Con Gnisci per dimettersi da identità fittizie

«Che cosa so?» e «voi chi siete?»: domande antichissime e sempre attuali. Come rispondere nell’epoca della globalizzazione e delle resistenze localiste, dell’«osceno iper-reale» che domina le nostre vite, della costruzione o rivendicazione di nuove identità, spesso fantastiche (e in questo caso importa poco se la patria sia l’inesistente Padania del passato o la vaga Europa futura) è problema non da poco.

Su questi temi Armando Gnisci ha scritto molto e infatti questo libro è una sorta di quinta puntata: sotto il titolo «Decolonizzare l’Italia» (Bulzoni editore, 136 pagine per 12 euri) si chiarisce «via dalla decolonizzazione europea n. 5». Ovviamente non c’è bisogno di aver letto le prime 4 puntate per gustarsi appieno il discorso. Ma affrettatevi, conoscendo un poco l’autore, credo che mentre pubblica la sesta puntata stia già scrivendo la settima.

Gnisci insegna Letteratura comparata alla Sapienza di Roma, ha pubblicato 42 libri (se non ho perso il conto) tradotti in una dozzina di lingue, è l’inventore della banca data Basili (www.dis.let.uniroma1.it/basili) sulla letteratura migrante. Di notte dorme, forse. E magari i geologi lo classificano come uno dei pochi vulcani ancora attivi in Italia. Alcune stranezze biografiche sono ancora più interessanti:  le sue lezioni sono affollate anche di non studenti; risponde a tutte le mail; e si firma (in spregio all’ortografia e per empatia con la scrittrice afroamericana bell hooks) solo con le minuscole. Come scrive in questo libro è «un europeo che si smarca dal proprio destino accademico, morale e storico e, senza mai rinnegarlo o abbandonarlo, si educa a porsi in attesa e in ascolto». E più avanti chiarisce «il mio problema suona: come posso e devo, in quanto italiano ed europeo, rispondere alla sfida della modernità postcoloniale?». Italia, un «contenitore arlecchino» che una volta (quando il mondo era piccino-picciò) si chiamò Esperia, «terra al di là del tramonto verso la sera». Ma bisogna guardare oltre «segni-soglie-limiti», cercare «da dove possiamo andare oltre e verso dove», non accettare «la devastazione operata dal disumano dell’umano».

La frase che apre ogni capitolo, una sorta di filo d’Arianna per uscire dal labirinto, è di Lucrezio: «ita res accendent lumina rebus». Il ragionamento di Gnisci è in un continuo ritrovare e riannodare radici (Erodoto, Giordano Bruno, Conrad, Martì, Montaigne, il pittore Van Eych o quella sorte di malfattore che, per caso, diede nome all’America insomma Vespucci) e agganciarle alla modernità (Carpenter, Cesaire, Fanon, Glissant, Ki-Zerbo, Rushdie, Roberto Saviano, Virginia Woolf per dire solo qualche nome). «Quanto so di non sapere è il mio viatico leggero» scrive, citando il grande giornalista Kapuscinski. E questa immensa umiltà sarebbe davvero il miglior passaporto per affrontare mondi noti e del tutto ignoti. Sapendo che (come suggerisce Conrad) a viaggiare nel cuore delle tenebre ci si potrebbe scoprire a casa.

In tutta sincerità, è un libro non facile eppure necessario. Pieno, come pochi, di idee nuove e di frasi-grimaldello. Cosa sia a esempio la «critica biomortale del XXI secolo» o come funzioni «la creolizzazione planetaria» è difficile da riassumere, meglio scoprirlo nelle sue complesse ma sempre originali, affascinanti pagine. Alcune frasi secche e iper-polemiche («Todorov al solito capisce poco» oppure «Cioran e altri cuochi del nulla») farebbero pensare che Gnisci sia un presuntuoso mentre invece è solo un anti-accademico, sincero fino alla passione, ribelle in terra di ipocriti. Il suo continuo citare, le lunghe note, la bibliografia quasi da paura non sono spocchia o riciclaggio ma doni: fa pensare a un personaggio di Walt Disney, quell’Eta Beta che dal suo marsupio tira fuori tutto (come è possibile che ci sia tanta roba?) e lo sparge in giro. Filosofia, lettatura, aforismi  e se semplicemente dicessimo regali? A completare il libro un breve saggio di Ali Mumin Ahad sulla letteratura post-coloniale italiana, come un lungo inciso per arrivare alla riflessione finale, al da farsi qui «nella pozzanghera mediterranea». Il sipario si chiude, di nuovo citando Saviano, così: «vivere in mezzo al proprio tempo badando sempre agli altri».

Sin dalle prime pagine e poi più volte Gnisci si definisce «estremista». La definizione non dovrebbe interessare (mai dire mai però) giudici o investigatori. Contrariamente al suo nome – Armando – questo pacato professore lavora a “disarmare” la società, vuole renderla più equa e pacifica. Ma se pure chi legge lo trovasse un po’ estremista forse bisogna cercare una spiegazione diversa e inquietante: la situazione generale è estrema (in primo luogo sul terreno delle disuguaglianze sociali) e dunque i veri, coerenti e incompresi realisti possono oggi passare per estremisti, radicali senza volerlo.

Il suo invito è a studiare di più, a «dimetterci» da identità fittizie, ammaccate e frettolose, a disfarci di tradizioni inventate e di patrie immaginarie per riconoscerci (da sempre ma oggi più di sempre) creoli, meticci. Chi non ha paura del viaggio si metta in cammino.

questa mia recensione è uscita il 20 maggio 2008 sul quotidiano «L’unione sarda»

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