Cittadinanza: sarà la volta buona?

Il percorso è arduo e riservato a una ristretta percentuale di coloro che sono nati o cresciuti in Italia. La legge in vigore, la 91 del 1992, è quella da cui partire.
di Stefano Galieni (*)

Si torna a parlare di riforma della legge sulla cittadinanza. Il percorso è arduo e riservato ad una ristretta percentuale di coloro che sono nati o cresciuti in Italia. La legge in vigore, la n.91 del 1992, è quella da cui partire. Trent’anni fa le condizioni demografiche del Paese erano diverse, si era diventati Paesi di immigrazione ma la legge approvata accentuò l’impronta iure sanguinis su cui è fondata da sempre l’Italia. In base al testo è cittadino per nascita (articolo 1) «il figlio di padre o di madre cittadini; chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi …. È considerato cittadino per nascita il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza».
Per determinare la cittadinanza, poi, occorre il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale della filiazione durante la minore età del figlio. «Se il figlio riconosciuto o dichiarato è maggiorenne conserva il proprio stato di cittadinanza, ma può dichiarare, entro un anno dal riconoscimento … di eleggere la cittadinanza determinata dalla filiazione». In pratica se si è figli di cittadini immigrati, al compimento del diciottesimo anno si può chiedere la cittadinanza italiana, opzione valida anche per coloro per i quali la paternità o maternità non può essere dichiarata, «purché sia stato riconosciuto giudizialmente il loro diritto al mantenimento o agli alimenti». Si può poi divenire italiani per adozione e si stabilisce che «lo straniero o l’apolide» figlio di un genitore, o di almeno un ascendente in linea retta, italiano, lo diviene se presta servizio di leva (oggi abolito), è assunto alle dipendenze dello Stato, o risiede legalmente da almeno due anni in Italia, al raggiungimento della maggiore età e dichiara, un anno prima, di voler acquisire la cittadinanza. Chi in Italia ci è nato e vi ha risieduto legalmente (altro problema) e senza interruzioni fino ai 18 anni diventa cittadino a condizione che lo dichiari entro un anno dalla maggiore età. Si può poi divenire italiani per matrimonio, ma con tempi e modalità modificate negli anni a causa del timore dei “matrimoni di comodo”.
La cittadinanza è preclusa se si è incorsi in delitti non colposi che prevedano pene non inferiori ai tre anni di reclusione, o di un anno in caso di condanna emessa da un Paese straniero (reati politici esclusi) ma riconosciuta in Italia. La cittadinanza è negata qualora esistano «comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica». Questo offre una discrezionalità tale da trasformare un diritto in concessione per la cui approvazione hanno mandato di indagine anche gli organi di sicurezza. Chi scrive ebbe a che fare con un regista algerino, sfuggito ai gruppi islamisti, ma a cui venne negata la cittadinanza italiana perché avrebbe potuto recare problemi di sicurezza. Da vittima a pericolo da allontanare.
La cittadinanza si “acquista” con decreto del ministero dell’Interno su richiesta dell’interessato, che va presentata al sindaco del Comune di residenza. Questa poi va inoltrata al prefetto competente per territorio o, se ricorrono i presupposti, all’autorità consolare. Il ministero può, alla fine dell’esame, respingere l’istanza, con decreto emanato su parere conforme del Consiglio di Stato e l’istanza respinta può essere riproposta cinque anni dopo. C’è la possibilità che il presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato e su proposta del ministero dell’Interno, possa concedere la cittadinanza sia sulla base di quanto già riportato, sia a chi è apolide, cittadino comunitario e in caso di meriti dovuti a eminenti servizi all’Italia. Altrimenti la richiesta al capo dello Stato va presentata dopo dieci anni di residenza regolare. Le istanze per la cittadinanza si pagano, oggi si tratta di 266 euro con l’aggiunta delle spese di tutti i documenti che occorre far arrivare dal Paese di origine. Il decreto di concessione della cittadinanza ha effetto se, entro sei mesi dalla notifica, si presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle leggi dello Stato.
