Colombia: segnali di pace…

…  sarà la volta buona?

di David Lifodi

Dopo essersi annusati un po’, e in una situazione caratterizzata dalla diffidenza reciproca, la guerriglia colombiana e il governo di Juan Manuel Santos sembrano fare sul serio: dopo i colloqui di ottobre a Oslo,  le due delegazioni si sono incontrate di nuovo a L’Avana ed il primo risultato che ne è scaturito è stato il cessate il fuoco proclamato dagli insurgentes dal 20 novembre al 20 gennaio. Cuba e Norvegia sono i paesi promotori e garanti del dialogo, Cile e Venezuela avranno la funzione di accompagnare i negoziati.

Sul dialogo tra le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) e il governo in molti hanno formulato ipotesi alla base di un riavvicinamento che solo fino a qualche mese fa sembrava impossibile. Una prima analisi, più semplicistica, per quanto plausibile,  da un lato fa pensare che l’estabilishment colombiano abbia compreso di non poter mai debellare definitivamente la guerriglia sul piano militare, dall’altro che le Farc abbiano percepito l’impossibilità di abbattere manu militari uno stato da decenni impegnato a mostrare i muscoli contro qualsiasi forma di opposizione legata al sindacalismo, alla tutela dei diritti umani, al rispetto di indigeni, campesinos e attivisti di sinistra. In realtà, la prospettiva che ha indotto le Farc ad impegnarsi per la fine di quella che, da cinque decadi, può essere definita a buon diritto una vera e propria guerra civile, è di ampia portata. Lo scopo principale della guerriglia è quello di dare alla popolazione colombiana la possibilità di vivere finalmente in pace, e non a caso Farc ed Ejército de Liberación Nacional (Eln – l’altra formazione rivoluzionaria) si sono rivolti apertamente alla società civile invitandola ad accompagnare attivamente il processo di distensione nel segno di un percorso che conduca “alla vera democrazia, alla sovranità popolare e alla giustizia sociale”. La risposta delle organizzazioni popolari, che hanno sempre ritenuto la pace “un’urgenza nazionale”, non si è fatta attendere, e si è basata sulla convinzione che un’uscita negoziata dal conflitto possa creare le condizioni favorevoli per la ricostruzione di una vita civile realmente democratica in Colombia. Dalla guerra civile è derivato il fenomeno del desplazamiento (lo sfollamento), che ha investito almeno tre milioni e mezzo di colombiani trasformatisi in rifugiati interni, quello della migrazione verso altri paesi per motivi economici, infine la crescita costante del narcotraffico. Inoltre, la guerriglia scommette sulla pace per recuperare il tessuto sociale di un paese fiaccato dalla guerra, riattivare un’economia contadina del tutto disarticolata, riaffermare il diritto sociale e collettivo alla terra come punto essenziale per ridefinire politiche agrarie e alimentari compatibili con uno sviluppo sostenibile. Se il percorso di Farc e Eln è improntato alla buona volontà, i nemici della pace non mancano. É vero che l’accordo tra il presidente Santos e la guerriglia non prevedeva alcun cessate il fuoco preliminare, ma a settembre, poco dopo che lo stesso mandatario in un messaggio alla nazione aveva anticipato il dialogo con le Farc, i militari hanno ucciso un comandante guerrigliero e, durante un bombardamento aereo, sono stati eliminati altri sei membri delle Farc. Quindi, la pace è possibile, ma non sarà semplice raggiungerla. Su Santos, a cui è stata assegnata fin troppo frettolosamente la patente di “democratico”, pesano le forti pressioni dell’oligarchia terriera, delle forze armate, delle gerarchie ecclesiastiche e della grande stampa: tutti desiderano una risoluzione militare del conflitto che spazzi via la guerriglia. Per far capire l’aria che tira, l’ex presidente Uribe, di cui Santos è stato ministro, oltre che delfino, avallandone lo sterminio dei civili spacciati per guerriglieri (il cosiddetto caso dei falsos positivos), lo ha accusato di essere sceso a patti con le Farc in uno scontro dialettico tra due personaggi che litigano tra di loro per ottenere l’appoggio del narco-latifondismo. Non è un caso che il narcotraffico prosperi in quella terra di