Clara Sereni: volevamo essere diverse…

… dalle nostre madri, ci siamo scoperte mogli devote.

A tre giorni dalla morte della scrittrice, la “bottega” ripropone questa intervista di Barbara Bonomi Romagnoli (*)

Essere una giovane donna fra il 1968 e il 1977 in Italia. Esserlo in una famiglia autorevole di origini ebraiche e progressiste e decidere di andare a vivere da sola nel centro di Roma, in un punto che è paradossalmente difficile da spiegare anche ai tassisti, pur essendo ad una manciata di metri da piazza del Popolo e dall’Ara Pacis, da Piazza Navona e dal Pantheon. Un luogo prezioso dove prendere confidenza con il resto del mondo, facendo fatica a mettere insieme l’affitto e la cena ma senza dolersene troppo, con l’esuberanza che ti permettono i vent’anni. Quando tutto è possibile e tutto – il lavoro, l’amore, la militanza politica – è ancora da provare e sperimentare. Una tana sgangherata che diventa una casa per tante e tanti, tutti quelli che busseranno alla porta negli anni per una spaghettata, una cantata, un letto dove stare. Un indirizzo che è diventato il nuovo libro di Clara Sereni, Via Ripetta 155 (Giunti, 200 pagine, 14 €), romanzo autobiografico in cui Sereni parla di sé e della sua generazione in maniera schietta, sincera, liberatoria. È un libro in cui si respira una bella aria, che non è solo quella degli anni in cui si è provato a cambiare il mondo, ma è anche quella di chi ripensa a quel periodo con appassionata malinconia e senza rimpianto nostalgico. È un racconto pungente, vivace, ritmato dalla musica popolare del Folkstudio di Roma, a cui Sereni ha dedicato tempo ed energie, ed è soprattutto una scrittura essenziale, che va dritta al punto. Anche quando è doloroso, anche quando i tempi precipitosamente mutano e dallo spazio collettivo si torna ad un orizzonte privato.

Iniziamo dalla fine, chiude il suo scritto dicendo «con tutte le utopie e le speranze ancora – colpevolmente – intatte». Perché «colpevolmente», a cosa si dovrebbe riferire un eventuale senso di colpa?
A tutto quello che già bisognava cominciare a capire. Per esempio, che i «compagni che sbagliano» avrebbero devastato il nostro modo di fare politica, e la stessa possibilità di partecipare a manifestazioni di piazza. Per esempio, sul piano personale, l’illusione convinta di essere una donna nuova, diversa radicalmente da ciò che le nostre madri erano state, quando tutt’al più ero una donna abbastanza emancipata. Per farmi capire con chiarezza: se oggi faccio un bilancio della mia vita, viene fuori che le scelte più importanti sono state determinate, in maniera neanche granché originale, da un’istituzione decrepita e ineludibile, la famiglia. Se me lo avessero detto allora, se me lo fossi detto allora, magari qualcosa di più sarei riuscita a cambiare.

Cosa avrebbe voluto cambiare?
Avrei fatto un po’ meno la moglie devota, e invece su questo mi sono interrogata poco. Non ho messo in dubbio quel modo di stare insieme, che cambia anche con l’arrivo di un figlio. A distanza di anni mi dico che alcuni atti di devozione me li sarei potuta risparmiare.

A proposito di famiglia, e del familismo di cui è intrisa la nostra società, non crede che si possa pensare ad un altro modello di convivenza?

Penso che la famiglia sia sicuramente un po’ cambiata, ma sono meccanismi incistati, ci vorranno secoli prima di avere una trasformazione più profonda. Leggevo un articolo di Concita De Gregorio che dice che dovremmo imparare a trattarli male questi uomini, mentre siamo sempre pronte a consolare.

Via Ripetta è una autobiografia collettiva a partire da sé, uno dei cardini del movimento femminista. Mi spiega meglio quale è stato il suo incontro con i movimenti delle donne che nel testo è solo accennato?
L’incontro diretto è stato molto breve, direi che non ci siamo piaciuti. Quindi nessuna militanza specifica, ma so bene di dovere comunque molto al movimento delle donne, a partire dalla scrittura. Un libro come Casalinghitudine continuo a viverlo come una sorta di plagio: ho solo acchiappato lo spirito del tempo, qualcosa che era nell’aria. Nell’aria delle donne.

