CIA, sempre CIA, nuntereggae più
articoli di Alessandra Ciattini, Pino Arlacchi, Alessandro Orsini (ripresi da lantidiplomatico.it e ilfattoquotidiano.it)
La CIA e la cosiddetta “French Theory” – Alessandra Ciattini
Come l’agenzia di spionaggio è riuscita a creare un pericoloso clima antisovietico e antimarxista, camuffando la sua propaganda come informazione fattuale e ammorbidendo l’atteggiamento critico nei confronti della delirante politica impostasi agli albori del “secolo americano”, favorendo, inoltre, la metamorfosi delle forze politiche rappresentative del movimento operaio.
Si potrebbe affermare che nulla accade per caso: l’indebolimento del marxismo è stato prodotto da molti fattori, tra i quali anche l’intervento diretto della CIA, i cui agenti (fatto sorprendente) erano dei raffinati cultori di filosofia.
Ricordo i giorni successivi all’ammainamento della bandiera rossa dal Cremlino e la sua sostituzione con quella russa. Tutti gioivano esultanti affermando che la guerra fredda era finita e che ci avrebbe aspettato un periodo di pace e di prosperità. Per quanto mi riguarda, insieme ai membri del mio ambiente culturale, non partecipai a questa gioia, convinta che la Germania dell’est era stata praticamente svenduta e la fine dell’URSS avrebbe messo in pericolo i già difficili equilibri mondiali. Non mi vanto di aver avuto ragione anzi, speravo e di avere torto e che le mie paure fossero infondate. Invece, oggi ci troviamo alla soglie di una terza guerra che sarà probabilmente nucleare, alquanto prevedibile se si conosce la natura insaziabile del capitalismo, il cui motto può così esser riassunto “dare il meno possibile, per ottenere il massimo”, o se vogliamo una citazione letteraria, così ad un certo punto esclama in Moby Dick il capitano Akab: “Il mio movente e il miei fini sono folli, ma i miei mezzi sono razionali”. Razionali nel senso che sono adeguati all’apocalittico sterminio dell’umanità o all’uccisione della balena bianca. Tra l’altro ricordo che un bomba nucleare è anche meno cara rispetto a tutte le armi sofisticate che si stanno attualmente usando.
Si può far riferimento al bel e corposo libro di Francis Stonor Saunders (“La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti”, Fazi, Roma 1999, ora esaurito) per conoscere la battaglia culturale condotta dalla CIA in Europa, mentre negli Usa si sviluppava l’isteria del maccartismo e si progettava di bombardare numerose città sovietiche con bombe atomiche (Drop. Shot). Battaglia culturale che aveva fomentato la diffusione della cultura e dell’arte usa, delegittimando il marxismo che nel secondo dopo guerra tanta attrazione esercitiva sugli intellettuali e sulla popolazione europea interessata allo Stato socialista.
La campagna culturale della CIA è datata 1945-1967, ma in realtà si è estesa molto più avanti nel tempo con l’aiuto di altre agenzie di intelligence (e di note piattaforme informatiche) e sicuramente continua anche ai nostri giorni, che vedono profilarsi il declino dell’egemonia usa e l’emergere di nuovi equilibri internazionali. Altri documenti importanti su questi eventi si possono trovare di M. S. Christofferson, French Intellectuals Against the Left: The Antitotalitarian Moment of the 1970s (2004).
Cominciamo col confermare quest’ultima affermazione sulla base di un documento declassificato della stessa CIA, che risale al 1985, intitolato Francia. Defezione degli intellettuali di sinistra, nel quale si tesse l’elogio di Michel Foucault, divenuto uno dei leader della nuova cultura ribelle. Foucault fa parte di un noto gruppo di intellettuali libertari, anarchici, ribelli fortemente antisovietici, attratti dal maoismo, sia pure in qualche modo vicini al marxismo, quali L. Althusser, G. Deleuze, F. Guattari, J. Derrida, A. Badiou, P. Bourdieu, R. Barthes, cui poi vengono aggiunti i destrorsi B. Henry-Levy e Andrés Glucksmann. La CIA colloca questi autori, con l’esclusione degli ultimi due, in quella che lei stessa ha definito French Theory, i cui prodotti sono stati diffusi ampiamente in tutto il modo, divenendo una vera e propria moda culturale.
