Chi può fermare il mare?

di Francesco Masala e Mario Vargas Llosa (*)  

Il 25 agosto 1996 ho letto su «El Pais» un articolo di Mario Vargas Llosa (http://elpais.com/diario/1996/08/25/opinion/840924004_850215.html) che mi è sempre rimasto in testa, come mi restavano gli articoli di Pier Paolo Pasolini. Di Mario Vargas Llosa amo i romanzi, molti bellissimi, gli altri capolavori; lui ha poi avuto una deriva politica che non condivido per niente (nessuno è perfetto) ma questo articolo – appunto di un uomo di destra – lo sottoscrivo vocale per vocale, consonante per consonante . L’ho ritrovato tradotto in italiano e mi sembra giusto e urgente condividerlo con chi ha la curiosità di leggerlo – Francesco Masala

«Gli immigrati» di Mario Vargas Llosa (25 agosto 1996)

TEMPO fa sono stato invitato da amici a trascorrere un fine settimana in una loro proprietà de La Mancha, in Spagna, dove mi fu presentata una coppia di peruviani che si occupavano della casa. Erano molto giovani, di Lambayeque, e mi hanno raccontato le disavventure che hanno dovuto passare prima di arrivare in Spagna. Il consolato spagnolo di Lima si era negato di concedere il visto. Tramite un’ agenzia “specializzata” , per mille dollari erano riusciti ad averne uno per l’ Italia (non sapevano se autentico o falso). Un’altra agenzia si occupò di loro a Genova; fece loro attraversare la Costa Azzurra di nascosto e passare i Pirenei a piedi, per sentieri sterrati, al freddo, per la relativamente modica somma di duemila dollari. Erano da pochi mesi nella terra del Chisciotte e già si erano abituati al loro nuovo Paese. Li ho rivisti un anno e mezzo dopo, nello stesso posto. Si erano molto bene ambientati, anche perché altri 11 membri della loro famiglia di Lambayeque li avevano raggiunti e si erano stabiliti in Spagna. Lavoravano tutti come collaboratori domestici. Questa storia me ne fa venire in mente un’ altra, quasi identica, che ascoltai qualche anno fa dalla viva voce di una peruviana di New York, immigrata illegale, che faceva le pulizie presso il bar del Museo d’ Arte Moderna.