Una curiosa nota di tragica attualità. «Il cittadino italiano che, durante lo stato di guerra con uno Stato estero, abbia accettato o non abbia abbandonato un impiego o carica pubblica, o abbia prestato servizio militare per tale Stato senza esservi obbligato … perde la cittadinanza italiana al momento della cessazione dello stato di guerra». Ovviamente ci sono norme che consentono di riacquistare la cittadinanza, con alcune limitazioni. In sintesi si può chiedere di diventare cittadini italiani se si è maggiorenni, per concessione, dopo dieci anni di permanenza regolare e ininterrotta in Italia, avendo una propria occupazione e una residenza. Ai dieci vanno aggiunti gli anni in cui il ministero dell’Interno avvia indagini di ogni tipo prima di emettere il verdetto. Chi ha lo status di rifugiato può fare la richiesta dopo cinque anni, segue trafila.
Da anni, forze sociali e politiche, hanno provato a modificare la normativa considerandola inadeguata. Nel 2011 il mondo dell’associazionismo, dei sindacati, degli attivisti anche di seconda generazione, provò a raccogliere firme per una campagna, L’Italia sono anch’io. Non si era ancora nel vortice xenofobo e si raccolsero circa 200mila firme, su due propose: una per dimezzare i tempi per divenire italiani, l’altra per garantire, con la ratifica del capitolo C della Convenzione di Strasburgo (1992), l’accesso all’elettorato attivo e passivo alle elezioni amministrative a chi risiedeva qui da almeno cinque anni. La seconda proposta venne cestinata, la prima subì una torsione politica e culturale. Si parlò, errando, di ius soli, quando le prospettive si restringevano per chi, figlio di emigranti, era nato e cresciuto in Italia o ci era giunto con un età minore di 12 anni. Il testo, che comunque avrebbe favorito, nel 2015, almeno 850 mila minori, giunse alla Camera dove subì una ulteriore stretta. Potevano accedervi solo coloro che avevano almeno un genitore in possesso della Carta di soggiorno (ossia era soggiornante regolarmente da almeno cinque anni e con reddito). Ma anche questo sistema, che venne chiamato ius soli temperato, si arenò. Approvato alla Camera non giunse mai in Senato. Si sviluppò un misero dibattito pubblico secondo cui le donne che fuggivano sui barconi, spesso in condizioni di gravidanza, lo facevano per avere i figli italiani e non per sfuggire alle violenze. Le forze del centro sinistra non ebbero il coraggio di portare in aula il testo e la legislatura si chiuse senza un nulla di fatto. Unica chance per accelerare i percorsi erano i meriti sportivi.
Da pochi giorni è passato, in commissione Affari costituzionali, col voto contrario di FdI e della Lega, of course, un progetto di riforma della normativa vigente presentato dal presidente della Commissione, Giuseppe Brescia, del M5s, chiamato “ius scholae”, che prende le distanze dal troppo “impegnativo” ius soli. Si tratta di emendamenti alla vecchia legge, di cui si conserva l’impianto. Il primo, propone che: «Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia e che, ai sensi della normativa vigente, abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana. La cittadinanza si acquista a seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da entrambi i genitori legalmente residenti in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale, all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, da annotare nel registro dello stato civile. Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza».
Il secondo emendamento afferma: «Qualora non sia stata espressa la dichiarazione di volontà, l’interessato acquista la cittadinanza se ne fa richiesta all’ufficiale dello stato civile entro due anni dal raggiungimento della maggiore età». Un elemento è interessante: «Gli ufficiali di anagrafe sono tenuti a comunicare ai residenti di cittadinanza straniera, nei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno di età, nella sede di residenza quale risulta all’ufficio, la facoltà di acquisto del diritto di cittadinanza …, con indicazione dei relativi presupposti e delle modalità di acquisto. L’inadempimento di tale obbligo di informazione sospende i termini di decadenza per la dichiarazione di elezione della cittadinanza».