nessuno che è il confine con il Venezuela, zona fertile per l’addestramento di quei gruppi paramilitari su cui a Palacio Nariño hanno da sempre chiuso entrambi gli occhi o, più spesso, ci sono andati addirittura a braccetto. Contrari ad una risoluzione pacifica del conflitto sono anche gli Stati Uniti  e l’industria bellica: i primi interessati ad appoggiare Bogotà, che ogni anno paga miliardi alla Casa Bianca per il Plan Colombia (sorto ufficialmente per combattere il narcotraffico, ma utilizzato in realtà contro le Farc), la seconda perché il proseguimento della guerra si traduce in commesse militari assai redditizie. Fonti provenienti dal palazzo presidenziale segnalano che sarà fatto di tutto per stabilire una vera e propria agenda di pace, tanto che il governo ha confermato la sua disponibilità al dialogo sui cinque punti proposti dalla guerriglia: questione agraria, partecipazione dei cittadini alla vita politica senza il rischio di ritorsioni, fine del conflitto armato, lotta contro il narcotraffico, ed il riconoscimento dei diritti spettanti alle vittime della guerra civile. Farc e Eln partono dal presupposto che un dialogo realmente orientato alla pace possa sradicare le cause che hanno condotto, nel 1964, all’inizio della lotta armata: un auspicio non semplice da realizzarsi in un paese dove l’azione militare dello stato è servita per legittimare l’intervento delle imprese straniere e reprimere la protesta tramite una soffocante militarizzazione del territorio giustificata in virtù della guerra al narcotraffico. È altrettanto improbabile che quel sistema oligarchico e terrateniente che ha generato esclusione, disuguaglianza e si è fatto promotore dei più iniqui aggiustamenti neoliberali, si faccia da parte così facilmente nel segno della pacificazione sociale. Del resto lo stesso Santos è l’uomo utilizzato dal grande capitale per blindare i suoi interessi. Infine, ci sono molti dubbi sulla reale smobilitazione dei paramilitari, amici di Uribe e riciclatisi nel narcotraffico e nei sempre attivi squadroni della morte. Eppure le aspettative della popolazione, fin dai primi colloqui di Oslo dello scorso ottobre, sono alte, soprattutto in considerazione del fatto che l’agenda del gruppo guerrigliero è stata condivisa per la prima volta da ampi settori politici e sociali del paese: difficilmente il governo potrà ignorarla. Inoltre, le Farc hanno riacquistato una credibilità in parte persa nel corso degli anni, principalmente perché ritenute funzionali alla repressione dell’esercito: spesso indigeni e contadini hanno pagato con la vita la “colpa” di trovarsi nel mezzo al conflitto tra guerriglieri, militari e, in più di una circostanza, ai paras. Solo per fare un esempio, esperienze come quella dei Nasa e la guardia indigena del Cauca, al pari delle comunità in resistenza dichiaratesi neutrali nel conflitto in corso (su tutte quella di San José de Apartadò), spesso non sono state ben viste dalla guerriglia, ai cui occhi figuravano come conniventi con l’esercito. Al tempo stesso la scommessa delle Farc è coraggiosa, principalmente nel perseguire la pace e la giustizia sociale tramite un dialogo che dovrebbe portare contemporaneamente alla deposizione delle armi (e alla riconversione in un partito politico legale) insieme alla smilitarizzazione da parte dello stato. L’abbandono dell’opzione militare da parte dello stato è un passaggio cruciale: tra gli anni ’80  e ’90 i tremila esponenti di Unión Patriótica (il partito di sinistra fondato nel 1985 da membri di Farc, Eln e dal Movimiento de Autodefensa Obrera) che avevano abbandonato la via militare per quella politica furono sterminati. Stavolta a Palacio Nariño manterranno la parola data per la risoluzione non violenta del conflitto o tradiranno di nuovo?

Le premesse di questi mesi inducono ad un moderato ottimismo, anche se un vero processo di pacificazione del paese dovrebbe cominciare dalla liberazione di tutti quei prigionieri politici e d’opinione, dei sindacalisti, degli studenti e dei militanti per i diritti umani che ancora marciscono nelle carceri colombiane.

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