Congo: «io torno dall’inferno»

La testimonianza di Déo Namujimbo sull’inizio della seconda guerra internazionale in Congo.

Nel 25 ° anniversario dall’inizio della seconda recente guerra nella Repubblica Democratica del Congo (2/8/1998 – 2003), traduco e presento qui, con il consenso dell’autore del libro, una testimonianza con la quale Déo Namujimbo, giornalista congolese esule in Francia apre il suo libro «Je reviens de l’enfer. Reportage de guerre à l’est de la RD Congo (aout-septembre 1998)» [L’Harmattan, Paris 2014, pp. 19-22]. Lui stesso non cita il testimone per proteggerne la sicurezza.

Si tratta del drammatico evento con si è aperta questa guerra e che già conteneva i suoi elementi essenziali: l’invasione ruandese (cui si aggiunge quella da parte dell’Uganda), la connivenza di cittadini congolesi, lo sfruttamento dei ragazzi-soldato, il sangue versato senza pietà, ma anche l’impossibilità di condannare interi gruppi, perché le responsabilità sono personali… Un racconto terribile che evoca le peggiori pagine della storia del secolo scorso. Una denuncia della guerra come tale, che spegne la pietà e apre nel cuore umano le botole più impensate del sadismo. Ma anche la pietà che ha permesso a tanta gente di sopravvivere, e qui rappresentata da un vecchio accanto al fuoco. (T. C.)

2-3 agosto 1998: Il massacro degli ufficiali a Kavumu

(con la testimonianza di un ufficiale sopravvissuto di cui viene taciuto il nome per proteggerne la sicurezza)

La più grande disgrazia che un uomo possa subire

è la perdita del proprio Paese”

EURIPIDE, poeta tragico greco

2 agosto: segnali inquietanti

Questa domenica 2 agosto 1998 sono nel mio ufficio del Quartier generale della 222a brigata di Fanteria a Bukavu quando mi informano che una riunione, tenuta a Cyangugu (Ruanda) il giorno prima, aveva raggruppato tutti i grandi ufficiali della brigata di Bukavu, come pure altri venuti da Uvira e da Goma. Mi ricordo che avevamo appena ricevuto il nostro salario e che nessuno ci riferì quanto si era detto in tale incontro. I miei colleghi mi hanno incaricato di andare a recuperare i debiti presso certi militari del battaglione di Nyangezi. Questi ultimi dovevano dei soldi alla cassa mutua degli ufficiali. Nyangezi si trova 28 km a sud di Bukavu.

Arrivando, sono rimasto sorpreso per la quantità inusuale di armi pesanti disposte ovunque, sul lato della strada, nei bananeti e dietro le case, per ordine del comandante di battaglione del posto, un Munyamulenge di nome Budurege. Mi rendo immediatamente conto che soltanto i Banyamulenge sono armati, cosa che pure mi sorprende tantissimo.

È già notte quando decido di rientrare a Bukavu. Chiedo un mezzo al comandante Budurege. Egli rifiuta di darmi un mezzo di trasporto, cercando piuttosto di convincermi a passare la notte a Nyangezi, senza evocare alcuna valida ragione. Una specie di intuito mi spinge a lasciare al più presto questa località, Grazie a Dio, un taxi-bus si presenta e l’autista accetta di portarmi fino a Bukavu. È troppo tardi perché possa sperare di trovare un mezzo di trasporto per il comune periferico di Bagira dove abito, a oltre 8 km dal centro-città. Decido di passare la notte al quartier generale.

Verso le 8 di sera, degli amici vengono a prendermi per bere insieme un bicchiere di birra alla fiera in pieno svolgimento da due settimane alla piazza della Posta. Non abbiamo ancora raggiunto il luogo della fiera quando udiamo raffiche di armi automatiche in provenienza da tutti gli angoli della città. Con il talkie-walkie chiediamo notizie agli ufficiali, me nessuno sa risponderci in modo soddisfacente. Non abbiamo altra soluzione che tornare indietro.

