Cile: la battaglia dei lavoratori del mare

di David Lifodi

C’è stata una lotta, nel Cile profondo, che è passata sotto silenzio e invece merita di essere raccontata: è quella sviluppatasi tra la fine del 2013 e tutto il mese dello scorso gennaio e riguarda lo  sciopero de los trabajadores portuarios (i portuali) di Mejillones, Antofagasta, Coloso ed Esperanza (regione di Antofagasta, nel nord del paese), mentre Cile e Perù attendevano con ansia l’esito del verdetto pronunciato dalla corte internazionale dell’Aia sui confini marittimi tra i due paesi, che poi si risolverà con una sentenza favorevole a Lima.

Lo sciopero dei portuali, appoggiato quasi esclusivamente dal sindacalismo rivoluzionario (Unión de Trabajadores Portuarios de Chile, Portuarios Unidos e Frente de Trabajadores Portuarios) e da alcuni partiti extraparlamentari (Partido de Trabajadores Revolucionarios e Alternativa Obrera), ha avuto inizio il 23 dicembre per protestare contro le disastrose condizioni salariali, lavorative e contrattuali dei portuali cileni, paradigma di un turbo capitalismo ormai di casa nel paese andino, dove lo sfruttamento sul posto di lavoro in un settore cruciale dell’economia cilena, quello delle esportazioni, è un fatto quotidiano. Sui lavoratori del porto Angamos di Mejillones, così come sui portuarios degli altri scali portuali del paese, né la destra né la ex Concertación (adesso Nueva Mayoría) hanno portato avanti delle politiche mirate per metter fine alla precarizzazione e alla terziarizzazione del lavoro, legittimando così i comportamenti antisindacali condotti dall’impresa portuaria Ultraport. Appartenente alla holding Ultramar, fondata nel 1952 da Albert Von Appen, un tedesco da sempre legato al regime nazista, Ultraport è stata rilevata dai figli Sven e Wolf, sorta negli anni della dittatura pinochettista e divenuta presto un impero con la sua presenza in ben venti porti del paese. Tanto per far capire che tipo di personaggi sono i fratelli alla guida dell’impresa, uno di loro pochi giorni dopo la vittoria di Michelle Bachelet alle presidenziali cilene affermò che se la presidenta non fosse stata in grado di far girare l’economia sarebbe stato necessario l’avvento di un nuovo Pinochet. Peraltro, c’è da notare che il Código Laboral cileno fu varato proprio sotto il regime di Pinochet e da allora la sua struttura originale non è stata granché modificata nemmeno dai governi della Concertación succedutisi alla guida del paese dal ritorno in democrazia, così come lascia perplessi il fatto che le sparate dei Von Appen non siano mai state quantomeno censurate dalle istituzioni democratiche cilene. Le imprese portuali godono di un’ampia discrezionalità in materia di contratti da sottoporre ai lavoratori. Il contratto permanente è assimilabile al nostro a tempo indeterminato, ma quello eventuale, imposto alla maggior parte dei portuali, è a termine, e la strategia di Ultraport, per far fallire scioperi e manifestazioni, è stata quella di negare un tavolo di negoziazione comune tra permanentes ed eventuales, con il preciso scopo di far deflagrare una guerra tra poveri, senza però riuscire nell’intento. La precarizzazione dei contratti eventuales è tale che si apre e si chiude ogni giorno al termine delle 7 ore e mezzo di lavoro previste. In pratica, si tratta di lavoratori che prestano la loro opera come dipendenti a tutti gli effetti, ma non vengono chiamati a lavorare consecutivamente, in modo tale che non abbiano diritto agli indennizzi utili per gli scatti ai fini pensionistici e nemmeno alle ferie pagate. Nei porti cileni esistono migliaia di lavoratori che si trovano in questa situazione, vincolati ad una legge a totale vantaggio delle imprese, che necessitano di portuali con esperienza e al tempo stesso non sono obbligate a corrispondere loro il dovuto dal punto di vista previdenziale e pensionistico. Inoltre, il Código Laboral vieta gli scioperi di solidarietà, quelli cioè degli altri porti del paese in appoggio ai lavoratori di