Cile: le barricate dell’Isola di Chiloé contro l’industria del salmone

di David Lifodi

Il conflitto sociale che, negli ultimi mesi, ha visto contrapposti pescatori, ambientalisti e società civile dell’Isola di Chiloé da un lato e le imprese del salmone (sostenute dallo Stato cileno) dall’altro, è passato quasi del tutto inosservato, ma invece esemplifica bene il concetto di sfruttamento intensivo del territorio secondo il concetto delle multinazionali e degli stati.

Sorto in maniera inaspettata, soprattutto per le imprese e per lo Stato, il movimento sociale di Chiloé ha indicato le multinazionali come principali responsabili della marea roja, la proliferazione nel mare di microalghe che contengono tossine letali se consumate da molluschi e, di conseguenza, dagli esseri umani. La marea rossa è stata provocata dallo sversamento in mare di cinque tonnellate di rifiuti composti da salmoni e trote in decomposizione che hanno alterato profondamente l’ecosistema dell’arcipelago chilota. La contaminazione del mare era già stata prevista dai biologi diversi anni prima dell’arrivo della marea rossa, poiché già allora era evidente che lo sviluppo industriale delle salmoneras era ampiamente condiviso dai governi che si sono susseguiti alla guida del paese e dalle autorità locali. Migliaia di pescatori hanno visto andare in fumo la loro attività, mentre dalla Moneda non veniva dimostrato alcun interesse per risolvere quella che andava configurandosi come una vera e propria emergenza ambientale e lavorativa. È in questo contesto che nell’arcipelago chilota si è accesa la rivolta: quattordici barricate in diversi punti dell’isola per dire basta alle salmoneras, all’estrazione mineraria e per rivendicare il diritto di pesca in un mare libero dall’inquinamento e in grado di poter dare da vivere ai pescatori. A partire dalla presidenza di Ricardo Lagos (Concertación), il Cile si è trasformato nel secondo paese al mondo per produzione ed esportazione di salmone, ma dal punto di vista economico, a beneficiarne sono state solo le imprese, in particolare quelle norvegesi, mentre i pescatori si sono sempre dovuti accontentare di bassi salari, oltre ad essere costretti a lavorare molto spesso in condizioni di sfruttamento. Il ruolo della comunità ha svolto un ruolo fondamentale nel costringere il governo ad aprire quantomeno un tavolo di trattativa di fronte ad un movimento sociale che ha fatto della difesa culturale, sociale e ambientale del territorio la propria bandiera. Ai picchetti, ai blocchi stradali e alle barricate spesso il governo ha risposto con la forza inviando i carabineros. “Dalla marea rossa alla marea umana”, hanno detto gli attivisti chilotas, evidenziando la costruzione di un processo autonomo, comunitario e orizzontale da parte degli abitanti dell’arcipelago.  Las salmoneras son pan para hoy pero hambre para el mañana, ha sostenuto il Sindicato Nacional de Trabajadores del Instituto de Fomento Pesquero, esprimendo la propria solidarietà agli abitanti dell’isola di Chiloé e contestando lo sviluppo industriale del territorio che tanto piace ai governi cileni. Se il mare finisse per trasformarsi in un deserto marino sarebbe la fine soprattutto per i pescatori artigianali, che già stanno pagando un prezzo altissimo a causa dello sfruttamento intensivo del mare. A questo proposito, va evidenziato che il Cile non solo sta eludendo la propria Costituzione, che in teoria garantirebbe il “diritto a vivere in un ambiente libero dall’inquinamento”, ma anche la dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992, incentrata sullo sviluppo sostenibile. Fin dall’epoca pinochettista, in particolare tra il 1974 e il 1980, il Cile ha condotto un processo accelerato nella pesca industriale del salmone, nel segno del processo di totale liberalizzazione dell’economia nazionale che prevedeva la svendita di tutte le risorse nazionali (comprese quelle marittime) al mercato globale. Oggi l’industria del salmone ha profondamente trasformato la vita degli abitanti dell’isola, trasformando Chiloé in una colonia marittima nelle mani del capitale straniero, che non l’ ha considerata come uno spazio umano e culturale, ma come una zona da adibire alla propria sovranità produttiva. Per il capitale internazionale, ciò che risultava più attraente dell’Isola di Chiloé, oltre alle favorevoli condizioni ambientali, era la possibilità di poter contare su una manodopera a basso costo e non cosciente dal punto di vista politico e sociale. Al contrario, nonostante il sostegno dello Stato, le imprese di certo non si immaginavano di trovarsi di fronte una popolazione che avrebbe chiesto conto del motivo per cui le multinazionali si appropriavano impunemente dei beni della Repubblica cilena,dal mare ai pesci.

Le barricadas encendidas dell’Isola di Chiloé, comunque vada a finire un conflitto che si preannuncia di lunga durata, rappresentano una delle molteplici esperienze di autogoverno e di autonomia dell’America Latina.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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