Quando siamo quasi arrivati al Quartier generale, diversi militari in tenuta da combattimento ci raggiungono a piedi, tornando dal centro-città. Ci informano che il comandante della brigata Tshapul Mpalanga è in residenza sorvegliata. Non aggiungono altro. Ci sembra opportuno passare tutti insieme la notte al Quartier generale. Dato che la situazione sembra irreversibile, faccio liberare i militari detenuti nelle celle del Quartier generale e ordino a tutti di tenersi pronti ad ogni eventualità.

Un po’ più tardi, il comandante della città, Sion Malekera, mi chiama al talkie-walkie e mi chiede che gli mandi, tramite qualcuno, i dossier che si trovano sul tavolo del suo ufficio. Gli rispondo che nessuno oserà uscire e mettere in pericolo la propria vita, dato che continuiamo a sentire raffiche sempre più ravvicinate. Malekera mi spiega allora che il regime è cambiato e che il nuovo Presidente della Repubblica democratica del Congo è atteso a breve a Bulavi, con tutti i membri del nuovo governo. Verranno attraverso la città ruandese de Cyangugu. Ci consiglia poi di tornare a casa nostra. Chiaro che non ascoltiamo il suo consiglio.

Obbligo di radunarsi a Kavumu

Verso mezzanotte, l’ex-capitano delle FAZ (Forze Armate Zairesi, l’esercito dell’ex-Presidente Mobutu, spodestato l’anno prima, ndt) Bolika Mavungu, incaricato della logistica per la città di Bukavu, ci raggiunge e ci informa che i soldati ruandesi sono in città. Aggiunge che dobbiamo tutti radunarci all’indomani all’aeroporto di Kavumu (aeroporto della città di Bukavu, ndt) dove riceveremo rinforzi in uomini e materiale bellico in provenienza da Kinshasa, al fine di resistere all’attacco dei Ruandesi. Gli dico subito tutto il mio scetticismo riguardo all’avvenire, facendogli capire che devo anzitutto mettere la mia famiglia al sicuro.

Mi prende a bordo della sua camionetta, arriviamo a casa mia a Bagira, dico a mia moglie e ai miei figli che sono rientrato da Nyangezi e che dunque non stiano in pensiero per me. Da lì, decidiamo di andare, la notte stessa, a Kavumu per verificare i preparativi dell’accoglienza dei rinforzi attesi per l’indomani, come mi è stato detto.

Arrivati al villaggio di Miti, a 25 km da Bukavu sulla strada che porta a Goma, delle persone che non vediamo a causa del buio tirano su di noi, nascoste nei bananeti. Uno dei militari che ci accompagnano nel retro della camionetta, è ferito. Spariamo a nostra volta e, senza fermarci a Kavumu, proseguiamo verso l’ospedale della Fomulac/Katana (Fondazione medica dell’università di Lovanio in Africa centrale) per lasciarvi il ferito. L’ospedale si trova all’incirca a 45 km da Bukavu. Dopo aver affidato il nostro ferito alla guardia medica dell’ospedale, riprendiamo il cammino dell’aeroporto, dove troviamo alcuni colleghi fra cui il comandante di battaglione Mutshapa, il comandante incaricato della logistica della brigata Juvénal Kachungunu e pochi altri ufficiali. Bolika ci spiega le ragioni del nostro arrivo in ritardo, insistendo sui colpi d’arma da fuoco sparati contro di noi a Miti e sulla nostra deviazione per la Fomulac/Katana.

Kacungunu dice a Mutshapa di dargli due o tre compagnie di soldati per andare a vedere chi tira sugli automezzi a Miti, ma Mutshapa rifiuta, sostenendo che il comandante di brigata ha dato l’ordine a tutti di restare all’aeroporto fino a nuovo ordine.

Stanco, mi addormento come posso nella cabina della camionetta Hilux di Bolika, con il sotto-tenente Heri Birembo. Intanto, gli altri ufficiali vanno a divertirsi nella vicina città malgrado la gravità della situazione, lasciando le centinaia di soldati a passare la notte ciascuno come voleva. È vero che gli abitanti di Kavumu non erano ancora al corrente degli avvenimenti che si svolgevano a Bukavu, a 33 km di distanza. I bar erano aperti, l’atmosfera era frenetica, la birra colava a fiotti!