In alcuni episodi, un compagno detta le regole per tutti e il gruppo anche se non è d’accordo acconsente. Perché?
Perché era lui il leader, aveva quel tanto di carisma di fronte al quale tutti e tutte si mettevano in riga. E di fronte a un leader, dovunque collocato, c’è sempre chi si inchina un po’, anche perché contestarlo – io l’ho fatto – costa generalmente molto caro.

Non crede che rispetto a questo, alle relazioni fra e nei sessi, la sinistra abbia ancora molto da imparare? Perché c’è sempre la figura maschile vista come un leader o come colui che detta la linea, anche nei luoghi di movimento che volevano/vogliono abbattere il «padre»?

La sinistra ha fatto passi avanti e passi indietro. Lo stesso movimento delle donne, dopo essere stato fattore di cambiamento, oggi appare comunque sotto tono, sia a livello teorico che a livello rivendicativo. Ma sono cocciutamente convinta che la questione femminile sia un fiume carsico: prima o poi riemergerà, e sarà una sorpresa importante. Peraltro, oggi chi si rivolta vuole abbattere il padre perché di madri, di donne che governano e decidono in giro ce n’è ben poche.

Gli anni che racconta sono, nel finale, anche quelli della lotta armata, qual è la sua opinione sulla scelta di quelle donne e uomini che arrivano a quella scelta da un percorso in parte uguale al vostro?
È una scelta che non ho condiviso allora e men che meno condivido oggi. Però sono consapevole che poteva capitare anche a me, se si fossero date alcune condizioni. Prima fra tutte le capacità di aggredire, che proprio non mi appartiene, ma soprattutto alcune condizioni storiche: vicende famigliari, vicende di lavoro, etc.

Quanto conta secondo lei per l’emancipazione di un/una singolo/a il punto di partenza familiare, lo status, la classe di appartenenza? Cosa ha ricavato dalla sua esperienza, che è stata anche «fuga» da una famiglia in qualche modo «ingombrante»?

La mia famiglia era ingombrante un bel po’, soprattutto mio padre. Ma mi ha dato un senso di appartenenza che considero un privilegio: potevo fare la dattilografa o la baby-sitter, potevano chiamarmi solo per nome come avviene per i più umili sottoposti, ma io sapevo chi ero, e in qualche modo anche dove potevo arrivare. In questo senso, credo che una sicurezza di partenza serva eccome per compiere passi verso l’emancipazione. Ma è anche vero che una famiglia «comoda» rischia di essere una trappola, per le poche spinte verso l’autonomia che può esprimere sia la famiglia che il singolo/a.

Centrale nel decennio che racconta è il ruolo della musica, di quei canti di lotta che portavate nelle piazze. Cosa è rimasto ora nella sua vita di quell’esperienza?

È rimasto l’amore: li sento ancora, qualche volta perfino ne canto qualcuno. Con quella dolenzia del cuore che riguarda ogni amore perduto.

Lei ha avuto in seguito anche esperienza di governo della città, è stata vicesindaca negli anni Novanta: in che cosa secondo lei la politica delle donne può fare la differenza?
Senza mitizzare e senza generalizzare, penso che più donne nelle stanze dei bottoni non possano che far bene alla politica e all’amministrazione. Non foss’altro perché senza le donne manca un pezzo di pensiero, manca un occhio su due, le scelte sono orbe. Restituire alla società la sua interezza, già questo sarebbe un passo fondamentale. Sapendo che le donne non sono tutte uguali, che possono far bene e far male, sempre però mettendo in gioco una funzione materna che è il sale della terra: ce n’è bisogno, se ne sente la mancanza.

Non crede che sia scivoloso parlare di «funzione materna»?
Ci sono donne che non sentono il desiderio di essere madri e giustamente rifiutano la retorica sul materno che è onnipresente.

Per funzione materna intendo la capacità di cura che hanno le donne, che credo ci sia indipendentemente dai figli, anche quando non si è madri.

Ma non crede che questa «cura» andrebbe presa in carico da entrambi i sessi, che andrebbe in qualche modo redistribuita, soprattutto quando si parla di cura dello spazio pubblico?

Finché nella stanza dei bottoni ci sono poche donne credo che non sia possibile. Abbiamo bisogno di massa critica altrimenti non si sposta nulla. Si può cooperare certo, ma da una posizione di forza, non di debolezza come ci troviamo ora.

pubblicato su 27Ora-Corriere della Sera e poi ripreso in “bottega” nel marzo 2015

 

 

 

 

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