Come muore il diritto di asilo
di Fulvio Vassallo Paleologo (*)
Il diritto di asilo è strettamente connesso al livello di democrazia che si garantisce in uno stato, ed è strumento per il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, quando si è costretti ad abbandonare il paese di origine non per scelta ma per sfuggire a una persecuzione individuale, a una situazione di violenza generalizzata, a una negazione sostanziale delle libertà democratiche. Più di recente, alle tradizionali cause delle migrazioni forzate si sono aggiunti i disastri climatici, con la nuova categoria di profughi ambientali, e l’aumento dei migranti costretti a lasciare il loro paese per la totale mancanza di mezzi di sussistenza (leggi anche Human rights of refugee and migrant women and girls need to be better protected).
Il numero dei migranti intenzionati a chiedere asilo in Europa è drasticamente aumentato negli ultimi due anni, soprattutto per l’afflusso massiccio di sfollati siriani, ma anche per il diffondersi di generali condizioni di insicurezza in molti paesi africani e asiatici, in particolare in Eritrea, in Sudan, in Gambia, in Nigeria, e già da tempo in Afghanistan, Pakistan ed Iraq. Con l’aumento delle partenze è anche aumentato il numero delle vittime nei viaggi della disperazione, mai tanto numerose come nell’ultimo anno.
L’Unione europea ha risposto alle stragi del Mediterraneo, le più grandi il 3 novembre del 2013 davanti Lampedusa e il 18 aprile del 2015 nel Canale di Sicilia, con migliaia di morti, con un progressivo inasprimento delle regole e delle prassi applicative in materia di asilo e protezione internazionale.
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Mentre si chiudevano tutte le vie legali di ingresso per lavoro, le politiche europee hanno sottoposto a restrizioni sempre più severe anche l’accesso dei richiedenti asilo, continuando a mantenere l’iniquo Regolamento Dublino, che ha esasperato il problema della prima identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali.
Nel corso del semestre di presidenza dell’Ue nel 2014 l’Italia ha lanciato il Processo di Khartoum (The ‘Khartoum Process’: beefing up borders in east Africa) che nel solco del processo di Rabat e degli Accordi di Cotonou tendeva a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte ad un crescente afflusso di migranti, aumentando i controlli anche attraverso l’agenzia Frontex, e realizzando operazioni di respingimento verso i paesi di origine.
A partire dal 20 marzo 2016 è entrato in vigore l’accordo tra Unione europea e Turchia, che ha trasformato in migranti “illegali” da espellere dall’area Schengen anche potenziali richiedenti asilo, magari con famiglia e bambini piccoli. Da allora anche i migranti siriani arrivati in Grecia dalla Turchia sono stati considerati “illegali”. Per non parlare degli afghani e dei pakistani. Dal 4 aprile sono cominciate le operazioni di respingimento in Turchia e si ha già notizia di respingimenti “di riflesso” dalla Turchia verso l’Afghanistan. Particolarmente a rischio i curdi di nazionalità turca che rischiano di essere riconsegnati a un paese nel quale troveranno carcere e torture senza fine.
Nei documenti europei approvati dal Consiglio su proposta della Commissione, con procedure di comitato, al di fuori delle regole stabilite nei trattati per queste materie, che richiederebbero atti di natura legislativa con la codecisione del parlamento europeo, piuttosto che garantire la rilocazione uniforme dei richiedenti asilo, il superamento del Regolamento Dublino, e l’omogeneità delle procedure per il riconoscimento degli status di protezione, si è preferito tracciare la distinzione tra “migranti economici” e potenziali richiedenti asilo, e tra questi quella di “persone con un particolare bisogno di protezione”.
Non sono state riconosciute vie di ingresso legale, se non a poche centinaia di persone, generalmente su iniziativa di enti religiosi o di organizzazioni umanitarie. Rispetto a tutti gli altri l’Ue ha girato le spalle, negando visti di ingresso umanitario e procedure di “resettlement” che avrebbero potuto trasferire legalmente in Europa persone ingabbiate nei campi profughi più esposti a violenze ed abusi.
Queste politiche europee hanno negato in sostanza il diritto di asilo ed adesso si stanno traducendo in una valanga di dinieghi da parte delle Commissioni territoriali che decidono sulle richieste di protezione internazionale, e nella chiusura di tutti i canali di passaggio verso l’Europa e tra i diversi stati europei, con grande vantaggio delle organizzazioni criminali che stanno aumentando i loro profitti e la loro capacità di ricatto (statistiche).
Le recenti decisioni dell’Unione Europea non tengono in nessun conto quella sentenza di condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo contro stati che non garantiscono alle vittime una effettiva protezione contro la tratta e lo sfruttamento.
Le proposte rivolte all’Ue dal governo Renzi, denominate in modo criptico come Migration Compact, mettono al centro gli accordi con i paesi terzi, la stabilizzazione della Libia e propongono un uso distorto della cooperazione internazionale, che dovrebbe essere condizionata ad una collaborazione nelle politiche di blocco delle partenze e di riammissione di coloro che, da quei paesi, ritenuti al pari della Turchia come paesi terzi sicuri, tentano di entrare nel territorio degli stati europei. I richiami all’apertura di canali legali di ingresso per lavoro, limitati ai migranti altamente qualificati, appaiono una beffa dopo l’abolizione delle quote annuali di ingresso che negli anni, fino al 2012, avevano consentito una regolarizzazione successiva di immigrati già residenti da tempo in Italia, dopo essere entrati o essere rimasti senza documenti validi.