3 agosto: preparativi di un massacro

Lunedì 3 agosto. Sono le 3 del mattino e noi continuiamo sempre ad attendere gli ordini e i rinforzi promessi da Kinshasa. Il comandante Bolika prende un cannone 75 e alcuni soldati a bordo di un camion: ha deciso di andare a vedere che ci ha sparato addosso la notte precedente, a Miti. Parto con lui. Arrivati sul posto, la popolazione ci dice che effettivamente dei soldati tutsi hanno passato la notte nei bananeti e si sono diretti all’alba a Chivanga, all’entrata del parco nazionale di Kahuzi Biega, 17 km a nord-ovest di Kukavu.

Tornando a Kavumu, ci dicono che il comandante Tshapul ha appena mandato l’ordine di andare ad attenderlo a Amsar, a una quindicina di km da Bukavu, prima di giungere a Miti. Saliamo su tutti i veicoli disponibili e torniamo indietro fino a Amsar, dove ci attende il comandante di brigata alla testa di un’intera compagnia del 106° battaglione, comandato dal capitano Musemenge. Tshapul ci informa che non è ancora potuto entrare in contatto con Kinshasa. Bolika, Bilembo e io decidiamo di andare a chiedere carburante per il nostro automezzo ai preti del convento di Murhesa, a meno di 5 km da Amsar. Durante il percorso, della gente del posto ci ferma e ci informa che dei soldati sospetti sono in circolazione nei dintorni.

Infatti, circa una mezz’ora dopo, mentre usciamo dal convento dei preti, cadiamo in pieno in un’imboscata di soldati ruandesi che sparano senza alcun preavviso sul nostro veicolo. Sono una trentina. La nostra camionetta è crivellata di colpi, ma miracolosamente nessuno di noi è ferito. Ho avuto il tempo di sfoderare il kalashnikov e tirare sul mucchio. Non so se con successo o no.

Ritornati a Amsar, dei soldati congolesi ci aspettano per dirci che dobbiamo raggiungere il comandante di brigata e tutti gli altri a Kavumu. Arrivati all’aeroporto, siamo sopresi di vedere Tshapul che cerca di obbligare un gruppo di ufficiali congolesi a deporre le armi. La maggior parte obbedisce, tranne il suo segretario particolare, il comandante Epelela, e il capo logistico, Juvénal Kachungunu. Quei due gli girano le spalle e se ne vanno. È ciò che li ha salvati.

Infatti, sulla pista d’atterraggio, un gruppo di soldati, per la maggior parte Ruandesi, è stazionato di fronte a un altro gruppo, composto esclusivamente da militari congolesi. Tra i due gruppi sta il comandante Tshapul, circondato da Sion Malekera, Thierry Ilunga, Kilofuka e Mutshapa. Due infermieri militari si trovano nel gruppo di militari congolesi. Tshapul ordina loro di togliersi i loro camici bianchi, le fissa in cima a dei bastoni che brandisce levando il braccio, chiedendo la calma. Aveva sentito che la tensione cominciava a crescere e che i soldati congolesi sospettavano ormai di qualcosa.

Nessuna pietà

Tutto accade allora molto rapidamente: il gruppo dei Ruandesi, su ordine di Tshapul, ordina ai Congolesi, che avevano già deposto le loro armi, di levare le mani in alto. I Ruandesi raccolgono le armi e poi ordinano a tutti i soldati disarmati di stendersi sull’asfalto della pista d’atterraggio. Obbediamo. Ci perquisiscono uno dopo l’altro. Uno di questi bastardi s’impossessa del mio orologio e dei 640 franchi congolesi (circa 360 dollari) che mi erano stati consegnati a Nyangezi per la cassa mutua degli ufficiali.

Ricapitoliamo: siamo tutti stesi sulla schiena, le mani incrociate sotto la nuca, tranne il comandante Tshapul, Malekera, Kilopoka, Ilunga e Mutshapa, e tre ufficiali dell’APR (Armata Patriottica Ruandese, l’esercito ruandese, ndt) che non ho mai visto né prima né dopo gli eventi che qui racconto. Il comandante Kifuita, capo del personale (SI) della nostra brigata, si mette a piangere, supplicando di lasciarlo in vita in cambio di un sacco di dollari che ha lasciato nel suo automezzo, posteggiato a pochi metri di distanza. Il comandante Eric Ruhorimbere, un giovane Ruandese molto conosciuto a Bukavu dove si fa passare per un Tutsi congolese, un Munyamulenge, estrae la sua pistola e tira un colpo nell’orecchio destro di Kifuita. Costui crolla.