Il lancio del post-strutturalismo antimarxista avvenne nel 1966, quando alla Johns Hopkins University fu organizzata, con un finanziamento apportato dalla Ford Foundation, una conferenza, alla quale furono invitati per la prima volta negli Usa Roland Barthes, Jacques Derrida, Jacques Lacan e altri. Questo evento ha fatto della Johns Hopkins lo strumento di diffusione del pensiero francese contemporaneo nel Nord America. Fu organizzata senza badare a spese da René Girard, noto per la sua teoria dell’origine della società, allora presidente del dipartimento di lingue romanze e professore emerito alla Stanford University, da Eugenio Donato, ex studente laureato poi docente della John Hopkins, Richard Macksey, direttore del centro di scienze umane. Tra i relatori c’erano Roland Barthes, Lucien Goldmann (l’unico vero marxista), Jean Hyppolite, Jacques Lacan, Charles Morazé, l’ex docente della Johns Hopkins Georges Poulet, Guy Rosolato, Nicolas Ruwet, Tzvetan Todorov, Jean-Pierre Vernant, e il docente della Johns Hopkins Neville Dyson-Hudson, i già citati Donato, Girard e Macksey. Furono invitati 100 studiosi statunitensi e altri studiosi provenienti di otto paesi. La sala era gremita e alla fine si dovette allestire una trasmissione a circuito chiuso in una sala vicina.
Qualche parola su questi pensatori francesi, in primis su L. Althusser che solo in parte può esser loro accostato a questi ultimi. Il suo marxismo ha suscitato ampi dibattiti: è stato criticato per averlo privato della dialettica, dell’umanesimo, del concetto di alienazione e di aver sostenuto un maoismo tutto parigino, proprio quando ci era stato un riavvicinamento tra Usa e Cina in funzione antisovietica. Quest’ultima osservazione è stata formulata dalla studiosa marxista dell’Università statale di Mosca, la quale in un interessante libro, intitolato “Practicing the Good: Desire and Boredom in Soviet Socialism”, University of Minnesota Press, Minneapolis (2020), aggiunge che tutti questi autori, strutturalisti e post-strutturalisti così pubblicizzati, hanno in comune il disinteresse per la società sovietica, per i suoi sviluppi e la sua cultura. Essi si sarebbero fermati al 1922-1923, ossia alla scomparsa di Lenin, dopo di che tutto ciò che avviene nella società sovietica diventò per loro inaccettabile e sconosciuto.
La maggior parte di questi autori non aveva mai partecipato alle mobilitazioni dei lavoratori ed erano scettici verso i moti studenteschi, eppure sono stati propagandati dall’industria culturale e presentati come teorici radicali del ’68. Secondo Gabriel Rockhill, che costituisce la nostra fonte principale, In realtà, Foucault non partecipò al maggio, né solidarizzò con gli studenti e ciò perché aveva partecipato alla scrittura della contro-riforma universitaria gaullista fatta dal ministro Fouchet, contro cui si opponevano gli studenti. Tuttavia, egli considerato un dandy violentemente anti comunista, successivamente riconobbe il suo debito verso le mobilitazioni. Durante il maggio il centro di ricerca, diretto da R. Aron, aperto collaboratore della CIA, dove lavorava Bourdieu restò aperto e quest’ultimo continuò tranquillamente le sue attività didattiche. Derrida, studioso di Heidegger, partecipò a qualche protesta, ma si dichiarò ostile al marxismo althusseriano, allo spontaneismo degli studenti, al PCF e affermò persino che per lui il concetto di classe era incomprensibile. Da parte sua, Lacan sostenne gli studenti, fornì un appoggio finanziario e firmò petizioni, ma era assai scettico verso gli obiettivi del movimento. Barthes partecipò ad alcuni dibattiti, ma non si sentiva integrato in quegli eventi. Althusser adottò in forma moderata la posizione del PCF, secondo cui non ci si trovava in una situazione rivoluzionaria, ma sottolineò l’importanza della lotta dei lavoratori, che organizzarono in quei giorni uno sciopero di 10 milioni di persone. Lévi-Strauss definì il maggio ripugnante e si allontanò dal Quartiere Latino, teatro delle mobilitazioni. Deleuze si distinse per la sua dichiarazione reazionaria: tutte le rivoluzioni falliscono, devi essere un idiota per non saperlo.