Le misure previste dal Migration Compact ricalcano il modello degli accordi che l’Italia di Berlusconi e Maroni stipularono nel 2009 con la Libia di Gheddafi, sul principio della “condizionalità migratoria” nei rapporti con i paesi terzi, che il governo Sarkozy aveva proposto nel 2008 all’Unione Europea.
Si trattava in sostanza di garantire congrui finanziamenti e forniture tecniche e militari ai paesi di transito per contrastare le partenze dei “clandestini” con la collaborazione attiva da parte delle polizie di questi paesi, anche se poi nessuno garantiva il rispetto dei diritti umani delle persone che venivano riprese in mare e ricondotte nei porti di partenza. Il modello Libia viene ripreso anche recentemente, malgrado le condanne arrivate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato in diverse occasioni paesi come l’Italia che hanno effettuato respingimenti individuali, ed altre volte collettivi, verso paesi non appartenenti all’Unione Europea che non garantivano il rispetto dei diritti umani. esemplari in questo senso le sentenze sui casi Hirsi contro Italia e Sharifi contro Italia e Grecia.
L’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, che vieta, oltre alla tortura, i trattamenti inumani o degradanti, e il divieto di espulsioni collettive, sancito dall’articolo 4 del Quarto Protocollo allegato alla Cedu, divieti ribaditi dagli articoli 4 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, hanno garantito in casi isolati quelle tutele che malgrado le legislazioni nazionali, e le Direttive europee, le prassi applicate dalle forze di polizia su indirizzo politico negavano con frequenza crescente.
La riapertura del caso Khlaifia, sul quale dovrà pronunciarsi a breve la Grand Chambre della Corte di Strasburgo, dopo la condanna dell’Italia da parte di una sezione della stessa Corte Europea dei diritti dell’Uomo, apre adesso preoccupanti prospettive di limitazione della tutela dei diritti fondamentali dei migranti sottoposti a procedure di espulsione e di respingimento. L’Italia che ricorre contro una condanna per l’espulsione collettiva di tre tunisini fermati a Lampedusa nel 2011, è la stessa Italia che viene condannata per il sequestro e la extraordinary rendition di un sospetto terrorista in Egitto.
Si assiste dunque a una preoccupante restrizione delle possibilità di riconoscimento del diritto di asilo in Europa, anche attraverso la introduzione surrettizia di una “lista di paesi terzi sicuri”, che non arriva a diventare una misura legislativa vincolante per gli stati, ma diventa criterio generale di valutazione delle richieste di asilo, sotto l’impulso dell‘Easo, l’Ufficio europeo che dovrebbe supportare i paesi in difficoltà con le richieste di asilo, e che invece si muove nell’ottica di imporre criteri sempre più restrittivi nell’esame delle domande di asilo (Rapporto Amnesty).
Gli elementi costitutivi della normativa dell’Unione Europea rischiano così di essere utilizzati in senso sempre più restrittivo, e gli accordi con i paesi terzi rischiano di limitare ulteriormente le possibilità di accesso agli stati europei nei quali si intende presentare una richiesta di asilo, lasciando un carico crescente di arrivi sui paesi più esterni, dai quali, con la rilocazione in Europa non si riesce a trasferire più di qualche centinaio di richiedenti asilo.
I princìpi affermati dai giudici nazionali ed europei, dunque nell’esercizio della giurisdizione, consentono di valutare la portata delle gravi violazioni che l’Unione Europea e i singoli stati membri stanno commettendo stipulando accordi di riammissione e intese operative di polizia con i paesi terzi, come si è fatto con la Turchia, per fermare le partenze di potenziali richiedenti asilo.
Riconoscimento di protzione sussidiaria ad un cittadino del Gambia appartenente ad un partito di opposizione. Per l’Unione Europea un “paese terzo sicuro”.
Anche la Nigeria viene ritenuta “paese terzo sicuro”. La Corte di Cassazione blocca un respingimento, ma in tanti altri casi non è possibile garantire effettività ai diritti di difesa, soltanto perchè le persone espulse o respinte non riescono a fare valere i loro diritti in giudizio prima dell’esecuzione dell’allontanamento forzato sotto scorta di polizia. Dove è finito lo stato di diritto?
Sono argomentazioni utili per estendere la tutela dei richiedenti asilo denegati nel nostro paese dopo mesi o anni di attese defatiganti, ma possono servire anche per preparare ricorsi contro le decisioni di respingimento o di trattenimento amministrativo, adottate nei confronti di persone che in base alle Direttive ed ai Regolamenti europei dovrebbero vedere riconosciuto il loro diritto alla protezione in territorio europeo.
Di certo, di fronte alle decisioni di singoli paesi che, come l’Austria, hanno dichiarato di mettere un tetto massimo annuale alle richieste di asilo, si registra una grave violazione della Convenzione di Ginevra del 1951 e delle Direttive europee, e della stessa Carta europea dei diritti fondamentali, che non contemplano limiti numerici per l’ingresso di persone che richiedono protezione internazionale (Riforma del sistema europeo per l’asilo: le proposte della Commissione Ue).
Appare anche in contrasto con la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che vieta respingimenti diretti o di riflesso verso paesi che non riconoscono i diritti fondamentali della persona, l’accordo tra Unione Europea e Turchia e gli altri che su quel modello potrebbero seguire, come si ipotizza nel Migration Compact proposto dal governo Renzi all’Unione Europea.
(*) Clinica legale per i diritti umani dell’Università di Palermo. Articolo, foto e link sono ripresi da «Comune Info».