Per mano dei kadogo

Noi non sussultiamo e restiamo stesi mentre Tshapul, Ilunga e Malekera si ritirano in mezzo alla pista d’aviazione. Dopo qualche istante di conciliabolo, tornano da noi. Ci ordinano di alzarci, cosa che facciamo tutti rapidamente. Siamo in seguito divisi in tre gruppi, gli ufficiali da una parte, le ex-FAZ (ex-militari dell’esercito di Mobutu) dall’altra e i “kadogo” (ragazzi soldato) in mezzo. Obbedendo a non so quale istinto, mi metto nel gruppo dei kadogo, cosa che non mi è difficile a causa della mia piccola statura e della mia apparenza giovanile.

Tshapul ci ordina di spogliarci completamente e di gettare i nostri abiti lontano da noi. In un batter d’occhio, siamo tutti in mutande. Nuovo conciliabolo attorno a Tshapul, durante il quale dei Ruandesi ci obbligano a intonare canti religiosi. Questo dura un quarto d’ora, poi tornano verso di noi. Devono essere all’incirca le 11 del mattino. Di nuovo, si separa il gruppo degli ufficiali per categoria: i capi plotone, i capi sezione, gli infermieri, gli amministrativi…

Io continuo a restare nel gruppo dei kadogo. Eric Ruhorimbere ci ordina di intonare la canzone militare swahili “Tunapangiya wajinga” (“ci occupiamo degli idioti”), una canzone che si insegna ai soldati nei centri d’istruzione. Tshapul non dice nulla, accontentandosi di sorridere quando uno degli ufficiali ruandesi ci dice di fare la nostra ultima preghiera perché è arrivata la nostra ultima ora.

Il comandante Eric dice a un altro ufficiale ruandese di far avanzare quaranta kadogo con le loro armi. Il massacro comincia. Lo stesso Eric comanda il plotone d’esecuzione: fa uscire gli ufficiali dai ranghi a gruppi di dieci., fa segno ai kadogo che sparano sul mucchio. Gli ottantasei ufficiali crollano come burattini in meno di due minuti. Quelli che cercano di scappare sono inseguiti dai kadogo o dagli ufficiali. Dove potrebbero del resto nascondersi, vista la larghezza della pista d’atterraggio.

Fatto questo, di nuovo ci raggruppano insieme, ex-FAZ e kadogo, e ci ordinano di continuare a cantare. Un Ruandese passa in mezzo ai cadaveri con il suo revolver in mano e tira su ogni ufficiale che sembra ancora in vita. Poi si avanza verso di noi, presto raggiunto da Tshapul e da un kadogo della scorta di quest’ultimo. Quest’ultimo indica col dito gli ex-FAZ e qualunque altra persona che non gli piace. Appena indica qualcuno, il Ruandese alza la sua pistola e spara.

Scampato per un gesto di pietà

Arrivato davanti a me, Tshapul leva il braccio destro, ma il Ruandese passa. Mi ha guardato bene negli occhi e mi sembra che un lampo è passato nel suo sguardo, come se mi avesse riconosciuto. La pista è diventata una pozza di sangue, un ammasso di cadaveri!

L’olocausto è durato in tutto una trentina di minuti. Terminata l’ispezione, ci viene detto di sederci di nuovo per terra. Mezz’ora dopo, un soldato munyamulenge della famiglia del vice-governatore di provincia Benjamin Serukiza mi tira vicino a sé mentre i nostri carnefici hanno le spalle voltate. È quasi un amico, col quale avevo spesso avuto occasione di condividere un bicchiere. Mi fa salire nella sua Land-Rover e mi consegna un’uniforme militare che ha tolto da sotto il sedile dell’autista. Mi dice di seguirlo ovunque e fare come se fossi la sua guardia del corpo, confidandomi che avevo fortuna perché l’accordo era che il massacro non doveva lasciare alcun sopravvissuto.