Ma torniamo all’attività della CIA. Dal citato documento della CIA consultabile in internet (sito della stessa https://www.cia.gov/readingroom/document/cia-rdp86s00588r000300380001-5) si ricava che l’agenzia di intelligence è convinta che la cultura e la teoria siano armi cruciali per difendere e perpetuare gli interessi degli Stati Uniti in tutto il mondo, contraddicendo la visione alquanto diffusa dell’accademia. Pubblicato in seguito al Freedom of Information Act (1967), il documento sottolinea il monopolio della sinistra francese nell’immediato dopoguerra a cui, come si è visto, la CIA si opponeva con tutti i mezzi, volendo demolire l’immagine del ruolo chiave avuto dai comunisti nel resistere al fascismo e nel vincere la guerra contro di esso. Sebbene la destra, compreso il capitale usa, fosse stata massicciamente delegittimata per il suo contributo al regime nazista e ai campi di sterminio, oltre che per il suo programma xenofobo, anti-egualitario e fascista (secondo la descrizione della stessa CIA), gli agenti segreti anonimi, redattori dello scritto, esprimono tutta la loro soddisfazione per il ritorno della destra a partire dall’inizio degli anni ’70.
Più esattamente questi oscuri personaggi approvano spudoratamente, anche grazie al loro lavoro, il fatto che gli intellettuali francesi abbiano cominciato a guardare con sospetto all’URSS e al contempo ad apprezzare la cultura e la democrazia usa. In quegli anni, infatti, si registra un progressivo allontanamento dallo stalinismo e dal marxismo, mentre gli intellettuali non più engagés si disinteressano delle questioni politiche cruciali e lasciano i partiti della sinistra; processi generati dalla demonizzazione della figura di Stalin e della storia dell’URSS, su cui ancora oggi occorre fare chiarezza. A destra, invece, conquistarono spazio i cosiddetti nuovi filosofi, gli storici revisionisti, ancora oggi schierati con il nefasto imperialismo usa, i quali con un generoso sostegno hanno lanciato una campagna di diffamazione, supportata dai padroni dei media, contro la Rivoluzione francese, contro ogni movimento egualitario, contro il socialismo e il marxismo, distorcendone l’immagine e la stessa natura. Il cosiddetto intellettuale engagé alla Sartre non è più di moda e con esso viene accantonata tutta la produzione letteraria, filosofica, cinematografica interessata alla questioni sociali, in nome della teoria estetica l’arte per l’arte. I consumatori di questi prodotti intellettuali sono rappresentati da quello strato medio e piccolo-borghese, sorto nel secondo post guerra, che metteva in discussione i valori tradizionali ed era portatore di un’etica trasgressiva, che probabilmente la crisi attuale farà scomparire.
