Chiometti, De Giovanni, Fantozzi, Pietrangeli, Tudor, la coppia …

… Arpetti-Assouad nonchè McBain cioè Lombino cioè Hunter

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

Jonathan Arpetti e Christina B. Assouad

«Leopardi si tinge di nero»

Fanucci

296 pagine, 13 euro

Macerata e Recanati. Qualche mese fa. Iniziando le pulizie al Centro Studi Leopardiani Maria s’accorge che la sala della Biblioteca non è chiusa e rinviene il cadavere del giovane da poco responsabile, Raffaele Bravetti, trent’anni, celibe (omosessuale) e residente ancora con i genitori. Dalla questura del capoluogo provinciale arrivano subito e indagano il commissario Luca Bonaventura e l’ispettrice Francesca Gentilucci, professionisti ben assortiti e ormai coppia innamorata. Luca, fra l’altro, vorrebbe che lei vada a vivere da lui ed è distratto dalle preoccupazioni della madre per una misteriosa passione del padre. I due giovani scrittori marchigiani Jonathan Arpetti e Christina B. Assouad sono alla seconda prova di efficace affiatamento; con “Leopardi si tinge di nero” narrano in terza varia un noir contemporaneo ambientato con garbo e competenza fra le tante eredità materiali, culturali, istituzionali, emotive del grande poeta, scoprendo affari di cuore e beghe amministrative.

 

Alessandro Chiometti

«Il mastino di Darwin»

Dalia

postfazione di Telmo Pievani

160 pagine, 12 euro

Perugia. Poco tempo fa. Una sera di fine febbraio la prostituta ucraina Tania (arrivata due anni prima da Minsk) viene fatta salire, cloroformizzata e infine addentata alla giugulare da un bel vampiro alto e imponente che da ormai tre secoli si gode quei momenti. Federica Buglioni coinvolge gli amici Paola, Luca e Yuri nella paura di avere casa infestata per gli strani rumori, forse è solo pareidolia acustica. Intanto il povero morditore continua ad aver bisogno di sangue umano per il suo metabolismo e il cinefilo ispettore di polizia Abramo Cantainferno si mette sulle sue tracce in giro per l’Italia. Con “Il mastino di Darwin” il controllore ambientale Alessandro Chiometti (Terni, 1972) usa il thriller come incursione narrativa per fornire dati scientifici sulla teoria dell’evoluzione biologica (il che giustifica anche l’ottima postfazione di Pievani sulle ambivalenze della natura umana), proponendoci una visione laica e pluralista in uno stile divertito e godibile (in terza varia).

 

C. J. Tudor

«Chi ha rubato Annie Thorne?»

traduzione di Sandro Ristori

Rizzoli

352 pagine, 20 euro

Nottinghamshire. Settembre 2017 (e 1992). Non lontano dai resti della leggendaria foresta di Sherwood c’è Arnhill, inospitale paesino al centro della zona delle miniere inglesi nel cupo tetro Nord, i pullman non arrivano, la stazione ferroviaria più vicina si trova a una ventina di chilometri. Joseph Joe Thorne vi era nato il 13 aprile del 1997 e vi aveva studiato, prima di subire traumi affettivi e andarsene a insegnare altrove. Lì due mesi prima sono morti in modo cruento una donna e un ragazzo, Joe riceve a Manchester una mail che lo riporta indietro nel tempo e decide di tornare con quel rottame della sua Golf. Ora, a inizio anno scolastico ha trovato posto come professore d’inglese nell’istituto che aveva frequentato, affittando proprio il cottage del recente fattaccio. Quand’era un quindicenne povero, timido e impacciato fu accolto nella banda del bello intelligente sadico bullo, insieme trovarono una botola d’ingresso ai cunicoli e un ossario di bambini. La sorellina di 8 anni li aveva seguiti con la torcia, avevano tutti avuto paura e, nella confusa fuga, Annie aveva subito un colpo e poi era scomparsa per due giorni. Al ritorno nulla era più stato come prima. Nei mesi successivi Annie sembrava come impazzita, un amico era entrato in depressione e si era suicidato, a causa di un incidente d’auto erano morti prima il padre e la stessa sorella di Joe, in seguito la madre. Ora Joe è perseguitato dai debiti di gioco e dalla killer inviata dal Ciccione per fargliela pagare, ma vuole comunque scoprire cosa era veramente accaduto 25 anni prima. Trova il bullo padrone effettivo del paesino, l’amata carina furba amica di allora moglie (malata) del bullo, l’unico figlio del bullo a spadroneggiare in classe e fra i coetanei. Viene minacciato e malmenato più volte, gira fra pub, riaffiorano suoi rancori risentimenti paure incubi, emergono malefici e segreti del villaggio, non è affatto certo che riesca a venirne fuori.

