Clelia Farris – L’appuntamento

Mi piace passeggiare in città nei pomeriggi di fine settembre. L’aria è morbida,  tiepida e luminosa. I passanti camminano mollemente, come se avessero le ginocchia piegate, si fermano a osservare i fulgori delle rose nelle aiuole; gli automobilisti ti cedono il passo anche se non attraversi sulle strisce, il barista ti serve fischiettando il miglior caffè della tua vita, le vetrine, gli alberi, i vestiti e le coscienze sono scintillanti di nuova letizia.
È stato in uno di questi pomeriggi che ho incontrato Elena. Immaginatevi una pelle così bianca che le si potrebbero contare le vene, labbra rosa sulle quali il rossetto è inutile, capelli morbidi come peluria di castagne e occhi brillanti da giovane gatto.
Sperduta tra gli scaffali di una libreria, cercava un testo di esoterismo o di cabala, non ho mai capito la differenza, mentre io mi ero fatto incuriosire da un libriccino che si intitolava Il giocatore. Però sfogliandolo era saltata fuori la noiosa storia di un tale che giocava alla roulette e perdeva sempre. A parer mio non si può affidare il proprio denaro a una ruota che gira, non c’è alcun controllo degli eventi, l’unico gioco degno di essere giocato è il poker.
Le carte cambiano, trasformano il destino e l’ammontare del gruzzolo, mentre tu valuti il rischio e decidi se lasciare, rilanciare o fingere che l’emozione di un full non ti stia facendo il vuoto dentro. Questo è il momento più pericoloso, perché il vuoto lascia spazio all’immaginazione e un bravo giocatore non deve fantasticare, deve calcolare.
Mi avvicinai a Elena e con voce professionale le chiesi: “Posso aiutarla?” Un bluff. Avevo ancora in mano Il giocatore: se cercava un testo serio, affidabile e di bell’aspetto, glielo consigliavo caldamente. Lei puntò e decise di vedere, ma l’intero piatto fu mio.
Elena è il mio esatto opposto in tutto, arriva in ritardo agli appuntamenti, spariglia le scarpe per la casa come un principiante le coppie, parla quando sarebbe meglio passare. Se volete avere un’idea di come è organizzata la mia testa dovete aprire il mio armadio: giacche a destra, camicie a sinistra, calze arrotolate nei cassetti, cravatte che non scivolano dagli appendini.
Mia madre, ogni volta che vado a trovarla con Elena, mi prende in disparte e mi chiede con voce tremula: “Come hai potuto metterti in casa un’estranea?” Io replico con un sorriso, ma dentro di me non riesco a darle torto, perché è vero che dividiamo la casa, l’automobile, i pasti, gli svaghi e il letto, ma c’è qualcosa di Elena che mi sfugge. Cercate di capirmi, io sono in grado di leggere i pensieri dei miei avversari da una rughetta a lato della bocca o da un battito delle ciglia, colgo un’esitazione in fondo agli occhi di un volto marmoreo, e allora perché la fronte tersa di Elena non mi parla?
Questi pensieri mi colgono spesso mentre facciamo l’amore. Sono sbalordito dal suo ombelico; non è una cavità, è un abisso del quale non si vede il fondo. Ci sarà un fondo? Ogni volta che lo sfioro rabbrividisco, la lingua non arriva a percepire le grinze finali del calice, ma ciò potrebbe significare soltanto che ho la lingua corta.
Oppure la mattina, mentre mi rado, la spio dallo specchio; lei si fa la doccia e io vedo l’acqua che scivola sulla sua pancia, scompare in quella voragine per poi ricomparire subito dopo, ma chi mi assicura che l’acqua che esce sia la stessa medesima acqua che è entrata?
Una notte mi sono chinato sull’ombelico di Elena e baciandolo mi ha preso una vertigine. Sono precipitato nel baratro, ma l’aria morbida di settembre mi sosteneva come un paracadute. In fondo, in fondo, a ginocchia piegate, c’era il tempo di osservare i fulgori delle rose, Elena e tutte le mie passate giornate di settembre, il vialetto della segreteria dell’università, i riflessi sul parabrezza della prima automobile, le mie mani infantili che rastrellano il piatto, l’odore di pollaio della scuola…
Sono atterrato in una piazza assolata, la luce mi impediva di aprire gli occhi e facendomi schermo con le mani ho cominciato a correre verso una strada alberata in cerca di ombra e nell’affanno mi è parso di vedere i miei genitori che entravano in una clinica. Vago da un portone all’altro, guardando i numeri civici, finché al 67 entro, salgo una scala liberty, suono un campanello. Una cortese segretaria mi fa accomodare, mi chiede se ho l’appuntamento. “Certamente!” replico, sicuro della menzogna. Mi introduce in un corridoio, sul fondo c’è una porta aperta, un anziano signore mi attende. Mi attende da molto tempo, mi attende da tanto di quel tempo che ho paura sia in collera con me per il ritardo.
Ma vedo l’ombra di un sorriso sulle sue labbra, gli occhi intelligenti e pronti, gli occhiali, i baffi bianchi. Sorrido anch’io stringendogli la mano. È Gustav Jung.

 

Clelia Farris – Pubblicato il suo nuovo romanzo: “La pesatura dell’anima” edito da Kipple Editrice.

 

 

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per informazioni e invio testi:
clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo       – onig1@libero.it
 

 

Clelia

2 commenti

  • Marco Pacifici

    Ecco. Mi ci mancava solo questo in una sera che me imbottirei de clorato de potassio acido solforico e me farei bombare… Ci mancava solo questo per prosciugarmi le ultime lagrime che ho…cazzo di mondo dimmmerda…

  • ginodicostanzo

    Un finale inaspettato… molto ben scritto.

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