Mentre questo accadeva in Europa, i rappresentanti del cosiddetto mondo libero, ossia altre appendici della CIA, operavano nei vari continenti per rovesciare capi di Stato, per sostenere dittatori fascisti e addestrare le forze repressive, per organizzare interventi militari aperti o sotto copertura. Non si può negare che questi agenti, che lavoravano attivamente per spostare intellettuali, autori di pagine spesso oscure e contraddittorie, non certo di facile lettura, dovevano essere a loro volta degli intellettuali raffinati. Lo scopo del loro lavoro era che tale spostamento sarebbe stato utile alla politica interna ed estera statunitense, che avrebbe potuto confrontarsi con una sinistra compatibile e votata all’inazione, ben rappresentata anche dalla Scuola di Francoforte. E purtroppo avevano ragione, come possiamo ricavare dall’assenza di una costante e significativa mobilitazione contro le guerre, le catastrofi, i massacri che avvengono sotto i nostri occhi.
Un loro obiettivo primario era rappresentato da Sartre, simbolo di impegno e di atteggiamento critico, che rifiutò persino il Premio Nobel, mostrando di aver capito assai bene come funzionano le cose nel mondo della “libertà culturale”.
Gabriel Rockhill, che ha studiato a fondo questi processi, menziona una pagina di Greg Grandin, uno dei principali storici dell’America Latina, tratta da The Last Colonial Massacre. Latin America in the Cold War (seconda edizione, The University of Chicago Press 2011): “Oltre a fare interventi visibilmente disastrosi e mortali in Guatemala nel 1954, nella Repubblica Dominicana nel 1965, in Cile nel 1973 e in El Salvador e Nicaragua durante gli anni ’80, gli Stati Uniti hanno prestato un silenzioso e costante sostegno finanziario, materiale e morale a Stati terroristici contro-insurrezionali assassini. […] Ma l’enormità dei crimini di Stalin garantisce che storie così sordide, non importa quanto avvincenti, approfondite o schiaccianti, non turbino le fondamenta di una visione del mondo impegnata nel ruolo esemplare degli Stati Uniti nella difesa di ciò che oggi conosciamo come democrazia”.
In definitiva, l’immagine demonizzata, appositamente costruita dell’URSS e dei suoi leader, era ed è un ottimo strumento per giustificare qualsiasi spietatezza e violazione dei tanto sacri diritti umani, come ci insegna Rampini che ci invita a ringraziare l’Occidente di tutto quello che ci ha dato. Ingenuità o voluto inganno?
Molti degli autori citati erano stati, sia pure con posizioni diverse vicini al marxismo (peccato giovanile ritenuto veniale), lo avevano utilizzato come metodo nelle loro analisi sociologiche, poi se ne erano allontanati. Ora, secondo la CIA, per questa ragione questi autori possono essere usati perfettamente per denigrare l’ormai ingenuo ideale di uguaglianza prima adottato e difeso, di radici illuministiche. Queste critiche colpiscono i vari movimenti, soprattutto giovanili, che in nome di questo principio si battono contro la prepotenza imperialista, contro l’espansionismo della NATO, il sionismo etc.
Questa battaglia ci fa comprendere la strategia del potente servizio segreto usa volta a disgregare la sinistra marxista ovunque, pur sapendo che sarebbe stato impossibile cancellarla dalla storia, perché essa sorge dalle stesse contraddizioni del sistema capitalistico. Essa ha operato per allontanare la cultura marxista dal radicale anticapitalismo, facendola emigrare verso posizioni riformiste di centro-sinistra, più indulgenti nei confronti delle politiche estere e interne degli Stati Uniti, fino ad adottare l’attuale scandaloso atteggiamento di piena sudditanza. Mettendo in discussione l’anticapitalismo è riuscita anche a frammentare tutta la sinistra, che del resto si è trovata indebolita anche dalla dissoluzione del cosiddetto socialismo reale e dal trionfo iniziale del neoliberismo, che oggi mostra il suo vero volto. Socialismo reale, del resto ampiamente studiato dalla stessa CIA (come mostrano numerosissimi documenti), che potrebbe aver influito anche sulle sue contraddizioni.
