Clementina S.Ammendola – Ci sei sempre stata

by Razvan Berbecaru

Buenos Aires, ci sei sempre stata nel mio cuore, esagerata, ricordo.
Buenos Aires, più ti guardo più mi meraviglio, perché non sei più lontana. E mi preparo, da straniera ancora, e mi lascio fare.
E il giorno prima, come un rito, vado a farmi la piega, da Marilyn che conosce molto bene – hanno fatto le scuole superiori insieme – alla mia amica Stella e Marilyn ha il suo locale a cinquecento metri da dove abito ora per un po’, nel quartiere di Palermo. Ora intendo dire che abito qui fino al 28 giugno. E Marilyn vuole che si pronunce il suo nome con l’accento nella Ma, mi ripete più volte Stella. Così farò, rassicuro.
Quando arrivo la Marilyn già sa tutto o quasi tutto di me e vuole farmi la tinta o qualcosa del genere, “colore su colore” mi ripete 10.800 volte. Intanto comincia il lavaggio. Io sorrido, e cambio discorso. Se la Marilyn mi chiede se ho mai provato con il colore, le rispondo che vorrei una piega che mi duri almeno tre giorni. Quando lei afferma che ho troppi capelli bianchi per la mia età, io le comunico che a casa, quando mi lavo i capelli da me non li asciugo con il phone. Poi quando la Marilyn insiste che con il colore nei capelli potrei sembrare quindici anni più giovane, le racconto che negli Anni ’80 mi facevo la permanente e ho ancora la foto della patente con quei ricci finti che spaventano. La Marilyn alla fine sa fare la piega. Lisci, leggeri, illuminati rimangono i miei capelli. Pago, e mi fa lo sconto, ringrazio e saluto con un finto arrivederci.
E il giorno stesso, il due giugno, devo presentarmi alle 9.30 come dichiarato da Marina al telefono qualche giorno prima. E arrivo presto, come il mio solito, arrivo quaranta minuti prima e aspetto al bar che c’è all’angolo, al bar gestito da peruviani. Mi siedo ad un tavolino rotondo a due passi dalla porta d’entrata, chiedo un caffè piccolo. Osservo e mi osservo mentalmente e noto che ho messo le scarpe colore rubino comprate al mercato di via Secondo, Torino. Le calze grigie con delle righe nello stesso colore e la gonna grigia, comprate ancora a Vicenza, in qualche negozio credo. Poi ho dei gemelli di lana, manica trequarti, rossa confetto, comprati al mercato di Santa Rita, Torino. Giacca che mi copre il sedere di colore verde oscuro, molto oscuro, giacca usata regalata da una amica di Torino, che non la portava più o forse non ci stava più dentro, ora non ricordo bene. L’intimo regalato dalla mia amica pugliese che ora abita a Collegno; amica che mi ha regalato anche dei trucchi per il viso; sono truccata discretamente, spero. L’orologio regalato dalle amiche romane e gli orecchini con tanti cuoricini, regalati dalla mia amica vicentina, che abita a Vicenza nel Villaggio del Sole e braccialetto colorato di tagua regalato dalla mia amica dell’Ecuador che abita a Genova. Sono pronta, dopo il caffè piccolo, sono pronta con la mia borsa di tessuto nero comprata a Vicenza. E cammino per circa cento dodici metri e si entra, mi presento al portiere che per farmi entrare mi fa una foto con il computer, poi telefona alla Marina e poi mi indica l’ascensore e so che devo salire al sesto piano. Fatto.
E al sesto piano cammino sicura fino all’ultimo ufficio, quello di Marina, chi mi saluta con un bacio e poi mi accompagna dai miei, dai miei compagni, colleghi, responsabili, dice la Marina. In realtà si torna indietro, al primo ufficio a destra, entrando nel piano, all’ufficio Servizio Sociale dice ad alta voce la Marina, dove due assistenti sociali mi accolgono. Monica, la responsabile e Nerina, la mia collega. Ci si saluta con un bacio e poi mi dicono di posare le mie cose nello spazio che sarà il mio spazio: una scrivania vuota o svuotata, una sedia e una specie di appendiabiti di legno, vintage o molto vecchio, dipende lo sguardo. E mi dicono di posare le mie cose perché Nerina mi deve portare a fare il giro in tutto il piano, nel Dipartimento di Risorse Umane, dai miei colleghi allargati, dovremmo andare da Romina che dovrebbe farmi le carte di entrata e dell’assicurazione, e cose del genere. Vorrei non posare la mia borsa e portarmela dietro con me, per i documenti e per non girare con le mani in mano ma mi dicono di no, che non si fa così. E allora vado con Nerina a salutare e baciare, perché si fa così, con le mani in mano, baciare e salutare le circa ventitré persone che lavorano nel piano, che lavorano negli altri uffici vicino, molto vicino al mio futuro posto di lavoro. E tutti mi chiamano Clementina, a Nerina piace molto presentarmi così, scusate, buongiorno, vorrei presentarvi Clementina, è sociologa e da oggi lavora con noi, nel Servizio Sociale. Io cerco di salutare in generale, alzo la mia mano destra e faccio come quando si lavano i vetri, un po’ un movimento circolare per dire Buongiorno, Ciao! Piacere! Ma nel gruppo c’è sempre qualcuno che si alza dalla sua sedia e mi stampa un bacio, quindi devo avvicinarmi e fare il giro pure io. Pure io con sti baci. Poi Romina dice che dovrei tornare più tardi per compilare le carte, che ora lei non può. Ma un altro collega di Romina mi fa la foto digitale e dopo un po’ mi consegna la tessera che mi serve per entrare e uscire, per timbrare, per controllare i miei orari, i miei movimenti.