Lei aveva vissuto una vera e propria odissea, viaggiando in autobus da Lima fino in Messico e attraversando il Rio Grande bagnandosi fino al midollo. Si rallegrava di come erano cambiati i tempi: sua madre, infatti, invece del calvario da lei passato per poter entrare negli Stati Uniti dalla porta di servizio, era da poco entrata dall’ingresso principale, prendendo cioè l’ aereo a Lima e sbarcando al Kennedy Airport con documenti sapientemente falsificati in Perù. Queste persone, e tanti altri milioni che, come loro, da tutti gli angoli del mondo dove impera la fame, la disoccupazione, l’oppressione e la violenza razziale, attraversano clandestinamente le frontiere dei Paesi più prosperi, pacifici e che offrono opportunità di lavoro, indubbiamente violano le leggi, ma esercitano un diritto naturale e morale che nessuna norma giuridica o regolamento dovrebbe negare: il diritto alla vita, alla sopravvivenza, a fuggire dalle condizioni infernali a cui i barbari Governi annidati come vere e proprie cancrene in mezzo mondo condannano i loro popoli. Se le considerazioni di natura etica avessero il benché minimo effetto persuasivo, quelle donne e quegli uomini eroici, che attraversano lo stretto di Gibilterra o gli isolotti della Florida, o le barriere elettrificate di Tijuana, o i porti di Matsella, alla ricerca di lavoro, libertà e futuro, dovrebbero essere accolti a braccia aperte. Ma, poiché le ragioni che fanno appello alla solidarietà umana non commuovono nessuno, è forse meglio indicarne un’ altra, più efficace, più pragmatica. E’ meglio accettare l’ immigrazione, anche se controvoglia, perché la si accetti o no come dimostrano i due esempi con cui ho cominciato questo articolo, non c’ è modo di fermarla. Se non ci credete, chiedetelo al Paese più potente della Terra. Fatevi pure raccontare dagli Stati Uniti quello che hanno dovuto fare per chiudere agli immigrati le porte della dorata California, e l’assolato Texas a messicani, guatemaltechi, salvadoregni, honduregni, eccetera eccetera, e le coste color smeraldo della Florida a cubani, haitiani, colombiani e peruviani, e come questi riescano invece a entrare a frotte, sempre di più, beffandosi di tutte le pattuglie terrestri, marine, aeree, passando sotto, o sopra, le staccionate di fil di ferro computerizzate, costate milioni, e soprattutto sotto il naso dei super-addestrati funzionari dell’immigrazione, grazie a un’infrastruttura industriale creata per prendersi gioco di tutte quelle inutili barriere costruite dal terrore per l’immigrato, che negli ultimi anni è divenuto nel mondo occidentale il capro espiatorio di tutte le calamità. Le politiche anti-immigrazione sono condannate al fallimento, perché non risolveranno mai il problema alla radice; anzi, hanno l’effetto perverso di minare le istituzioni democratiche del Paese che le applica e di dare un’apparenza di legittimità alla xenofobia e al razzismo, nonché di aprire le porte all’autoritarismo. Un partito fascista come Le Front National di Le Pen, in Francia, che si basa esclusivamente sulla demonizzazione dell’immigrato, qualche anno fa un’ insignificante escrescenza della democrazia, è oggi una forza politica rispettabile, che trova il consenso di quasi il 15 per cento dell’elettorato. E in Spagna abbiamo assistito, non molto tempo fa, all’imbarazzante spettacolo di alcuni poveri africani narcotizzati dalla polizia per rendere meno fastidiose le operazioni di espulsione. Si comincia così, per poi finire con le famose cacce al forestiero pericoloso di cui è piena la storia universale dell’infamia, come gli stermini di armeni in Turchia, di haitiani nella Repubblica Dominicana o di ebrei in Germania. Il problema degli immigrati non può essere risolto con misure di polizia per un motivo molto semplice: perché nei Paesi a cui essi sono diretti vi sono incentivi ben più potenti degli ostacoli che li vogliono dissuadere dal venire. In altre parole, perché c’ è lavoro. Se non ci fosse, non ci andrebbero, perché gli immigrati sono sì derelitti, ma non stupidi, e non sfuggono la fame, al prezzo di infinite vessazioni, per andare a morire di inazione all’ estero. Ci vengono come i miei connazionali di Lambaeque, stabilitisi ne La Mancha perché lì vi sono tipi di lavoro che nessuno spagnolo (leggi americano, francese, inglese, ecc.) accetta di fare in cambio della paga e alle condizioni che loro invece accettano. Esattamente come avveniva alle centinaia di migliaia di spagnoli che negli anni Sessanta hanno invaso la Germania, la Francia, la Svizzera, i Paesi Bassi, portandovi energia e braccia, rivelatesi preziosissime per l’eccezionale decollo industriale di quei Paesi in quegli anni (e della stessa Spagna, per il flusso di valuta che ciò ha comportato). Questa è la prima legge dell’immigrazione, ormai cancellata dalla demonologia imperante: l’immigrato non toglie lavoro, anzi, lo crea, ed è sempre un fattore di progresso, mai di regresso. Lo storico J. P. Taylor spiegava che la rivoluzione industriale che fece la grandezza dell’Inghilterra non sarebbe stata possibile se il Regno Unito non fosse stato allora un Paese senza frontiere, dove poteva stabilirsi chiunque all’unica condizione di rispettare le leggi, investire o esportare capitali, aprire o chiudere imprese, e assumere lavoratori o trovare lavoro. Il prodigioso sviluppo che hanno vissuto gli Stati Uniti nel XIX secolo, così come l’Argentina, il Canada, il Venezuela negli anni Trenta e Quaranta, coincidono con politiche di porte aperte all’immigrazione. E lo ricordava Steve Forbes alle primarie per la candidatura alla presidenza del Partito Repubblicano, osando proporre nel suo programma di ristabilire la pura e semplice apertura delle frontiere che gli Stati Uniti praticarono nei migliori momenti della loro storia. Il senatore Jack Kemp, che ha avuto il coraggio di appoggiare questa proposta, ispirata alla più pura tradizione liberale, è ora candidato alla vicepresidenza con il senatore Dole, e se intende essere coerente dovrebbe difenderla nella campagna per la conquista della Casa Bianca. Non vi è allora nessun modo di limitare o di porre freno alla marea migratoria che, da tutti gli angoli del Terzo mondo, irrompe nel mondo sviluppato? A meno che non vogliamo sterminare con bombe atomiche i quattro quinti del pianeta che vivono in miseria, non ve n’ è alcuno. E’ assolutamente inutile spendere i soldi del povero contribuente mettendo a punto programmi, sempre più costosi, per impermeabilizzare le frontiere, perché non vi è nessun caso coronato da successo che provi l’efficacia di questa politica repressiva. Invece ve ne sono cento a dimostrazione che le frontiere si trasformano in colabrodo quando la società che intendono proteggere attrae i diseredati che le vivono intorno. L’ immigrazione diminuirà quando i Paesi che la stimolano non saranno più attraenti perché sono in crisi o saturi, o quando i Paesi che la generano offrano lavoro e opportunità di miglioramento ai loro cittadini. I galiziani oggi rimangono in Galizia e i murciani in Murcia, perché, a differenza di quaranta o cinquant’anni fa, in Galizia e in Murcia possono vivere decentemente e offrire un futuro migliore ai loro figli, migliore del rompersi la schiena nella pampa argentina o del raccogliere uva nel mezzogiorno francese. La stessa cosa avviene agli irlandesi, che non emigrano più con la speranza di diventare poliziotti a Manhattan, e gli italiani rimangono in Italia perché vivono meglio nel loro Paese che non facendo pizze a Chicago. Vi sono poi anime pie che, per moralizzare l’ immigrazione, propongono ai Governi dei paesi moderni una generosa politica di aiuti economici al Terzo mondo. In linea di principio sembra molto altruista. La verità è che se gli aiuti vengono intesi come aiuti ai governi del Terzo mondo questa politica non può altro che aggravare il problema invece di risolverlo alla radice. Perché gli aiuti che arrivano a delinquenti come il Mobutu dello Zaire o alla satrapia militare della Nigeria o una qualsiasi delle tante dittature africane serve solo a gon
fiare i conti correnti privati che quei despoti hanno in Svizzera, vale a dire per aumentare la corruzione, senza che ne possano trarre alcun beneficio le loro vittime. Se vogliamo gli aiuti, allora devono essere attentamente canalizzati verso il settore privato ed essere controllati in tutte le loro manifestazioni, per garantire che siano rispettati gli obiettivi previsti, vale a dire creare occupazione e sviluppare risorse, lontano dalla cancrena statale. In realtà, gli aiuti più efficaci che i Paesi democratici possono offrire ai Paesi poveri è aprire loro le frontiere commerciali, importare i loro prodotti, promuovere gli scambi e un’energica politica di incentivi e sanzioni per ottenerne la democratizzazione, dal momento che, come in America Latina, il dispotismo e l’autoritarismo di natura politica sono il maggior ostacolo che si trova ad affrontare il continente africano per invertire quel destino di impoverimento sistematico inaugurato dalla decolonizzazione. Questo articolo può sembrare molto pessimista a chi crede che l’immigrazione – soprattutto quella nera, mulatta, gialla o, comunque, di colore – ha in serbo un futuro incerto per le democrazie occidentali. Non lo è per chi, come chi scrive, è convinto che l’ immigrazione, di qualsiasi colore e sapore essa sia, è una iniezione di vitalità, energia e cultura, e che i paesi dovrebbero accoglierla come una benedizione. (traduzione a cura di Unimoney)