Dobbiamo adottare questa prospettiva se vogliamo comprendere l’interesse dell’intelligence usa per gli ex marxisti che avrebbero creato una nuova teoria veramente rivoluzionaria e libertaria. Rockhill cita testualmente un’affermazione di questi agenti: “Ancora più efficaci nel minare il marxismo sono stati quegli intellettuali che, pienamente convinti, hanno cercato di applicare la teoria marxista nelle scienze sociali, ma hanno finito per ripensare e rifiutare l’intera tradizione”. In particolare, sottolineano lo straordinario contributo fornito dalla nota scuola storiografica e strutturalista degli Annales, oltre che da Lévi-Strauss e Foucault, iscritto tra il 1950 e il 1952 al PCF, allo smantellamento dell’influenza marxista nelle scienze sociali. Sempre riportando l’analisi di Rockhill, per la CIA Foucault sarebbe “il pensatore più profondo e influente della Francia”, ed è apprezzato per essersi schierato dalla parte degli intellettuali della Nuova Destra. A parere di Rockhill questi ultimi avrebbero avuto il merito per la CIA di mettere in luce le spaventose conseguenze che sarebbero state il frutto delle teorie sociali razionaliste dell’Illuminismo e dei moti rivoluzionari, che avrebbero dato vita ad una società assai peggiore di quella capitalistica. Luckács definirebbe questo metodo un’apologia indiretta alla Nietzsche, che criticando ogni possibilità trasformativa della società, ci lascia prigionieri di quest’ultima senza armi per uscirne.
In definitiva, soprattutto con l’affermazione della controrivoluzione liberista, l’agenzia di spionaggio è riuscita a creare un pericoloso clima antisovietico e antimarxista, camuffando la sua propaganda come informazione fattuale e ammorbidendo l’atteggiamento critico nei confronti della delirante politica impostasi agli albori del “secolo americano”, favorendo, inoltre, la metamorfosi delle forze politiche rappresentative del movimento operaio. Proprio in virtù di questa trasformazione quest’ultime non sono state in grado di criticare in maniera radicale -e di fatto non lo sono – i progetti imperialisti, iniziati con lo smembramento dell’Jugoslavia e che oggi ci hanno condotto all’orlo di un conflitto nucleare.
A ciò bisogna aggiungere la radicale trasformazione delle istituzioni culturali, dei media, dell’industria culturale, tutti falsamente liberi, i quali sono in grado di trasformare un autore mediocre in un pensatore rivoluzionario. Basti pensare allo straordinario successo di quel famoso libro, ancora oggi tanto citato, come “La fine della storia”, che persino l’ultimo dei giornalisti ha sempre sulle labbra.
La matrice tutta atlantista dell’omicidio Mattarella – Pino Arlacchi
La storia è sempre storia del presente. Purtroppo, mi è venuto di pensare osservando le reazioni al docu-film Magma che ricostruisce il delitto Mattarella del 1980. Il filo conduttore dell’opera è la ferma convinzione di Giovanni Falcone che si fosse trattato di un assassinio politico di matrice “atlantica”. Un caso Moro bis a meno di due anni distanza. Perché siamo nel presente? Lo siamo perché siamo in mezzo a una guerra in Ucraina la cui lampante matrice è, appunto, “atlantica”.
Matrice atlantica significa né più né meno che un’origine imperiale, radicata negli interessi e nella volontà superiori dell’impero americano. Matrice atlantica significa violazioni del diritto internazionale nel caso dell’Ucraina, e violazioni del diritto penale e della sovranità nazionale nei casi Moro, Mattarella e La Torre. Significa mettere in atto ingiustizie e degenerazioni delle istituzioni democratiche da negare e nascondere con ogni mezzo soprattutto nei campi di battaglia dei satelliti, cioè nei luoghi della sovranità limitata. Il delitto Mattarella fu un caso Moro bis perché fu uno degli ultimi capitoli italiani della Guerra fredda, avvenuta in Italia anche sotto forma della cosiddetta “Strategia della tensione”. Dico uno degli ultimi perché l’ultimo fu la strage di Capaci, accaduta dodici anni dopo ma come uno strascico della stessa Guerra fredda.