E nell’ ufficio Servizio Sociale, in piedi tutte e tre, Monica, la Responsabile e con circa trent’anni di anzianità di servizio, mi fa un lungo e diretto interrogatorio su come mai sono lì. Vuole sapere, sembra. Mi dice anche che nel suo ufficio lei ha sempre voluto solo Assistenti Sociali, visto che è il Servizio Sociale. Ma il Responsabile Generale, suo e ora anche mio, che è un medico, le ha detto che d’ora in poi l’equipe prevede anche la sociologa. E lei è molto dispiaciuta che non ho un ufficio tutto per me, che per una questione di privacy loro, delle assistenti sociali, nell’ufficio non dovrebbero esserci altre figure, ecc ecc. Io continuo a sorridere discretamente e non so bene a cosa pensare per sorridere ancora. Poi le chiedo alla mia responsabile, Monica, l’orario di lavoro, dalle 9.00 alle 17.00, hai mezz’ora di pausa pranzo inclusa. Bene e posso uscire per pranzo o posso mangiare lì, nel posto, mi dice. Bene. Poi Romina viene a prendermi e mi porta da lei per compilare le carte e lei e due sue colleghe mi chiedono come voglio essere chiamata. Subito capisco e dico che fa lo stesso; l’importante, per me, è non essere chiamata “Cle” o “Tesoro” o “Amore” o cose del genere. Ci si scambiano degli sguardi e poi Romina dice che c’è già una Sandra nel gruppo e forse è meglio Clementina. Siccome ci sono molte carte da compilare, molte cose da dichiarare, Romina mi consegna tutte le carte dentro una cartella e mi invita a ritornare alla mia scrivania vuota o svuotata e finire l’operazione di completare gli spazi in bianco con i miei dati e quando ho tutto pronto tornare da lei. Faccio.
Fatto per un po’ e scrivo per un po’ perché mi mancano dei dati, dei numeri. Ci vogliono i numeri dei documenti dei miei genitori e di mio fratello. Farò quindi.
E poi arrivano le ore 17.00 e mi dicono di prepararmi che è ora di uscire. E non so a cosa dovrei prepararmi, penso ancora ai baci, dovrei prepararmi a quelli. Ma ci sono solo pochi che si avvicinano a baciarmi per dirmi a domani, arrivederci, e cose del genere. Forse i baci di uscita sanno di addio comunque non mi lamento e non mi mancano, anzi. E ora sono fuori e cammino nel marciapiede, lenta, come per controllare se ho ancora tutte e due le mie scarpe colore rubino ai piedi. E cammino nella breve luce che mi rimane, nell’autunno porteño sono le 17.14 del giovedì due giugno e dovrei essere contenta o almeno serena. E cammino, piano, mentre mi godo l’aria che produce piacere e ricordi. Dopo mezz’oretta arrivo alla Avenida Cabildo angolo Avenida Congreso dove ho appuntamento con la mia amica Marisa che vuole sapere, che vuole festeggiare con me il mio nuovo primo giorno di lavoro a Buenos Aires. E si cammina ancora un po’ con Marisa, perché lei, Marisa che in realtà si chiama Maria Luisa ma tutti la chiamano Marisa, lei vuole portarmi a un posto che meriti, che meriti per una giornata così meravigliosa, perché non sei più lontana mi dice e mi accompagna, e mi sostiene sti giorni, perché non sono più lontana. E andiamo a un posto che merita, che è affianco alla chiesa detta la Rotonda di Belgrano e il posto è un Ristorante che sa di italiano e leggendo il Menu trovo, negli antipasti, la Parmigiana con tanto di melanzane grigliate e salsa alla bolognese, scrivono e per salsa alla bolognese intendono il ragù e ovviamente chiedo la Parmigiana, da straniera ancora, e mi preparo a raccontare a Marisa la mia prima giornata di lavoro argentino da sociologa perché non sei più lontana, dice.

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Clementina Sandra Ammendola*, sociologa. Abita a Buenos Aires, prima a Torino, prima a Vicenza e ancora prima a Buenos Aires. Ha scritto alcuni saggi (tra i quali: /L’allievo di origine argentina/, Progetto Alias 2003; /Immigrazione di ritorno e percorsi di cittadinanza/in /Borderlines/, Iannone 2003) e il libro /Lei, che sono io/Ella, que soy yo, /Sinnos 2005. Nel 2010, con Giulio Mozzi cura, Abitare. Un viaggio nelle case degli altri <http://libri.terre.it/libri/collana/0/libro/260/Abitare>, libro d’inchiesta, Terre di Mezzo. Prefazione di Marianella Sclavi.

per chi desiderasse contattarla:  leichesonoio@gmail.com

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Clelia

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