Come Total finanzia i golpisti in Myanmar

di Marina Forti (*)

Dopo il colpo di stato militare del 1 febbraio, Myanmar (o la Birmania, come si preferisce) è piombata in un nuovo ciclo di repressione. Le proteste si susseguono e il governo militare ha risposto con la forza: centinaia di manifestanti uccisi, feriti, migliaia di arresti, esecuzioni extragiudiziarie di oppositori e giornalisti, torture. Il Rapporteur delle Nazioni unite sui diritti umani in Birmania parla di crimini contro l’umanità. Numerosi governi occidentali hanno condannato la repressione e adottato alcune sanzioni verso il regime militare. Diverse organizzazioni per i diritti umani chiedono alle grandi imprese straniere presenti in Myanmar di ritirarsi, per non dare ulteriore sostegno economico al governo militare.

Una di queste è la compagnia petrolifera francese Total. Dopo il colpo di stato, organizzazioni francesi per i diritti umani, ambientaliste e per la trasparenza hanno chiesto a Total di sospendere le operazioni per non dare sostegno finanziario a una giunta militare. La compagnia francese ha risposto finora in modo evasivo: afferma di rispettare i diritti umani e i codici di condotta, esprime “preoccupazione”, dice che sta “valutando la situazione” .

La realtà, secondo il quotidiano Le Monde, è che la Total finanzia direttamente i vertici dell’esercito birmano, con cui da molti anni spartisce i profitti di un ricco giacimento di gas naturale attraverso conti off shore.

Andiamo con ordine. Total è una presenza consolidata, in Myanmar. Dal 1989 sfrutta il giacimento di gas di Yadana, off shore nel mar delle Andamane, in società con la statunitense Unocal (in seguito assorbita da Chevron) e con l’impresa di stato per gli idrocarburi, la Myanmar Oil and Gas Enterprise (Moge): Total ha il 31 per cento, Chevron il 28, il resto è diviso tra una società thailandese e la Moge. Il gas viene trasferito a un terminal in Thailandia meridionale attraverso un gasdotto, costruito a metà degli anni ’90, di cui sono proprietarie le stesse due imprese, sempre con l’impresa di stato Moge.

Nei bilanci pubblicati da Total si legge che nel 2019 ha versato quasi 230 milioni di euro (257 milioni di dollari) allo stato birmano, come royalties e tasse dovute per il gas estratto.

Ma è proprio così? L’organizzazione Justice for Myanmar afferma che gran parte del denaro pagato dalle compagnie straniere non va nelle casse dello stato ma passa per la Moge, notoriamente legata ai militari (tanto che nella sua relazione del 4 marzo, il Relatore dell’Onu per i diritti umani in Myanmar chiede che la Moge sia sottoposta a sanzioni). E non si tratta solo di tasse e royalties.

Ora l’inchiesta di Le Monde spiega che Total ha versato milioni di dollari alla Moge, cioè ai vertici militari, su conti nelle Bermude, in cambio di agevolazioni fiscali che hanno garantito all’impresa ottimi profitti.

Il meccanismo ruota attorno al gasdotto che collega i pozzi nel mar delle Andamane al terminal petrolifero in Thailandia, 346 chilometri di tracciato in parte sottomarino, in parte attraverso la penisola di Tenasserim, dove corre la frontiera tra i due paesi. Il gasdotto appartiene alla Moattama Gas Transportation Company (Mgtc), di cui Total è l’operatore e il primo azionista (gli altri sono gli stessi soci nel giacimento di Yadana).

Dunque il gasdotto e i pozzi di gas naturale hanno la stessa proprietà: però dalle carte studiate da Le Monde risulta che il gasdotto fattura costi altissimi per il trasporto del gas, che così vengono detratti dai profitti del giacimento. Ciò permette di pagare meno tasse allo stato birmano. E di stornare considerevoli profitti, che sono spartiti con la Moge (cioè alcuni militari) attraverso la società del gasdotto, che è domiciliata alle Bermude, noto paradiso fiscale. Nel  2020 le somme versate da Total alla Moge sono tre o quattro volte più alte di quelle versate allo stato come tasse.

Le Monde ha pubblicato la sua inchiesta martedì, il 4 maggio. In risposta, la Total ha messo online per intero le risposte che aveva dato ai giornalisti del quotidiano prima della pubblicazione. Dove spiega ad esempio che la società del gasdotto era stata registrata nel 1994 alle Bermude per “tenere conto delle diverse nazionalità degli azionari”. (Dunque il meccanismo descritto de Le Monde va avanti da un quarto di secolo).

Tutto questo però ha un precedente, che chiama in causa anche la socia Chevron.

Infatti la costruzione del gasdotto di Yadana è stato una immane tragedia per la popolazione locale. Tra il 1993 e il ’94 circa centocinquantamila persone sono state espulse dai loro villaggi per “preparare” il territorio sul tracciato del gasdotto, persone che hanno perso le case e la terra da coltivare, i mezzi di sopravvivenza, e la stessa libertà. Negli anni seguenti molti sono stati reclutati a forza per lavorare alla sua costruzione (avvenuta tra il ’95 e il ’98), in condizioni di semischiavitù; molti altri sono fuggiti oltre la frontiera thailandese.

Durante la costruzione del gasdotto di Yadana negli anni ’90 decine di migliaia fuggirono oltre la frontiera thailandese per scampare a lavori forzati e violenze (foto: EarthRights)

Questa storia è stata documentata da sindacalisti e organizzazioni per i diritti umani birmani e internazionali (l’avevo raccontata in La signora di Narmada, capitolo terzo: “Un gasdotto in tribunale”). Infine la Unocal è stata citata in giudizio da un gruppo di sopravvissuti, in California, grazie alla legge statunitense che permette di giudicare in patria torti commessi da imprese Usa all’estero (il tribunale statunitense però dichiarò la sua incompetenza a giudicare la Total, perché francese).

Il processo Doe vs Unocal, nei primi anni ‘2000, ha visto i sopravvissuti testimoniare in aula, insieme a sindacalisti e ricercatori. Descrivevano povertà e violenze incredibili: e l’istruttoria ha stabilito che Unocal era a conoscenza del regime di terrore instaurato dal governo militare birmano attorno a quel gasdotto (nel 2003 l’impresa statunitense ha infine accettato di pagare risarcimenti alle famiglie dei sopravvissuti).

Allora Total era riuscita a restarne fuori. Questa volta dovrà rispondere qualcosa di più.

(*) ripreso da www.terraterraonline.org

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