(http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/09/10/immigrati-chi-puo-fermare-il-mare.html)

(*) In questi giorni sono arrivati al blog molti interventi che, a partire dalle tragedie dei migranti nel Mediterraneo, analizzano la politica (o la non politica?) italiana e le prospettive. Troppi interventi per mantenere il ritmo di 3 post al giorno (più una «scor-data») dei quali alcuni sono appuntamenti fissi. Così ecco qui, uno di seguito all’altro, alcuni interventi legati a questa attualità. (db)

Redazione
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4 commenti

  • per quel che conta il mio parere, anche io sottoscrivo questo articolo di Mario Vargas Llosa (che comunque, anche come scrittore, ho amato un bel po’ meno di Francesco)…. salvo un punto.
    Un punto importante. Gli aiuti sono sempre una truffa, bisognerebbe piuttosto che i Paesi sedicenti ricchi (in realtà più armati) la smettessero di depredare le ricchezze del Terzo mondo. Ma questo è evidentemente tutto un altro discorso che però non toglie forza al ragionare di Vargas Llosa rispetto al migrare.

  • diverse cose:
    1) aiuti è una brutta parola, per i 10 milioni di congolesi ammazzati dai belgi non esiste indennizzo adeguato;
    2) chiamiamoli con altri nomi (aiuto fa sentire il beneficiato moralmente debitore), restituzioni o indennizzi;
    3) non si diano ai governi, ma ai privati, nel senso che, per esempio Emergency gestisca il servizio sanitario nazionale di un paese, o Mani Tese il microcredito in un altro paese, qualcuno dirà che sono limitazioni di sovranità, ma pazienza;
    4) questi interventi potrebbero essere con estinzione (o condono) del debito pubblico di quel paese (gli africani in primis), vincolati alle condizioni del punto precedente;
    5) negli anni ’60 e ’70 gli economisti (quelli che si occupavano di sviluppo e sottosviluppo) parlavano di ineguali rapporti di scambio, a proposito delle materie prime, oggi si parla di prezzi di mercato, è passata una vita;
    6) il ragionamento di Mario Vargas Llosa dovrebbe essere l’unico possibile, visto che la rivoluzione è in letargo, è coerentemente liberale, libertà di movimento per capitali, merci e persone, in questi tempi nei quali molti si sciacquano la bocca con la parola libertà, ma non per tutti, non dappertutto, non su tutto, è realisticamente egoista, io non voglio che tu vieni qui, ma non ti metto muri, né ti faccio affogare, faccio di tutto perché tu non abbia l’esigenza e /o l’obbligo di fuggire, a qualsiasi costo (il punto 3 e 4 sarebbero una mezza rivoluzione, per questi tempi.

    • Stiamo parlando di questioni diverse. Gli aiuti alla cooperazione sono una cosa (ormai QUASI solo una truffa a mio parere), gli indennizzi un’altra. Poi le parole possono essere ambigue anche perchè quelle chiare (rapina, sfruttamento, scambio ineguale, imperialismo….) non si usano più.
      Concordo ovviamente sul punto 5 e sul punto 6 mentre sui punti 3 e 4 credo che ci sarebbe da discutere a lungo e non solo per i tempi “foschi” che viviamo.

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