C. J. Caz Tudor è nata a Salisbury e cresciuta a Nottingham, dove vive con il compagno e la figlia. Ha lasciato la scuola a sedici anni e poi ha fatto di tutto un po’, sempre scrivendo come prima o seconda attività. Dopo l’enorme successo del romanzo d’esordio “L’uomo di gesso” (agosto 2017) torna ai lettori del globo con una seconda avvincente convulsa (e poco entusiasmante) storia narrata in prima persona al presente (con incisi sui trascorsi al passato). Il contesto è un piccolo claustrofobico centro, imperniato unicamente sulla pervasiva miniera di carbone (con i propri tanti incidenti sul lavoro e conflitti di classe), ora abbandonata da oltre un decennio, ormai desertificato e lontano da tutto. Più che criminalità metropolitana endemica vi domina la minuta sopraffazione sociale. La vecchia banda è ancora sulla bocca di tutti, una dinamica “genetica”, di cui Joe ha fatto parte per breve tempo, pur comprendendone a fondo i meccanismi relazionali. Annie e il fratello erano legatissimi, gli è stata presa (da cui il titolo) e non si è più ri-preso. Annie era una signorina piena di vita, stupidamente intelligente, insopportabilmente dolce, divertentissima e spassosa, cocciuta e frustrante. L’alto e magro Joe ha una gamba malandata e occhi scuri iniettati di sangue, niente famiglia e figli, sciatto incallito fumatore bevitore, non esattamente un eroe positivo. Anzi, il romanzo è pieno di cattivi o di cattiverie e molto fa riferimento al clima che si respira nelle scuole, colpa dei bulli da una parte, dell’apatia opportunistica dall’altra. Birra a fiumi.

 

Maurizio De Giovanni

«Le parole di Sara»

Rizzoli

348 pagine, 19 euro

Napoli. Primi mesi dell’anno. Teresa Bionda Pandolfi da sei mesi si è proprio innamorata. Chi l’avrebbe mai detto? Già ai Servizi, ora è capo di un’unità segreta e speciale, dura ed esigente, attempata pantera bionda dal corpo elastico e dalle curve da sballo, gusto per carne sempre fresca a letto, da una botta e via in vista di altri piaceri (potere, libri, vino, musica), più fragile e impulsiva di quel che sembra. Il ragazzo è bruno e bello al pari di un dio greco, occhi neri ridenti incantevoli, viso solare, si chiama Sergio Minucci, 28enne assegnista di ricerca presso l’Istituto di Diritto regionale dell’Università. Gli è stato raccomandato come stagista e lei, per la prima volta, ha mescolato vita privata e professionale. Solo che, dopo un’altra gran bella notte insieme, Sergio improvvisamente scompare, lei riceve una strana allusiva visita di un alto dirigente romano, non sa che fare, si rivolge all’amica ed ex collega Sara Mora Morozzi, occhi azzurri e tratti dolci, figura sempre minuta e capelli ingrigiti. Già pochi mesi prima l’aveva chiamata in causa un paio di volte per indagini appartate con procedure non convenzionali. Sara è appena diventata nonna, nell’ottobre precedente è nato Massimiliano, la mamma Viola è la 28enne ex compagna (vedova) del figlio, curiosa e brava fotografa. Sara possiede una sapiente peculiare caratteristica, dono o dannazione che sia: è capace di udire frasi e dialoghi a lunga distanza, affinata abilità che mescola comprensione visual-vocale delle labbra e interpretazione gestuale dei pensieri. Accompagnata da un poliziotto che già l’aveva aiutata e si è affezionato a tutti loro, il tosto e trasandato Davide Pardo, Sara cerca di capire meglio come è Sergio: va a visitare Rachele, la fidanzata ufficiale che ne ha denunciato la scomparsa; fa un giro in aule e uffici universitari, fra colleghi e studenti; cerca e incontra la mamma, con la quale formalmente vive. Dopo due giorni viene ritrovato cadavere, c’è sotto qualcosa di antico e di grosso, affari e politica.

