Come rimuovere la pandemia

articoli di Marco d’Eramo e Marco Bersani. Con un link alle grandi manovre della NATO (in faccia al virus… e alla faccia nostra)

(“Fridays for Future Sanremo – 56” foto di Tommi Boom is licensed under CC BY-SA 2.0)

La pandemia e la rimozione della morte – Marco d’Eramo

La pandemia ci sommerge con uno stillicidio quotidiano di morti. Ma della morte al singolare nessuno parla. Perché questo silenzio da parte della nostra società?È incredibile la differenza che può fare il singolare rispetto al plurale. Prendete il sostantivo “morte”. Al plurale la pandemia ci sommerge con uno stillicidio quotidiano di “morti” in tutti e cinque i continenti, ora dopo ora, telegiornale dopo sito internet. Le “morti” ci sono riproposte da filmati martellanti, tombe di massa a Manaus (Brasile), convogli lugubri dell’esercito a Bergamo (Italia), camion frigoriferi abbandonati nelle vie di New York City (Usa). Ma “la morte” al singolare è avvolta dal silenzio, è oscurata. Nessuno ne parla, nessuno la pensa. Su questo tema sono straordinariamente ritrosi, quasi pudichi i vociferanti spacciatori di pensiero da asporto che sugli altri argomenti sfornano ogni cinque minuti conseguenze epocali (e saggi ponderosi).

Nessuno riflette a come (a se) la pandemia ha alterato il rapporto della nostra società con la morte. Tanto per cominciare, nessuno interroga il silenzio su di essa. Ci comportiamo come se fosse scortese nominarla: un proverbio italiano ingiunge di “non parlare di corda in casa dell’impiccato”, impone di evitare ogni accenno a qualunque cosa ricordi una disgrazia a chi l’ha appena subita: come se la morte fosse un argomento scabroso, da evitare in buona società (e su questo torneremo tra un attimo). C’è una ragione meno confessabile, anch’essa descritta da un termine italiano che non ha corrispondenza altrove. Questo termine è “scaramanzia”, che i dizionari traducono nelle altre lingue come “superstizione”, ma che è molto più specifico: è la credenza che il semplice nominare un evento possa influire su di esso, possa favorirlo (se l’evento è negativo, una disgrazia, un incidente, un decesso, un fallimento), o possa ostacolarne la realizzazione (se l’evento è positivo: un successo, un amore, l’esito di un esame). A un cacciatore non si augura perciò “buona caccia”, perché questo potrebbe farlo tornare a carniere vuoto, ma gli si dice “in bocca al lupo”, il contrario di quel che gli si auspica. L’idea insomma che a solo nominare la morte, un po’ la si provochi. Quest’idea è più diffusa di quanto si possa immaginare, anche fuori dall’Italia, e anche tra persone che dovrebbero esserne immuni (sono state avviate parecchie ricerche sulle pratiche superstizione delle persone colte e “razionali”).

Più in profondità ancora, il silenzio rientra in un duplice processo di più lunga durata: il primo riguarda i discorsi e gli studi sulla morte. Il secondo concerne il rapporto con la morte delle società occidentali.

I decenni successivi al secondo dopoguerra, diciamo dagli anni ’50 ai ’60 del secolo scorso, videro una fioritura di contributi e di ricerche: un tema che era stato appannaggio di letteratura, filosofia e religione, fu annesso alle scienze umane, psicologia, antropologia, sociologia e storia: grosso modo i contributi più rilevanti in antropologia e sociologia vennero dalla cultura anglosassone, in storia da quella francofona. Poi però, dalla metà degli anni ’70 gli studi si diradarono, o per lo meno persero influenza e rilevanza: certo che su un argomento così centrale come la morte, di libri (film, documentari…)  se ne sono continuati a produrre tanti, ma nessuno che abbia lasciato il segno sulla cultura generale come i testi delle generazioni precedenti.