Quando si rende conto che gli altri sono distratti, mi porta in disparte e mi chiude in uno dei container vuoti, promettendo di venirmi a cercare più tardi. Torna infatti dopo il calar della notte, mi fa uscire dal mio nascondiglio e mi informa che i corpi dei miei colleghi sono stati sepolti ai lati della pista, altri bruciati con benzina. Thsapul, Ilunga e Malekera sono già rientrati a Bukavu. Il mio salvatore munyamulenge mi rimette nel gruppo dei soldati restati vivi all’aeroporto, assicurandomi che sarebbe tornato a prendermi. Prima di questo, mi tolgo la divisa militare che mi aveva dato e mi ritrovo in mutande, come tutti gli altri.

Nuova selezione

Qualche ora dopo la partenza del mio “salvatore”, un ufficiale ruandese s’avvicina e domanda a tutti quelli che fra noi sanno leggere e scrivere di alzare la mano. Ancora una volta, una forza inspiegabile mi impedisce di farlo. Altri levano la mano, sperando così di trovare salvezza. Sono separati dal gruppo e disposti in disparte, a qualche metro di distanza. Tra essi, quelli che abitano a Bukavu sono selezionati e condotti davanti ai capannoni della RVA (Régie des Voies Aériennes). Meno di cinque minuti dopo, risuonano lunghe raffiche di mitra, seguite da grida orribili. Approfittando dell’oscurità della notte e della distrazione dell’unico guardiano rimasto sul posto per sorvegliarci, mi dileguo discretamente nei campi di manioca che fiancheggiano la pista. Striscio fino al bordo del ruscello, dove resto steso tutta la notte, senza muovermi né fare il minimo rumore. Durante tutto questo tempo, le sparatorie continuano a intervalli più o meno lunghi, dalla parte dei capannoni dell’aeroporto.

Un vecchio accanto al fuoco

Alle prime luci dell’alba, avanzo prudentemente attraverso campi e bananeti fino al villaggio di Kavumu a circa 4 km dalla pista di atterraggio. Senza sapere cosa faccio, entro nel primo recinto che trovo, mi precipito in una capanna da cui esce del fumo. Un vecchio è seduto davanti a un fuoco di legna, attendendo con ogni probabilità che faccia più chiaro per svolgere l’una o l’atra occupazione mattutina. È sorpreso di vedermi far irruzione in casa sua quasi nudo a quest’ora insolita. Lo tranquillizzo, mi siedo in parte al fuoco e mi metto a spiegargli ciò che è successo, senza nulla omettere e tremando di paura, di freddo e di fame.

Il vecchio è preso da compassione. Come tutti all’intorno, ha udito gli spari della vigila e di tutta la notte. Mi offre ospitalità e mi prega di nascondermi presso di lui per tutto il tempo finché non mi sentirò in sicurezza.

Due giorni più tardi, mercoledì 5 agosto, decido di partire. Il vecchio mi lascia gli abiti che m’aveva dato al mio arrivo presso di lui, due giorni prima. Mi consegna anche un vecchio mantello lacero e un vecchio cappello di paglia. Mi presta una zappa scheggiata e mi accompagna, a piedi, fino a Kazingo, all’entrata di Bagira, a circa 22 km da casa sua. Cammin facendo, mi spiega che anche se incontrassimo una pattuglia, essa ci prenderebbe, a causa del nostro abbigliamento e soprattutto delle zappe che portiamo sulle spalle, per due coltivatori che vanno nei campi o ne tornano.

Inoltre, è pronto a giurare che sono suo figlio. Ha tenuto ad accompagnarmi perché nessuno nella contrada conosce meglio di lui le scorciatoie e i sentieri nella boscaglia. Sarebbe stato infatti molto pericoloso percorrere tutta questa distanza sulla strada, Basterebbe che dei militari in un automezzo ci incrocino due volte di seguito per sospettare che noi non siamo del luogo. Senza contare che potremmo incrociare militari che mi riconoscerebbero. Arrivati dunque a Kazingo, il vecchio recupera la sua zappa e torna indietro dopo avermi benedetto lungamente e con molta sincerità.

È così che, travestito da coltivatore, arrivo a sera a casa mia affamato, assetato, estenuato. Oggi ancora, dopo tanti anni dai fatti, tutti coloro cui racconto la mia storia bizzarra continuano a chiamarmi “Mai-mai”, colui che è invulnerabile ai proiettili. Dopo questo, ho continuato a render visita al mio caro vecchio che mi ha quasi adottato a figlio. Ho preso a casa mia uno dei suoi nipoti e gli pago le scuole superiori.