Consolida il successo la nuova interessante serie di Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958). In attesa dell’episodio conclusivo della prima strabiliante saga del commissario Ricciardi ai tempi del fascismo (1931-32), una fine annunciata da tempo, in attesa della sincronizzazione fra televisione e letteratura della seconda collettiva serie dei Bastardi (ispirata all’87° distretto di Ed McBain), il cui ultimo episodio trasmesso anticipa sviluppi dei prossimi romanzi, Sara Morozzi risolve piacevolmente bei casi, ancora nella stessa città contemporanea del tifosissimo autore. Sara era una brillante graduata della Polizia di Stato, sposata con prole, prima di entrare nell’unità speciale e di innamorarsi del Capo, Massimiliano Tamburi, più vecchio di 23 anni, intensamente ricambiata. Lei ha vissuto e gestito nefandezze, ha abbandonato per amore un marito fedele e un pargolo piccolo, ha affittato una stanza e ha scelto un’altra esistenza, condotta con fermezza e coerenza finché è stato possibile. Poi lui si era ammalato e Sara aveva lasciato tutto, ritirata a invisibile vita privata per assisterlo. Da poco sono morti prima lui, 76enne, indi il figlio (abbandonato) Giorgio, in un incidente stradale. Non ha ancora nemmeno 55 anni, si nasconde a tutto e tutti, pur bella colta vivace. Ma ora è nato un altro Massi e l’amica di sempre si trova in vera difficoltà, la vita prende un’inedita appassionata direzione, ricomincia a fare il braccio che soccorre e punisce. La narrazione è in terza varia al passato sull’indagine, intervallata dal resoconto in corsivo di una delle prime vicende professionali di Bionda e Mora alle prime armi nel 1991, dal persistente dialogo di Sara con l’amore perso e da incursioni sulle piacevoli corse mattutine del regista del malaffare. La protagonista, pure attraverso i silenzi, custodisce parole nascoste che dicono tanto anche se non sono pronunciate (da cui il titolo). Ad aiutarla appare un vecchio collega ormai cieco e solitario, che usa in modo straordinario udito e olfatto con ottime capacità deduttive. Le descrizioni sono, al solito, accurate e toccanti: ecco un bel noir di sensi e sentimenti! Viola ama la musica degli anni Sessanta e Settanta, il buon operaio ascolta Battisti e non si fa distrarre. In coda al volume c’è il racconto (ambientato prima del primo romanzo) uscito nell’antologia “Sbirre”.

 

Ed Mc Bain

«Canicola» (originale «Heat» 1981)

traduzione di Andreina Negretti

Einaudi

280 pagine, 15 euro

Isola. Agosto dei primi Ottanta. Ed McBain, uno dei più grandi scrittori americani del Novecento, nato Salvatore Albert Lombino, si chiamò Evan Hunter (New York, 1926 – Weston, 2005) e scelse lo pseudonimo per le serie dei gialli conosciuti ovunque. Isola è Manhattan (ruotata di 90 gradi), La Città è New York, protagonista l’87° Distretto, una meravigliosa serie di 55 romanzi terminata solo con la sua morte. Dal 2017 vengono ripubblicati, due episodi per ogni decennio di attività, “Canicola” è il trentacinquesimo (1981), titolo nuovo (simile all’americano), stessa traduzione del passato. Al ritorno da Los Angeles, Anne Newman trova morto a casa il marito Jeremiah, artista fallito e alcolizzato, forse suicida in un appartamento a 40 gradi. Arrivano Carella e Kling, ci metteranno una dura settimana a capire cosa è accaduto, Bert travolto da complicazioni personali e altri casi. Imperdibile. Il primo giugno 2019 a Ruvo del Monte si parlerà delle origini lucane di Hunter, immancabile.

 

Paolo Pietrangeli

«La pistola di Garibaldi. Il problema di Giorgio Tremagi»

Biblion Milano

176 pagine, 16 euro

Davanti al mercato di Piazza Epiro (metà strada fra San Giovanni e Terme di Caracalla) c’è la libreria del 51enne Giorgio Tremagi (niente gialli, solo Simenon, con la pipa) che tira avanti grazie ai 10 tavolini interni e ai 9 del cortile esterno dove si può pure mangiare. Il rapporto con la moglie non gira bene, i libri non sfondano, le polpette della cognata Fiorella vanno alla grande. Abbiamo proprio un atipico ristorante di discreto successo: un primo diverso ogni giorno da servire comunque con la specialità della casa, a dieci euro bevande escluse. Capita però che ci sia un’indagine per omicidio nel quartiere, il cadavere con un rosario in una mano e un fallo di legno nell’altra, e Giorgio, capace di visualizzare e interpretare i sogni delle persone che ha di fronte, si trova così coinvolto nella risoluzione. Garbato e divertente l’esordio nel romanzo di genere del grande cantautore e regista Paolo Pietrangeli (Roma, 1945).