Il bicchiere è sicuramente mezzo vuoto, tanti sono coloro che resteranno esclusi e nulla cambierebbe per gli adulti, in caso di approvazione, ma almeno si aprirebbe una breccia. Hillary Sedu, avvocato del foro di Napoli, è fra coloro che più hanno voluto questa riforma: «Me ne sento un po’ genitore. Ci ho lavorato con Gherardo Colombo partendo da un’idea di Gabriella Nobile (fondatrice dell’associazione Mamme per la pelle). La riforma della legge è stata per troppi anni oggetto di scontro politico. Abbiamo capito che insistere sullo ius soli infastidisce eppure la 91/1992 provoca storture quotidiane – spiega Sedu -. La legge permette di studiare, ragionare, padroneggiare una lingua come se si fosse cittadini ma, al compimento dei 18 anni ci si ferma. Noi siamo andati in “pellegrinaggio” dalle forze politiche, parlando con tutti. Lo abbiamo fatto sapendo che il tema anima le campagne elettorali. Abbiamo trovato un punto di mediazione positivo con Forza Italia. Più a destra, coerenti nella loro follia, ad oggi restano contrari».
A essere poi esclusi sono ancora i genitori e gli adulti in genere, anche su questo Sedu ha da dire: «Finché coloro che pagano le tasse non avranno diritto di voto, sarà difficile cambiare le cose. Se si ratificasse completamente la Convenzione di Strasburgo, per quanto riguarda il diritto di voto alle elezioni amministrative, anche la politica si dovrebbe rapportare in maniera diversa al tema. Va ribadito il “no taxation without representation” vero fattore di integrazione sociale. Sono fiducioso e ci arriveremo. Intanto evitiamo che anche questa proposta si impantani al Senato prima della fine della legislatura».
Più ampio l’approccio della Campagna “Dalla parte giusta della Storia”, che riprende le istanze del 2011 e cerca di proporre, ancora non in forma di legge, percorsi pensati su quattro diversi criteri, intorno ai quali riformare strutturalmente la legge: per chi nasce in Italia, per chi ci cresce, per chi vi risiede stabilmente, immaginando infine norme transitorie per chi altrimenti sarebbe escluso. Ma cosa ne pensano gli interessati? Malik Ousmeh ha 20 anni e vive a Roma in un’occupazione abitativa: «Se la riforma passerà, sarò contento per chi ne avrà beneficio. Io sarò escluso. A scuola non ci sono andato, i miei sono incasinati con i documenti, non hanno reddito e residenza. Servirà un’altra riforma o, ma devo decidere, chiederò l’anno prossimo la cittadinanza, io che sono arrivato nel 2012. Sempre che la destra non blocchi tutto». Muna Khorzom, rifugiata siriana, da anni impegnata per aiutare chi arriva, è pragmatica: «Lavoro in una scuola a Torino in un quartiere che è a rischio di emarginazione sociale, che ospita residenti di etnie diverse e dove il 35% sono ragazzi e ragazze che hanno meno di 20 anni. Lavoro con classi primarie e secondarie di primo grado sul tema dell’inclusione sociale e della prevenzione della dispersione scolastica. Mi piange il cuore a parlare di inclusione sociale con ragazze e ragazzi cresciuti qui, che hanno assorbito la cultura italiana e si sentono italiani ma non sono riconosciuti come tali dal Paese che dovrebbe garantire i loro diritti – chiosa Khorzom -. Lo ius scholae, per loro, e per tante altre persone, è un primo passo verso un’Italia più inclusiva, perché qui non si parla di “meritarsi” la cittadinanza italiana, ma di un diritto che deve essere riconosciuto».
Un libro, un film o un link
Il nostro paese, è un docufilm realizzato dal regista Matteo Parisini, in cui sono presenti otto protagoniste: Alessia, Ana Laura, Anna, Ihsane, Insaf, Marya, Rabia e Sabrine (in ordine alfabetico), ragazze nate da genitori stranieri che vivono in diverse città italiane, ne parlano i dialetti, vivono lavorano e studiano, sono nate o cresciute in quelle realtà, ma non sono ancora riuscite ad avere la cittadinanza italiana. Il documentario è visibile su Raiplay e ne andrebbe imposta la visione a coloro che continuano ad opporsi alla riforma di una legge ingiusta. Alcune delle protagoniste neanche hanno mai visto il Paese di provenienza eppure sono ancora in attesa di ottenere la cittadinanza italiana (il docufilm è del 2020). Buona visione e auguriamoci che almeno per loro il futuro non sia bloccato dalla miopia della classe dirigente di questa Italia.
(*) Fonte: Left
Redazione
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