno come un abito, a volte si stringe al corpo … a volte si rilassa come una tunica.
Poi a un certo punto con l’avanzare della sera che diventa notte le luci si fanno più soffuse, la musica cala il suo volume per consentire agli abitanti del condominio soprastante di dormire e finalmente si accendono le sigarette e il fumo avvolge tutti i presenti in un abbraccio, così i tavoli si appoggiano al muro e chi balla la salsa si fa più stretto per meglio sentire.
Mentre Albertina serve ai tavoli e Gonzalo cucina, capita che ti chiedano di andare al supermercato per comprare le birre che scarseggiano oppure di sistemare la finestra che bloccata non si chiude, allora il posto diventa in un qualche modo tuo.
Entri, non passi e in qualche modo resti.
Sono queste le parole che si stanno perdendo nel nostro mondo sempre pronto a inseguire un successo che non riconosco e che soprattutto non so per chi sia, a parte contabili e uomini ciechi che non vedono il cielo.
Stiamo correndo super veloci senza guardare nello specchietto retrovisore e non ci accorgiamo di essere sempre più soli.

Mi torna in mente un detto, una leggenda, una storia della città dove sono cresciuto.

Notizia popolare appresa per caso in un bar del centro da un cliente. Una storia ormai scomparsa come tante altre. Una leggenda della quale parla pure Cervantes nel “Don Chischiotte”.
Nella torre pendente del centro storico sono nascoste due statue: una di un guerriero, l’altra una donna mascherata. Sono disposte una di spalle all’altra:

obbligo d’orientamento che nasconde la dama allo sguardo del guerriero, perso in una ricerca eterna e mai soddisfatta.

il detto locale vuole che si chieda a chi è perso e sta cercando: – Ma cosa stai cercando? La tua Maria? –
Vi domanderete, mi domando: – Chi è Maria?-
– E’ una donna? E’ il diverso da te? E’ la tua metà mancante?-
… la stai cercando forse nella direzione sbagliata, forse la tua Maria si trova proprio dietro di te. Forse basta solo guardare bene, guardare meglio.
Forse la maschera non è sul suo viso ma nei tuoi occhi.
Forse.
Allora penso a quello che mi gira intorno, qui a Berlino o a Ravenna come in Palestina, o a Sarajevo o anche solo nella Correggio della via Emilia … una mare di persone differenti e ognuno con storie differenti.
Ci tengo a parlare di questo perché Ravenna come tante altre città è sempre più provinciale e chiusa.
Eppure è stata prima capitale di un impero poi “internazionalmente” famosa per le sue storie come … splendida è stata Teodora, che non era di Ravenna …. Prima rifiutata dalla città per quello che era e per quello che portava, poi venduta come attrazione museale. Così come Teodora anche Ravenna ha perso il suo splendore per colpa di pochi che l’hanno venduta per i loro interessi invece di aprirla agli altri per sé stessa e per il mondo che la circonda. Così Ravenna sprofonda, non per subsidenza ma per egoismo, ignoranza e paura.
Mi chiedo allora più in generale dove si vuole arrivare se non si sa da dove si proviene.
Come potremo un giorno confrontarci con chi incontreremo se perdiamo le nostre storie. Cosa baratteremo al mercato quando i soldi saranno finiti e passati di mano?
Diventeremo più curvi sotto il peso della fatica e guarderemo per terra seguendo il sentiero che qualcuno avrà disegnato per noi, il sudore e il sangue renderanno la terra ancora più umida delle lacrime versate e solo dopo km di fatica qualcuno troverà la voce per intonare un canto che diventerà un coro.
Dobbiamo aspettare che accada tutto questo per aprire gli occhi e agire?

Io, vorrei un giorno poter fermare il mondo delle cose e delle persone in movimento, aspettare che si calmi il vento e proferir parola.
Una parola!
Allora una leggera brezza solleverebbe la mia parola e la porterebbe un po’ più in là all’orecchio di un’altra persona che come me l’ascolta e la passa nuovamente. Così di bocca a orecchio, da uomo a donna, da città a deserto, le parole si bagnano come panni in acqua e si seccano come pozze al sole, perdendo forma ma conservando impronta.
Vorrei sapere quale parola, o quali parole, mi tornerebbero all’orecchio.
Magari … : – Ma cosa stai cercando? La tua Maria? –

 

Riguardo al PERCHE’, a parte le ovvie motivazioni economiche, è estremamente semplice, perché lo so fare.

 

musica intro del film INSIDEMAN

 

Buio.
iguar
.

(*) Questo è evidentemente un copione, anzi «un canovaccio» con tutte le sue imperfezioni che vengono corrette in scena e le improvvisazioni che (siamo o no tutte/i eredi della «commedia dell’arte»?) l’autore introduce ogni volta. Nelle prime rappresentazioni Enrico ha dialogato in scena con un amico chitarrista e questo resta lo schema preferito. Chi è interessato a questo spettacolo (racconto, scherzo o dialogo «fra sé e un altro sé», come preferite) e volesse contattare Enrico mi scriva e io faccio da tramite. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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