Mattarella era un uomo coraggioso, deciso a proseguire lungo il sentiero proibito dell’accordo di governo con i comunisti che era costato la vita del suo maestro. I
l presidente della Regione Siciliana era stato pesantemente avvertito – come Moro, minacciato esplicitamente da Henry Kissinger un paio di anni prima della sua fine – che il suo esperimento nell’isola violava il fattore K e lo esponeva alle sanzioni previste da Washington in questi casi. Mattarella va a Roma dal ministro dell’Interno Virginio Rognoni, suo compagno di partito e di corrente, che invece di rassicurarlo lo fa preoccupare ulteriormente. Dico questo perché la sua assistente ha confermato che il presidente era rientrato da Roma stravolto e le aveva chiesto di non parlare ad alcuno del suo incontro con Rognoni salvo la sua eliminazione fisica. E dico questo perché sono stato amico di Rognoni, il quale mi ha candidamente detto di aver consigliato Mattarella di essere più prudente e di abbassare i toni. Il vento interno alla Democrazia cristiana ormai spirava in direzione contraria, e il mini-compromesso storico siciliano era considerato come l’ultimo ostacolo alla normalizzazione post-Moro. Al rientro cioè dell’Italia nella sfera della completa fedeltà agli Stati Uniti.
Ho lavorato assieme a Falcone nel mettere insieme i diversi tasselli logici e fattuali dell’omicidio Mattarella e di quello, strettamente connesso, di Pio La Torre, avvenuto due anni dopo. Dove la matrice atlantica era ancora più pronunciata di quella del caso Mattarella, non essendoci qui alcuna seria pista concorrente da esplorare. La Torre aveva un conto aperto pluridecennale con Cosa nostra, ma la sua fine fu opera dei super-anticomunisti di Gladio e della P2 che lo odiavano per la sua battaglia contro gli euromissili in Sicilia.
Le indagini su entrambi i casi non approdarono, com’è noto, a nulla, e furono riprese da Falcone nei suoi ultimi anni, da Direttore degli affari penali del ministero di giustizia, quando era ormai privo di titolarità investigativa diretta. Le indagini furono depistate, si rivolsero subito contro il terrorismo di sinistra, e si concentrarono solo sugli esecutori.
Falcone mi disse di avere trovato una fonte attendibile interna all’estrema destra. Era venuta fuori una significativa partecipazione diretta di capimafia alla rete Gladio. C’era una base logistica Sismi a Trapani, e c’era stato un interessamento iniziale alle indagini da parte di Bruno Contrada – agente Sisde da noi ritenuto un avversario pericoloso.
In questi casi, concordavo con Giovanni, non bastava percorrere il solito processo induttivo che parte dalla scena del crimine e va verso l’alto. Non c’è mai, nei grandi delitti, “la pistola fumante”. Ci sono tanti, tantissimi indizi, e qualche prova. Occorreva perciò seguire anche il percorso inverso, deduttivo, dall’alto, reso possibile dalla caduta del Muro di Berlino e dallo “scaricamento” da parte americana di tutta la filiera andreottiana-piduista-Gladio-Servizi-Affari riservati.
Sono certo che percorrendo questo sentiero saremmo arrivati alla verità giudiziaria sui grandi delitti italiani. Ma si trattava di un sentiero già percorso, e i personaggi della connection atlantica erano in allarme rosso dopo il “si salvi chi può” lanciato da Andreotti con la sua denuncia-ricatto su Gladio del 1990. La loro risposta fu Capaci. E poi via D’Amelio.