 

Federica Fantozzi

«Il meticcio»

Marsilio

332 pagine, 17 euro

Roma e altrove, in Italia e più lontano. 19 giugno-12 luglio 2017. L’intuitiva e scrupolosa Amalia Ami Pinter, sessantuno chili stabili per un metro e sessantacinque, capelli neri e lisci a caschetto, fossette sulle guance, naso sottile, occhi nocciola, fa la giornalista al quotidiano romano Il Vero Investigatore, specializzato in cronaca nera e giudiziaria in salsa nazional-popolare, con la redazione vicina alla Fontana di Trevi. Lei ha i genitori residenti in una fattoria della Maremma, abita sola in una vecchia palazzina dietro Ponte Milvio (con la testuggine Rododendra e con il nero cane Kira, appena ereditato e pure guardia del corpo), gira in città con lo Scarabeo Rosso (in alternativa alla Panda per gli esterni o alla bici per il tempo libero) e ora ha ricevuto l’incarico da parte dell’altissimo Capo Gabriele Maraschini (e forse degli stessi proprietari, una società editoriale di Montecarlo) di fare un servizio sull’aeroporto Leonardo da Vinci, uno dei non-luoghi che ama. Lì incrocia l’amico poliziotto Alfredo Pani, da poco trasferito alla Dac, Direzione centrale anticrimine, e si trova invischiata in una rischiosa indagine sui corrieri della mafia nigeriana, guidata dalla brutale sanguinaria Ascia Nera, forse ormai in combutta anche con la mafia. Viene addirittura ucciso il dentista dove era stata sotto mentite spoglie, non sa ancora bene come districarsi quando la mandano a seguire un’asta di diamanti a Palazzo Colonna. Qui un occasionale amico, Cravatta Giallo Zafferano, le fa capire dinamiche e segreti di un mondo che non conosce, combine e interessi, soprattutto rispetto a un integro rarissimo diamante rosso denominato Purple Rain (magari per un afflato rock di qualcuno nell’originario giacimento del Minais Gerais). Gli acquirenti li avevi visti anche a Fiumicino, qualcosa collega le due storie, forse il brasiliano Ezequiel Alves, la cui azienda salta intermediari e sconquassa il mercato. Violenze e sorprese non sono terminate, lo verificherà di persona anche a Siena e a Palermo.

L’avvocatessa e nota brava giornalista Federica Fantozzi (Roma, 1968) dopo i due buoni romanzi pubblicati oltre 15 anni fa ha avviato una nuova gradevole appassionante serie con protagonista una volitiva collega. Narra in terza varia su diverse scene e vicende che pian piano s’intersecano (anche in Brasile, terra di meticciati vari, da cui il titolo). Il contesto criminale, sia della manovalanza che dei poteri forti, è molto ben documentato e aggiornato. Amalia non capisce bene di chi può fidarsi, probabilmente di nessuno in quei mondi, quello affaristico, quello giudiziario, quello informativo. Dopo non essersi visti per un anno e mezzo, il rapporto con Alfredo s’intorbida e si approfondisce, lui un poco più giovane, sempre serio ma logorato, fisico scolpito e postura da judoka, capelli arancioni a spazzola e ancora acne sul viso, legati in passato soprattutto da una dinamica di reciproci attrazione e scambio: Alfredo le passava tutte le informazioni divulgabili, Amalia gli riservava un trattamento stampa favorevole. Lei per altro legge i romanzi gialli ambientati in Cina di Qiu Xiaolong e ne è condizionata. Certo, alla fine sappiamo davvero di più dei delinquenti di origini nigeriane che gestiscono traffici e prostituzione, di miniere, gemmologia, disegno di gioielli e nuovi diamanti sintetici, di Palio e di arancine. Ma soprattutto di come funzionano oggi le redazioni dei mass media, e non è un bel vedere.

 

Redazione
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Un commento

  • sergio falcone

    Paolo Pietrangeli non è un esempio di coerenza. Eppure, continuate a celebrarlo. Chi vi capisce è bravo.

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