Civitavecchia: uscita dal carbone o…

fuga dalla verità? E nasce un «comitato per il NO al carbone e NO alle fonti fossili»

di Mario Agostinelli (*)

NASCE UN COMITATO PER UN “PHASE OUT” DAL CARBONE SENZA TUFFARSI NEL GAS

Mario Silvestri racconta un episodio che svela la furbizia della classe dirigente quando è messa di fronte a decisioni ineludibili, in cui si affanna a salvare capra e cavoli. Eravamo nel 1957, ed era in palio il lancio del nucleare in Italia. A una riunione ufficiale negli States viene chiesto al professor Medi, alto funzionario del ministero, «lei inclina verso i reattori ad uranio naturale o verso quelli ad uranio arricchito?». Dopo un minuto di silenzio, Medi pronunciò la sua sentenza: «Enriched» (arricchito; NDR). Ma la domanda era precisa: «Quanto?». E in un soffio venne la risposta: «Just a bit» (un pochino; NDR). (v. http://www.fisicamente.net/SCI_SOC/index-1586.htm).

L’aneddoto si ripropone a proposito della dismissione del carbone alla centrale di Civitavecchia. La SEN emanata nel 2017 dal governo Gentiloni prevedeva la dismissione di tutti gli impianti di produzione di energia dal carbone entro il 2025. L’AD di ENEL – Francesco Starace – aggiungeva che Enel Green Power sarebbe stata in grado di installare 2500 Megawatt di rinnovabili all’anno per raggiungere il target di zero emissioni di CO2 con 10 anni di anticipo rispetto all’obiettivo previsto dall’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Ma nella campagna elettorale in corso, a Civitavecchia i candidati sindaci e i loro referenti al governo fanno un po’ come Medi 15 lustri fa, farfugliando promesse – un “pochino” di gas al posto del carbone – che, sul litorale tirrenico, si può temere siano “da marinaio”.

Proprio perciò si è costituito il 17 Marzo in una affollata assemblea cui ho partecipato un comitato per NO al carbone e No alle fonti fossili, che spiazza completamente le offerte di Enel di chiudere col carbone magari al 2025 (cosa peraltro buona e auspicabile) per sostituire però l’offerta di potenza elettrica con un po’ di MW a gas fossile. Dietro al vago “just a bit”, c’è qualcosa di ben più corposo: l’approdo di navi metaniere al porto di Civitavecchia, la giustificazione della TAP in Puglia, la prospettiva di non rendere sostitutive ai fossili le energie rinnovabili e di non attivare un sistema decentrato al posto di quello centralizzato del petrolio, del carbone e ora del gas.

L’assemblea di Civitavecchia è stata chiarissima nel definire i suoi obiettivi: salute (in Europa si stima che solo gli impatti sanitari connessi alla combustione del carbone costino 62 miliari di euro all’anno) come aspetto primario per chi vive nella bellissima area litorale e marina (siti archeologici, agricoltori, operatori turistici, operatori dell’energia, pescatori e pesci compresi) e nuova occupazione nelle fonti rinnovabili distribuite, aggregabili in forme di proprietà cooperativa, sviluppate con il sostegno di centri di ricerca e di nuove professionalità qualificate e stabili, collegate attraverso lo sviluppo delle reti intelligenti per l’innovazione e per i nuovi servizi ai clienti. Per il comitato dovrà esserci un immediato anche se graduale passaggio tra la produzione di energia elettrica avvenuta per decenni in modo tradizionale e l’impegno dell’ENEL e del governo alla bonifica, a mantenere in loco siti per la ricerca e per la produzione a impatto ambientale pari a zero, con un saldo occupazionale positivo. Il phase out dal carbone va quindi accompagnato non solo dall’esclusione di un intermezzo riservato al gas, ma anche da un’ampia riconversione delle attività portuali, della mobilità e da piani industriali inquadrati un piano energetico per la città che ancor oggi non è mai stato presentato.

D’altra parte, appare anche dal punto di vista economico azzardata l’insistenza su fonti fossili in un sito già provato da pesante degrado. Alla fine del 2017, la Banca Mondiale ha annunciato che non finanzierà più la prospezione e la produzione di petrolio e gas dopo il 2019 e che la promozione di sistemi di energia rinnovabile decentralizzati sarà al centro della sua strategia energetica (v. http://www.rinnovabili.it/energia/idrocarburi-banca-mondiale-finanziamenti-fossili/ ). E sono molteplici le iniziative di “disinvestimento fossile”, annunciate a più riprese da banche, gestori di fondi, multinazionali, governi locali, con cui abbandonare progressivamente quei settori industriali maggiormente esposti alla perdita futura di remunerazione.

Lo stesso Comitato di Civitavecchia ha colto come il tema dei posti di lavoro come effetto della riconversione non possa essere eluso. Lo slogan coniato è: «i lavoratori vogliono essere al tavolo e non nel menù», poiché si tratta di «fare la transizione con la gente, non contro la gente». E le soluzioni ci sono: efficienza energetica; diffusione delle energie rinnovabili; mobilità pulita, sicura e connessa; competitività industriale e economia circolare; infrastrutture e interconnessioni; bioeconomia.

Questa battaglia va unificata con quella per rilanciare le rinnovabili. Secondo Legambiente (vedi www.comunirinnovabili.it) per la prima volta dopo 12 anni nel 2018 in Italia è calata la crescita di energia pulita, prodotta da solare, eolico, bioenergie, e procedono a passo lento anche gli investimenti nel settore. Tutto ciò mette a rischio gli obiettivi al 2030 per il nostro Paese che, paradossalmente, si conferma tra le nazioni con le maggiori opportunità sul fronte delle rinnovabili grazie a risorse fossil-free diffuse e differenti da nord a sud.

Questo è un pessimo segnale per il governo gialloverde, oltremodo litigioso su tutto e rivolto nelle sue dispute ben lontano dall’ansia con cui scenderanno in manifestazione il 24 maggio gli studenti di tutto il pianeta.

Confortati non dai governi, ma – si rifletta su questo – dalle inedite dispute all’ordine del giorno delle assemblee degli azionisti delle società energetiche. Greenpeace ha svolto manifestazioni davanti ai Lloyds di Trieste e ha così monopolizzato anche gli scambi tra la dirigenza e gli azionisti di Generali preoccupati degli investimenti nei fossili. Non solo quelli tradizionalmente critici, perché a porre domande sul modus operandi del Leone di Trieste in relazione al global warming sono stati anche una mezza dozzina di azionisti “ordinari”. Durante poi l’Assemblea degli azionisti ENEL Re:Common ha ottenuto che il governo italiano si sieda a un tavolo per negoziare dettagli concreti per rendere concreta la fase di dismissione del carbone, in particolare per quanto riguarda i due principali impianti che la compagnia ha, per una produzione totale di 4,5 GW, a Brindisi Sud e a Torrevaldaliga Nord (Civitavecchia). Ci sono timori che l’Enel non sia soltanto alla ricerca di una deroga ma, sulla base dell’approccio già impiegato dalla tedesca RWE, stia utilizzando tali negoziati per chiedere alcune compensazioni. E’ evidente come l’eliminazione degli impianti a carbone sia materia altamente conflittuale: la trasformazione di questi impianti in nuove centrali a gas appare come un escamotage per vanificare il protagonismo e la presa di coscienza di studenti, lavoratori e cittadini in una fase di acuta crisi dell’intero pianeta.

(*) ripreso dal blog di Mario Agostinelli su «Il fatto quotidiano» on line

 

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