Ho ricevuto in seguito importanti conferme dell’impronta imperiale sulle stragi avvenute prima e dopo Moro e Mattarella. Un agente Cia oggi in pensione e in servizio presso la stazione di Roma ai tempi del caso Moro, di fronte alle mie assillanti domande sul ruolo della sua agenzia mi rispose: “Non avete mai trovato prove sulla partecipazione della Cia e simili nel caso Moro, Mattarella e La Torre perché siete andati a cercare nella direzione sbagliata. Non siamo mai intervenuti direttamente perché non ce n’era alcun bisogno. Non eravate un paese del Terzo mondo dove dovevamo fare tutto noi. Avevate apparati di intelligence vasti e ben organizzati che sapevano bene cosa fare, che rispondevano a politici accorti i quali non avevano bisogno di ricevere autorizzazioni su cosa fare con chi superava le linee rosse. Era evidente che Moro, Mattarella e La Torre le avevano superate”.
Una seconda spiegazione l’ho ricevuta nel corso dei miei lunghi colloqui con Francesco Cossiga, e l’ho descritta nel mio libro su Giovanni e io. Cossiga fu l’unico politico atlantista ad ammettere apertamente l’esistenza in Italia di un regime di sovranità limitata. Secondo lui questa menomazione era giusta e necessaria. Il comunismo era un pericolo esistenziale e ci eravamo trovati perciò fino al 1989 in uno stato di guerra civile latente dove la democrazia e i diritti fondamentali, in Italia, erano stati rispettati “nei limiti del possibile”. E dove gli Usa erano l’alfa e l’omega della nostra sicurezza. La sua risposta alla mia ovvia domanda se le stragi e i delitti di Stato rientrassero in questo discorso era quella che “c’erano stati alcuni che avevano esagerato, ed erano usciti da limiti che anche in guerra bisognava rispettare”.
E la mafia? Incalzavo. “Su Moro non è c’entrava niente – rispondeva impaziente – Su Mattarella e La Torre credo di sì, ma non perché i mafiosi agissero da semplici killer. Erano ottimi amici degli Stati Uniti, anticomunisti come tutti noi, sempre pronti a compiacerci. Ma queste cose le sai, e le sapeva anche Falcone, e forse sarebbe arrivato il giorno in cui anche questo vecchietto lo avrebbe potuto aiutare. Ma è un’epoca passata, e tra qualche anno non ci sarà più nessuno in vita in grado di raccontarla a puntino. I protagonisti tutti in pensione, morti o troppo vecchi per ragionare”.
È per queste ragioni che credo non ci siano speciali segreti sepolti assieme al caso Moro, all’omicidio Mattarella, a Capaci e via D’Amelio. La verità giudiziaria completa non verrà mai alla luce perché è troppo tardi per raggiungerla. Ma una verità storico-politica convincente, sufficiente a spiegarne ragioni e significati, è già emersa, sia pure in parte, ed è su questa che occorre riflettere. Anche per capire meglio il presente.
Italia schiava della Cia da Abu Omar ad Abedini – Alessandro Orsini
Un accademico svizzero-iraniano, Mohammad Abedini Najafabadi, è stato arrestato in transito a Malpensa su mandato americano mentre si dirigeva a Istanbul con l’accusa di avere aiutato Teheran a costruire alcuni droni. Per ritorsione, l’Iran ha arrestato una giornalista italiana per uno scambio di detenuti. Sentiamo dire che l’Iran agisce in questo modo perché è l’incarnazione del Male universale. La realtà è diversa.
Per comprendere la mossa dell’Iran, occorre capire come il “caso Abedini” sia legato al “caso” dell’imam Abu Omar, rapito a Milano sotto il governo Berlusconi: uno dei casi più documentati di azione illegale condotta dai servizi segreti americani in un Paese straniero. Abu Omar fu rapito, il 17 febbraio 2003, da dieci agenti della Cia. L’imam fu portato nella base aerea di Aviano e poi condotto in Egitto, dove fu brutalmente torturato con la falsa accusa di essere un terrorista islamico. Dalle sentenze della magistratura milanese, emerge che i vertici dei servizi segreti italiani e, quindi, il governo Berlusconi, erano informati e coinvolti nell’operazione della Cia. Nel dicembre 2010, la Corte d’appello di Milano ha stabilito un risarcimento di un milione di euro per Abu Omar e di 500 mila euro per la moglie, a carico di ben 23 agenti della Cia, tutti cittadini americani. I vari governi italiani hanno sempre fornito protezione agli agenti americani, ricorrendo persino al segreto di Stato per ostacolare le indagini della magistratura.
