Ciclosofia, appunti sui miei viaggi in bicicletta

di Pierluigi Pedretti

Premessa

Nel 1936 in un articolo dal titolo “Tecnica del cicloturismo” (Le vie d’Italia, numero 8: mensile del Touring CLub) con dovizia di particolari si descrivevano tecniche e bici tra le più adatte a percorrere le strade italiane dell’epoca: «La diffusione dell’autoveicolo ha diminuito la considerazione di cui godeva un tempo la piccola regina della strada. Ma per quanto nel campo della locomozione si sia giunti a un grandissimo progresso, nessuno può, nemmeno oggi, negare che la bicicletta resti una delle più mirabili (e utili) conquiste dell’ingegno umano».

Oggi che va di moda rendere “cool” ogni cosa, si preferisce parlare di “ciclosofia” per raccontare sostanzialmente le stesse cose che vedevano i nostri antenati dell’era fordista. D’altra parte, trionfando la filosofia pop, non ci si meravigli se Didier Tronchet, in «Piccolo trattato di ciclosofia» possa scrivere che «La ciclosofia è l’insieme delle idee, delle intenzioni e delle sensazioni nate sulla bicicletta», come se fosse un’assoluta novità questo “nuovo umanesimo” indotto dalla bicicletta, quando altro non è se non la “mens sana in corpore sano” degli antichi romani vista dalla postmodernità. 

Questa che leggete in basso è l’Introduzione a un testo che potrebbe un giorno divenire libro, fatto di narrazione e di viaggi (in bicicletta) su e giù per la mia regione. Alcune di queste ricognizioni (*) sono apparse su “la bottega del Barbieri”.

Io sono la mia terra

I miei nonni con figli a carico viaggiarono per lavoro e costrizione (dal fascismo), giungendo in Calabria molti anni fa. Quanta apprensione suscitò quel viaggio! La madre di mia nonna temeva per la loro vita: gli abitanti di quella regione lontana avevano brutta fama. Giravano armati di coltello, erano irascibili e rissosi. Erminia e Luigi lasciarono il Trentino con il dolore, abbandonando affetti amicali e familiari. La nostalgia per la terra perduta fu fatta propria da figli e nipoti.

Fin da bambino ho ascoltato storie ibride fatte di racconti di laghi e montagne davanti al tabiel fumante di polenta condita con pocio di carni preparata dalla nonna, oppure di briganti e tesori ammucchiati mentre mia madre, affettava supressate per gli ospiti che stavano arrivando. Ricordo ancora quando nei lunghi giorni d’inverno trascorrevo pomeriggi meticciati tra casa dei nonni, dove ascoltavo in lingua trentina saghe familiari del freddo Nord, mangiando strudel di mele o torte di latte, e casa materna, dove le comari si raccoglievano attorno al focolare a raccontarsi nel calabrese più aspro le vicende paesane, assaggiando susumedde e turdiddi.

La Calabria degli anni ’60 era una terra in cui, nonostante l’emigrazione, le aree interne erano ancora popolate e legate ad una dimensione spaziale e temporale, in cui i torrenti erano tali e non canali nascosti da muri e asfalto; dove le case non erano anonime dimore di ferro e cemento; dove le strade erano spesso percorse da animali da soma; dove i vicoli erano nicchie per giochi di bimbi. C’è voluto tempo per capire che la mia regione è terra tormentata, un territorio difficile, di scarse pianure e di selvagge montagne, segnato da terremoti e alluvioni, attraversato nei secoli da invasioni, saccheggi, violenze di ogni genere, che hanno provocato lutti e povertà. Impossibile restarne immuni.

Oggi, la regione vive una profonda crisi demografica. A causa dell’emigrazione giovanile e delle scarse nascite ha ormai meno di due milioni di abitanti. Non è solo una delle terre più povere dell’Unione Europea, ma è anche quella con uno dei più alti tassi di criminalità organizzata. Tutti gli indicatori che misurano lo sviluppo e la qualità della vita la posizionano costantemente agli ultimi posti.

L’antropologo francese Marc Augè, ne «Il bello della bicicletta», ha scritto: «I nuovi flaneurs, con il vento in faccia, hanno fatto una doppia scoperta: si sono resi conto con meraviglia che la città è fatta per essere guardata, per essere vista, che è bella fin dalle sue strade più modeste, e che è facile da percorrere». Allo stesso modo io, per narrare la mia “polis”, la mia terra, la mia comunità, ho voluto guardarla col vento in faccia, col sudore delle salite, col freddo delle discese, col sapore in bocca del caffè ristoratore alla ricerca dell’antica bellezza nascosta tra le pieghe del brutto.

Fra i testi composti nel mio girovagare ho selezionato quelli prevalentemente scritti “intorno al mio luogo natìo”, in ricognizioni avvenute in un decennio.

I grandi scrittori della cosiddetta fantascienza sociologica ci hanno insegnato che le grandi storie non nascono viaggiando nell’outer space, oltre le stelle, perché spesso basta guardare molto più vicino, all’inner space, per capire quanto la vita sia troppo fragile, complessa e problematica per non provare a ricostruire quelle trame di dialogo necessarie per le nostre atomizzate esistenze.

Il pedalatore, allora, non si facoinvolgere dalla frenesia del mondo, dal suo disordine, dai luoghi esotici, anzi muovendosi con più calma potrà raggiungere inedite dimensioni conoscitive, che si credevano perdute e che invece si potranno riconquistare: osservare i paesaggi mutevoli da punti di vista nuovi, fermandosi in luoghi prima ignorati e parlando con le persone che si incontrano per le strade più isolate e impervie.

Nel 1794 Xavier de Maistre in «Viaggio intorno alla mia camera» scriveva: «No, più non debbo tenere il mio libro in petto; eccolo, o signori, leggetelo. Ho impreso e compito un viaggio di quarantadue giorni intorno alla mia camera. Le osservazioni importanti che in esso m’è avvenuto di fare, il piacere continuo che da esso ho tratto, mi dovevano a desiderare di pubblicarne la descrizione, la certezza di essere utile a molti mi vi ha determinato (…) Ogni uomo sensato, io non ne dubito, vorrà appigliarvisi, di qualunque indole, di qualunque temperamento egli sia. Avaro o prodigo, ricco o povero, nato sotto la zona torrida o presso il polo ei può viaggiare, com’io ho viaggiato».

(*) vedi per esempio Tirreno

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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