The Pornography of Death è il titolo di un breve articolo di Geoffrey Gorer pubblicato da Encounter nell’ottobre 1955. Gorer notava come nei 50 anni precedenti la morte fosse diventata un tabù:

Per la maggior parte degli ultimi duecento anni copulazione e (almeno nei decenni centrali vittoriani) nascita erano gli “immenzionabili” della triade di fondamentali esperienze umane (…) attorno alle quali tanta fantasia privata e pornografia semiclandestina si costruiva. Per la maggior parte di quel periodo la morte non era affatto misteriosa, tranne nel senso che la morte è sempre un mistero. I bambini erano incoraggiati a pensare alla morte, alle loro proprie morti, agli edificanti o ammonitori letti di morte altrui. Nell’800, con la sua alta mortalità, Ci poterono essere rari individui che non fossero stati testimoni di persona di almeno di un morire, e che non avessero pagato rispetto a ‘belle salme’; I funerali erano l’occasione del più grande sfoggio per la classe lavoratrice, la classe media, gli aristocratici. Il cimitero era il centro di ogni villaggio e luogo di riferimento in ogni città- Solo alla fine dell’800 l’esecuzione dei criminali cessò di essere una festa pubblica, e un pubblico ammonimento (…) Nel ‘900 però è passato inosservato uno slittamento nella pruderie: mentre la copulazione è diventata sempre più menzionabile, specie nelle società anglosassoni, la morte è divenuta sempre più indicibile, come processo naturale.

Dovremmo riflettere a fondo sull’inversione di ruoli tra la sessualità e la morte, come oggetti dell’indicibilità (Gorer sviluppò la sua tesi in uno studio più dettagliato apparso nel 1965: Death, Grief, and Mourning in Contemporary Britain). Forse è all’aspetto pornografico che possiamo attribuire il moltiplicarsi di serial televisivi di C.S.I, in cui il personaggio principale è il tavolo delle autopsie, luogo di “sconcezze”. La patologia forense come soggetto tv di soft-porn. E forse alla rimozione di questo scandalo è dovuta quella che Jessica Mitford chiamò The American Way of Death (1963), e cioè il maquillage del defunto, il diffondersi dell’imbalsamazione (una conservazione non perpetua come quella degli antichi egizi, ma temporanea per prolungare un po’ l’apparenza della vita): attualmente l’industria funeraria Usa fattura circa 20 miliardi di dollari per 2.4 milioni di funerali all’anno. Vale la pena ricordare il film The Loved One (1965: in italiano Il caro estinto) di Tony Richardson, tratto da un romanzo breve di Evelyn Waugh (e girato con la consulenza di Mitford): allora il film mi parve bello, chissà che effetto farebbe oggi.

Perciò la nostra rimozione della morte (tanto più oggi, quando siamo subissati da morti “immeritate”) non è un atteggiamento inedito, bensì la conclusione di una tendenza radicata nella struttura industriale della nostra società. E qui entrano in gioco i francesi, in particolare gli studi di Philippe Ariès. Un titolo per tutti: Essais sur l’histoire de la mort en Occident: du Moyen Âge à nos jours (1975). Ariès scandì varie fasi, da una morte sociale, a una familiare a una ospedaliera. Nel medioevo se in una casa c’era un moribondo, anche i passanti casuali andavano a salutarlo e a vederlo rantolare, partecipi. La morte era un’esperienza comune. Poi protagonista della morte divenne la famiglia (con tutti i rituali del lutto romantico ottocentesco). Infine la morte, dopo essere stata sottratta alla società, fu tolta anche alla famiglia e confinata negli ospedali che sono diventati il luogo deputato al morire: quando arrivi in una città sconosciuta, capisci di essere nelle vicinanze di un ospedale dal numero di agenzie funebri che vedi in strada.

“Il Medioevo tutto intero, anche alla sua fine, viveva nella familiarità della morte e dei morti. Dal XVI al XVIII secolo immagini erotiche della morte attestano la rottura della familiarità millenaria dell’uomo e della morte. Come dice La Rochefoucauld, l’uomo non può più guardare in faccia né il sole né la morte. A partire dal XIX secolo le immagini della morte sono sempre più rare e spariscono completamente nel corso del XX secolo, e il silenzio che si stende ormai sulla morte significa che essa ha rotto le sue catene ed è diventata una forza selvaggia e incomprensibile” (Ariès).