I giudici di Milano condannarono anche agenti italiani eliminando ogni dubbio sul coinvolgimento del governo Berlusconi in questa orrenda violazione dei diritti umani contro un musulmano. Sulla base del caso Abu Omar, l’Iran pensa che il governo Meloni sia un governo “fantoccio” della Casa Bianca. L’Iran pensa che, davanti agli ordini degli Stati Uniti, l’Italia cessi di essere uno Stato sovrano e indipendente, soprattutto quando si tratta di violare i diritti umani dei musulmani.
Tornando al caso Abedini, gli abusi commessi contro quest’uomo sono evidenti. Iniziamo dall’accusa della Casa Bianca di avere collaborato con Teheran alla costruzione di alcuni droni. La logica delle relazioni internazionali dice questo: gli ingegneri americani aiutano il governo americano a costruire i droni e gli ingegneri iraniani aiutano il proprio governo a fare altrettanto. L’eventuale collaborazione di Abedini con il governo iraniano sarebbe del tutto lecita. In secondo luogo, Abedini non è stato colto a origliare dietro la porta del presidente del Consiglio. Aveva semplicemente fatto scalo in Italia verso Istanbul per la sfortuna di non avere trovato un volo diretto. In terzo luogo, Abedini non ha arrecato alcun danno all’Italia che ha deciso di incarcerarlo sulla base delle accuse fumosissime di un governo, gli Stati Uniti, in guerra con l’Iran, di cui è incolpevolmente cittadino. Dopo il caso Assange, Omar e molti altri, nessuna persona dotata di raziocinio avrebbe dubbi sul fatto che Abedini, una volta negli Stati Uniti, subirebbe un processo farsa, i cui presupposti giuridici sono già posti in tutta la loro assurdità. Eccoli: siccome il governo americano considera il governo di Teheran un governo di terroristi, allora tutti gli iraniani sono potenziali terroristi, anche se hanno semplicemente avvitato un bullone di un drone. Negli Stati Uniti vige la legge, non ci sono dubbi, ma alcune leggi sono assurde perché sono concepite per la guerra, non per la giustizia.
Antonio Tajani ha esortato a non parlare della vicenda. Un invito anomalo giacché, nelle società libere, i ministri non decidono quali temi trattare e come trattarli. Crosetto, invece, ha invitato a non sollevare l’indignazione contro l’Iran perché: “Questi problemi, purtroppo, non si risolvono con lo sdegno popolare”. Ma l’intento di quest’articolo non è suscitare indignazione contro l’Iran, bensì contro il governo Meloni. Tajani invita al silenzio non per tutelare la giornalista italiana, ma se stesso, ché la vergogna è grande. Il governo Meloni mette in pericolo gli italiani per eseguire un ordine della Casa Bianca funzionale alle guerre americane. La Casa Bianca ha spinto l’Italia in guerra con la Russia. Adesso pretende che l’Italia faccia la guerra all’Iran con un’operazione simile, nella logica di fondo, al caso Omar. Abedini sta subendo un abuso intollerabile in una società libera e andrebbe liberato. Prostrato dietro le sbarre, la sua sofferenza è ingiusta e ingiustificata come quella della giornalista italiana. Quest’uomo è stato sottratto alla famiglia in un Paese ostaggio degli Stati Uniti. Questo è chiaro agli iraniani. Molto meno a certi giornalisti mainstream che, afflitti da smisurati complessi di superiorità, non si accorgono nemmeno quando l’Italia opera in modi simili alle dittature.