Mejillones, ma questo non ha impedito che ben nove scali fossero paralizzati: si tratta di un aspetto significativo e che potrebbe avere un forte impatto su tutta la classe operaia e lavorativa cilena. Non è mancata, infatti, la solidarietà attiva di minatori e studenti, vedi anche l’alleanza strategica già andata in scena nel corso delle mobilitazioni portuali nella primavera 2013 e significativamente denominata alianza estratégica de la clase obrera minero-portuaria, al pari dell’alleanza obrero-estudiantil avvenuta in occasione delle proteste studentesche. Inoltre, di fronte al discutibile silenzio della Central Unitaria de Trabajadores (Cut, il sindacato corrispondente più o meno ai nostri confederali, dove la direzione è nelle mani degli uomini vicini a Michelle Bachelet), i portuali hanno sperimentato un nuovo modo di fare attività sindacale, maggiormente democratico e orizzontale, sull’esempio delle assemblee studentesche e su quello del popolo mapuche. Sull’altro lato della barricata il mondo imprenditoriale ha più volte cercato di percorrere la via della serrata, andandoci molto vicino in più di una circostanza. La Confederación de la Producción y el Comercio, sindacato giallo e filopadronale, fin dall’inizio dello sciopero ha posto l’accento sulle perdite milionarie che il blocco dei portuali avrebbe causato all’economia del paese e sul danno d’immagine causato al Cile a livello internazionale. La Confederación Nacional de Dueños de Camiones e Chile Transporte hanno chiesto un immediato intervento del governo per gli stessi motivi, mentre Fedefruta, una sorta di Confindustria del mercato orotofrutticolo, ha stimato le perdite in milioni di dollari per ciascun porto in cui lo sciopero ad oltranza aveva bloccato la produzione. Tutti hanno definito lo sciopero “illegale” e, purtroppo, dal loro punto di vista non avevano torto. Il Codice del Lavoro varato dalla dittatura militare riconosce, ancora oggi, come scioperi legali, solo quelli che si svolgono nel segno di una negoziazione collettiva di tutte le parti, cioè alle condizioni dei padroni del vapore. Al contrario, la lotta portuale ha permesso al Cile di conoscere una nuova forma di radicalità, dove sia i lavoratori precari sia quelli garantiti non si sono rassegnati allo sfruttamento lavorativo imposto loro da Ultraport, e del resto gli scioperi portuali nel paese andino hanno una lunga e forte tradizione, a partire da quello del 1903 di Valparaiso. La repressione della polizia è stata durissima e, di concerto con le guardie armate di Ultraport, ha attaccato più volte, e con violenza, l’accampamento dei lavoratori del Puerto Angamos di Mejillones, il centro della protesta, presto estesasi agli scali portuali di Iquique, Antofagasta, Tocopilla, Chañaral, Huasco e Caldera. La militarizzazione di Mejillones, causata dall’invasione del porto con carri armati, pattuglie della polizia e l’utilizzo dei rompehuelgas (corrispondenti ai nostri crumiri), non è riuscita a sgomberare le barricate degli scioperanti. La situazione si è sbloccata a fine gennaio con la vittoria dei portuali: è stato definito un trionfo per l’unità di tutti i lavoratori perché Ultraport e più in generale tutte le imprese del settore, hanno dovuto accettare il reintegro di tutti i lavoratori licenziati a seguito delle mobilitazioni. Inoltre, Ultraport è stata obbligata a corrispondere a ciascun lavoratore il pagamento di un buono di circa 2700 dollari. La stessa Ultraport, la statale Codelco (la maggior produttrice mondiale di rame) e Fedefruta hanno capito che se il blocco fosse continuato ad oltranza avrebbero avuto la peggio.

“La battaglia dei lavoratori del mare”, così è stato definito lo sciopero dei lavoratori cileni, ha avuto un esito positivo e rappresenta un primo passo in un paese ancora contrassegnato da una pesante eredità della dittatura, come emerge dal Codice del Lavoro o dalla stessa legge che serve tuttora ad incriminare i mapuche per terrorismo.

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