La rimozione della morte è quindi un processo radicato nell’industrializzazione e nel progresso tecnologico. Persino il diffondersi della cremazione rientra in questa rimozione sociale, perché mentre la salma tumulata è un ricordo inamovibile (per quanto sepolto in fondo alla coscienza dei superstiti), le ceneri del cremato sono una scomparsa, sanciscono una rottura definitiva: è stato dimostrato che i loculi contenenti ceneri vengono visitati molto meno dei sepolcri di salme non cremate: la cremazione sancisce quindi il declino definitivo del cimitero come luogo di culto e di visita, dopo il tramonto del “lutto romantico” con le sue tombe monumentali e i suoi solenni cortei funebri che scandivano la vita non solo dei paesi, ma delle città.

Da questo punto di vista, la pandemia non ha cambiano il nostro rapporto con la morte, ha solo estremizzato tendenze già presenti, in particolare la solitudine crescente del morire. Ancora una volta si rivela falsa la perentoria asserzione “nulla sarà mai come prima”. La pandemia non ha affatto alterato il tenace tentativo da parte del Moderno di cancellare la morte, di farla scomparire dal nostro orizzonte di vita, di relegarla a un altrove/altroquando inimmaginabile e incomprensibile: una forma di panico assoluto, per dirla brutalmente (Lord Kalvan di altroquando  (1965) è il titolo di un bel romanzo di fantascienza di H. Beam Piper).

Si obietterà che una delle lamentele più frequenti dell’ultimo anno è che la pandemia ci ha privato del lutto. Anche qui dovrebbe venirci in soccorso Ariès che ha mostrato come il lutto non sia una categoria immutabile, ma sia una ben precisa costruzione storica che ha visto il suo culmine alla fine del XIX secolo: in realtà le varie manifestazioni del lutto, a cominciare dal rito della ricorrente visita al cimitero e dalla diffusione dei monumenti funebri cimiteriali, hanno preso forma solo nell’era del romanticismo, quando il lutto per i morti soppianta lo scomparso culto dei morti: per la prima volta negli ultimi due secoli la società umana ha fatto a meno di quel culto dei morti che l’aveva contraddistinta dalle origini.

Solo nell’800 il ceto medio espresse il lutto col colore nero dei vestiti femminili, sia durante il funerale che in molti mesi successivi. “Ci si aspettava un periodo di recesso dalla via sociale, con sempre le donne ad assumere il ruolo guida. Negli Statiuniti molte ragazzine della classe media ricevevano guardarobe da lutto per le loro bambole, con il rituale che veniva replicato nel mondo del gioco” racconta W. M. Spellman nella sua A Brief History of Death (2014). Insomma, prima della fine dell’800 mai un Freud avrebbe potuto pretendere che “l’elaborazione del lutto” sia un processo psicologico innato nell’umano.

Però quel che la pandemia fa non è tanto portare all’estremo tendenze che si sviluppavano da un secolo, quanto un ritorno al passato prossimo. Perché i processi del moderno di cui parlavano Gorer, Mitford e Ariès hanno perso colpi negli ultimi decenni: la morte negli ospedali ha conosciuto un picco, ma da qualche anno sempre più famiglie preferiscono riportare a casa i propri morenti.

Sappiamo che circa l’80 % degli americani preferirebbe morire a casa, ma che il 60 % muore negli ospedali, il 20% nelle case di riposo e solo il 20 % in casa. Questa percentuale è però in crescita, perché diminuiscono i decessi in ospedale e in pronto soccorso, nonostante sia cresciuto il numero delle ammissioni. La tendenza si inverte anche perché siamo sempre più coscienti di quanto è futile l’accanimento terapeutico.

