Cile: «se non è femminista…
… non è vera mobilitazione sociale»
È uno degli slogan coniati dalle femministe cilene che hanno assunto un ruolo di primo piano nelle proteste contro il presidente Piñera ponendo al centro delle mobilitazioni (che si susseguono dal 18 ottobre scorso) la battaglia contro il patriarcato e le denunce delle violenze commesse dai carabineros.
di David Lifodi
Foto: Socialismo o Barbarie
La recente, e ancora non terminata, mobilitazione cilena contro il presidente Piñera, il rifiuto del neoliberismo e di un sistema sociale profondamente ingiusto hanno visto i collettivi delle donne in prima linea. All’interno dei movimenti sociali, le organizzazioni popolari femministe hanno condotto una vera e propria campagna di sensibilizzazione contro il patriarcato e il machismo che ha conquistato l’appoggio anche degli studenti delle scuole e delle università private del paese.
In particolare, ha riscosso un grande successo in tutto il paese il flash mob di inizio dicembre, denominato “Uno stupratore sulla mia strada”, di fronte allo stadio nazionale di Santiago del Cile, tristemente famoso all’epoca del colpo di stato di Pinochet per essere stato trasformato in un luogo di torture commesse anche contro le donne. Promosso su twitter con l’hashtag #lastesissenior, il flash mob è stato organizzato da donne con più di 40 anni ed ha fatto riferimento anche alle molteplici violenze commesse dai carabineros sulle manifestanti arrestate in occasione delle iniziative di protesta che si susseguono dal 18 ottobre scorso.
“Se non è femminista non è una vera mobilitazione sociale” hanno sostenuto le donne scese in piazza in questi mesi. Come ha riportato Pressenza, a proposito della richiesta di una nuova Assemblea Costituente, le femministe cilene, riferendosi ai politici restii ad approvare una nuova Costituzione dove la rappresentanza di uomini e donne sia paritaria, hanno dichiarato: “Non vogliamo che il tuo popolo mi rappresenti nell’Assemblea Costituente. Dobbiamo essere presenti. Lo stupratore sei tu”. Giovani femministe e donne che hanno partecipato alle mobilitazioni degli anni precedenti hanno espresso inoltre il loro dissenso contro il disegno di legge sostenuto dal presidente Piñera, volto ad arrestare coloro che partecipano alle marce di protesta con il volto coperto e a condannarli a pesanti pene detentive.
Il protagonismo femminista all’interno delle organizzazioni popolari cilene tuttavia non sorprende.
Già dal 2017 la combattiva Coordinadora feminista 8M convoca ogni 8 marzo una “giornata di protesta plurinazionale femminista”, denunciando la violenza istituzionale che sono costrette a subire le donne e la comunità lgbtq. Eppure Isabel Plá, ministra de la Mujer y Equidad de Género e appartenente al partito Unión Demócrata Independiente, che annovera tra le proprie fila un gran numero di simpatizzanti di Pinochet, più volte ha negato di aver raccolto denunce delle manifestanti sulle violenze dei carabineros nei loro confronti dallo scorso mese di ottobre. A smentirla, tra i tanti episodi di questo tipo accaduti, quello del 6 novembre, quando una scuola superiore di Santiago promosse l’occupazione dell’istituto e, per tutta risposta, la preside chiamò la polizia che sparò 20 colpi di armi da fuoco all’interno del liceo causando diversi feriti, tra cui anche studentesse. L’occupazione intendeva sollevare l’attenzione sulla recente legge Aula Segura, che permette ai presidi di espellere gli studenti impegnati nella militanza politica.
Il ministero della Mujer y Equidad de Género sembra essere totalmente slegato da ciò che sta accadendo nelle strade e nelle piazze del paese, come denunciato anche dalle Abogadas Feministas de Chile, attivatesi assieme al movimento stduentesco a seguito delle molteplici denunce dell’Instituto Nacional de Derechos Humanos, che informa in maniera indipendente sulla repressione di stato.
La capacità di autoconvocarsi, di dichiararsi in Estado de rebeldía ha riscosso, fin dal 2018, ben prima dell’autunno caldo cileno, l’appoggio delle giovani delle scuole superiori e delle universitarie, figlie della generazione cresciuta sotto la dittatura di Pinochet che reclamava l’urgenza della democrazia non solo nel paese, ma anche tra le mura domestiche. È in questo contesto che l’identità femminista si è rafforzata, creando sconcerto in seno al Centro de Madres de Chile (Cema), istituzione sorta nel 1954 e presieduta, dal 1973, da Lucía Hiriart, moglie di Augusto Pinochet. Il Cema riuniva oltre 45mila donne, tutte spose di generali, ufficiali e funzionari del regime ed aveva un’impostazione cattolica e ultraconservatrice, all’insegna della morale, delle buone maniere, della patria e dell’idea secondo la quale le spose erano esclusivamente al servizio dei mariti.
Le donne del Cile che oggi scendono in piazza non chiedono soltanto una nuova Costituzione in cui rappresentino il 50% della sua composizione, ma anche verità e giustizia per le violazioni dei diritti umani a cui sono state sottoposte. Il Cile, nel 1996, aveva aderito alla Convenzione di Belém, che sanciva il diritto delle donne a vivere una vita libera dalla violenza grazie all’impegno dello Stato. Gli attuali governanti, ma anche quelli precedenti, sembrano averlo domenticato, o forse non ne sono mai stati conoscenza.