Anche l’andamento del lutto è meno lineare di quanto sembri. Del lutto la figura più parodistica, più arcaica, è quella delle prefiche, dei piangitori professionali. Già il fatto di assoldare persone che piangessero al posto dei congiunti (consorti, figli, parenti) dimostra il lato teatrale, di grande recita (e quindi di sottintesa non verità) del lutto antico. Rimaniamo disorientati perciò di fronte a una notizia che leggiamo sul New York Times del 22 Marzo 1908 (edizione domenicale). Il titolo è “Professional Mourners Strike” (I professionisti del lutto scioperano) e il primo capoverso recita: “PARIGi, 14 Marzo. Quei curiosi, macabri personaggi… lacrimatori di professione, si sono messi in sciopero perché ricevono solo 5 f. per dodici ore di servizio, e un franco addizionale se chiamati d’urgenza”: un mestiere ultra-arcaico si coniuga con uno strumento della lotta di classe del moderno, con lo “sciopero”.

Ma le prefiche sono entrate persino nell’ultima rivoluzione tecnologica, nel mondo di internet:

Preoccupati che poche persone si presentino al vostro funerale? Fatevi aiutare da Rent-A-Mourner. L’ingegnosa compagnia dal nome ben scelto permette agli interessati di pagare per professionisti del cordoglio per riempire una sala funeraria ed essere sicuri che il defunto riceva un commiato adeguato ed estremamente affollato.

Per circa $68 a persona, questa ditta basata nel Regno unito invierà “professionisti cortesi e ben vestiti” per assistere al vostro funerale, o vegliare, e piangeranno, e in generale appariranno tristi rispetto al trapasso di chiunque sia nella bara, per circa due ore. Rent-A-Mourner promette che I vostri dolenti stipendiati saranno “discreti” e “professionali”, secondo il suo sito web.

Sfortunatamente, quando ce ne sarebbe più bisogno, questo servizio non è più disponibile: Rentamourner.co.uk ha infatti chiuso nel marzo 2019.

(da “Sidecar”, blog della New Left Review. Noi lo abbiamo ripreso dalla nuova Micromega che vi raccomandiamo sia in versione cartacea che digitale)

da qui

 

Il profitto non è la giusta cura – Marco Bersani

Dall’inizio della pandemia, e senza soluzione di continuità fra governo Conte e governo Draghi, le misure messe in atto per fronteggiarla hanno seguito sei precise traiettorie:

  1. a) ridurre al minimo le restrizioni all’attività delle imprese, che, quasi ovunque, hanno continuato a produrre senza vincoli;
  2. b) intervenire con sussidi, il 70% dei quali per sostenere le imprese stesse e il restante 30% per tamponare in qualche modo la disperazione sociale;
  3. c) nessun intervento sul sistema sanitario, che ha continuato ad essere privo di ogni intervento territoriale e ad essere focalizzato sull’ospedalizzazione come risposta al bisogno di cura, determinandone la saturazione ad ogni nuova ondata di contagi;
  4. d) nessun intervento sul sistema dei trasporti pubblici locali, che hanno continuato ad essere veicoli di contagio per le persone costrette ad utilizzarli;
  5. e) focalizzazione delle scuole come problema, con la sostanziale chiusura per due anni scolastici di scuole superiori e università, e chiusure continue, in alcune regioni continuative, anche delle scuole dell’obbligo;
  6. f) narrazione colpevolizzante dei comportamenti individuali, raccontati come la causa primaria di ogni aumento dei contagi.

La narrazione che sottende l’insieme di queste traiettorie si basa sull’idea che il benessere delle imprese determina il benessere della società e che, di conseguenza, quest’ultima deve adattarsi alle necessità delle stesse.

E’ una narrazione che, al di là di tatticismi politici contingenti, ha visto l’adesione di tutte le forze politiche, non a caso approdate al governo di unità nazionale.

Una domanda tuttavia sorge spontanea: c’è qualcuno che, a un anno distanza dall’arrivo dell’epidemia, ha l’onestà intellettuale di fare un bilancio serio sull’efficacia delle misure prese, a partire dal disastroso bilancio di oltre 105.000 morti (ad oggi) e da un trend di decessi giornalieri di 3-4 centinaia?

Non si direbbe. E, mentre l’eccellenza lombarda raggiunge quotidianamente nuovi traguardi di cinismo e ferocia, un commissario vestito da alpino annuncia fantasmagorici dati sui futuri vaccini e il ministro della salute cerca invano di corrispondere al suo cognome.

Se questo è il quadro, alcune parole di verità sulle misure finora prese vanno dette, a partire da dati inequivocabili.

Partiamo dai dati sulle imprese che dimostrano, ancora una volta, come l’unica strategia che alberga in Confindustria sia il “chiagn’e fotte”. Secondo i dati di Eurostat (marzo 2021), la produzione industriale da dicembre scorso è in continua crescita, mentre il dato di gennaio 2021 è inferiore a quello di gennaio 2020 solo del 2,4%, un dato che assomiglia molto più a una normale oscillazione congiunturale che non all’esito di un anno di pandemia. E che spiega molto più di mille analisi perché nei distretti più industrializzati d’Europa -Bergamo e Brescia- la pandemia si sia trasformata in una carneficina.

Dunque l’industria, se non proprio bene, male non sta. Vale lo stesso per la società?

Non si direbbe proprio, a partire dal mercato del lavoro che, nonostante il blocco dei licenziamenti, nel 2020 ha registrato il record di 456mila posti di lavoro persi.

 

Nel frattempo la povertà ha fatto un balzo in avanti senza precedenti e, secondo i dati dell’Istat sul 2020, ha registrato un milione di nuovi poveri, che porta il totale delle persone in stato di profondo disagio a 5,6 milioni (una su dieci). Tra questi, 1 milione e 346mila sono bambini (209mila in più).

Facile intuire come la gran parte di questi effetti sia stata scaricata sulle donne, che sono le prime a perdere il posto di lavoro e a doversi far carico del lavoro di cura familiare in condizioni di isolamento e di fortissimo disagio economico, sociale, relazionale (come dimostra l’aumentato numero di violenze subite all’interno delle mura domestiche).

Nel frattempo, per poter permettere alle imprese di continuare indisturbate nella produzione, si sono  prese di mira le scuole, additate a più riprese come i luoghi principali del contagio (e non come i luoghi del sicuro tracciamento dello stesso), consegnando un’intera generazione di giovani e bambini ad una vita sospesa davanti a un computer, priva di sogni e di socialità.

Anche su questo versante i dati sono più che allarmanti, con un aumento tra il 30 e il 40% del disagio psicosociale fra  bambini e adolescenti.

In un anno di interventi, una generazione (gli anziani) è stata falcidiata, un’altra è stata consegnata all’isolamento e al disagio (infanzia e adolescenza), mentre l’insieme delle famiglie è stato costretto alla precarietà, scaricandone gli effetti in particolare sulle donne.

Tutto questo per evitare quello che avrebbe dovuto essere fatto già all’inizio: un vero, completo e molto più breve lockdown, a cui far seguire una strategia di tutela delle fasce più fragili della società, con un reddito di emergenza per tutti, investimenti massicci per una sanità pubblica e territoriale, per una scuola aperta e sicura, per trasporti locali degni.

Tutto questo avrebbe messo in discussione le priorità del modello economico-sociale in cui viviamo, mettendo al centro il prendersi cura al posto dei profitti, la coesione sociale al posto del “Bergamo is running”, l’interdipendenza fra le persone al posto della solitudine competitiva.

Proprio per evitare tutto questo, si è costruita e si continua ad alimentare una narrazione di colpevolizzazione dei comportamenti individuali che, al netto di casi deprecabili ma quantitativamente insignificanti, sono stati additati come la ragione unica della diffusione del virus e della moltiplicazione delle sue varianti, indicando ogni volta l’untore di turno.

Un anno dopo, possiamo prendere atto che non sono i profitti delle imprese a determinare il benessere della società?

Possiamo lasciar chiagnere Confindustria (è il suo mestiere) ma evitare per una volta di farci fottere? Possiamo dire che è l’economia a doversi mettere al servizio dell’ecologia e della società e non il contrario?

Possiamo scendere nelle piazze e urlare che non abbiamo bisogno di alcun Recovery Plan che rilanci l’esistente, ma di un Recovery PlanET per progettare assieme una diversa società?

da qui

Nella morsa della pandemia al via manovre Usa-Nato

di MANLIO DINUCCI

cfr https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/20127-manlio-dinucci-nella-morsa-della-pandemia-al-via-manovre-usa-nato.html

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