10 agosto: parata davanti al nostro carnefice

Lunedì 10 agosto, una settimana dopo la “liberazione” di Bukavu, tutti i militari della guarnigione di Bukavu sono invitati a una parata al campo militare Saio. Chiaro che ci vado. Il comandante Tshapul sobbalza riconoscendomi nel momento in cui gli rivolgo il saluto militare. Tenta di intimidirmi col pretesto che mi presento senz’armi alla parata. Gli chiedo di spiegarmi per quale miracolo potrei ancora possedere un fucile o anche una pistola dopo ciò che è successo a Kavumu. Mi fa segno di non dire nulla a nessuno. Dopo la parata, mi chiede di salire nel suo automezzo e mi lascia alla piazza dell’Indipendenza. Mi consegna tre biglietti da 100 $ e mi assicura che posso sempre domandargli qualsiasi servizio, lo farà.

Diverse settimane dopo, vengo informato dai colleghi che i comandanti Juvénal Kachungunu ed Epelela erano riusciti a sfuggire ai loro inseguitori a Kavumu. In seguito, hanno camminato senza sosta per intere settimane fino a Kindu (a più di 800 km), passando per Bunyakiri. A Kindu, capoluogo della provincia del Maniema, si sono presentati al generale Denis Kalume Numbi, che vi comandava l’esercito regolare. Costui li ha imbarcati in un aereo che li ha condotti a Kinshsasa dove hanno ripreso servizio.

Eroi da onorare

Riassumendo, tutti gli ufficiali presenti a Bukavu erano al corrente dei preparativi della seconda guerra di “liberazione”. Alcuni hanno assistito alle riunioni preliminari che avevano avuto luogo a Cyangugu, in Ruanda. Gli ottantasei ufficiali uccisi a Kavumu hanno pagato con le loro vite il loro rifiuto di tradire il paese appoggiando l’aggressione ruando-ugandese contro la loro patria. Non meriterebbero forse di essere chiamati eroi e d’essere onorati come tali?

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Correggiamo un errore e aggiungiamo un link prezioso. La “bottewga” dice di nuovo grazie a Teresina (TC), preziosa traduttrice e amica solidale.
    1 – C’è un errore nel testo di Déo Namujimbo: secondo le fonti meglio informate, gli ufficiali congolesi uccisi a Kavumu sono 46, non 86, come due volte detto nel testo.
    2 -OCCHI D’AFRICA
    Il 2 agosto, in occasione del 25° anniversario dell’inizio della guerra del 1998 nella Repubblica Democratica del Congo, ho scritto due righe a Constantin Charhondagwa, un anziano testimone della Società Civile dell’Est del Paese. Ne è nato un dialogo che mi ha dato uno sguardo diverso sulla situazione attuale in Niger e altrove. ( T .C., 6.8.2023)
    D. : In occasione del 25° anniversario dell’inizio della guerra nel 1998 nella Repubblica Democratica del Congo, chiediamo che si faccia verità e giustizia per una vera riconciliazione.

    R.: Come possiamo riconciliarci con coloro che persistono nel fare la guerra? Coloro che fanno la guerra sembrano non aver ancora raggiunto il loro obiettivo di sterminare tutti i Congolesi per occupare il paese.

    D.: Questo anche grazie alla complicità internazionale…

    R.: Sono felice che i giovani africani stiano prendendo coscienza. Non si libera un popolo. Il popolo si libera da sé stesso. La Francia ha già la sua parte in Africa occidentale. Pregate sempre per noi.

    D.: Sì, ma se i popoli dell’Africa potessero risorgere senza ricorrere ai potenti, né a destra né a sinistra…!

    R.: Bisogna scegliere il male minore. La Cina e la Russia, a cui si rivolgono gli Africani, ora ci penseranno due volte quando avranno a che fare con gli africani. Per oggi, gli Africani hanno ancora bisogno di queste potenze per far riflettere gli Occidentali. Dopo questo episodio, verrà il momento di un rapporto alla pari.

    D.: I leader africani devono comunque tenere gli occhi aperti!

    R.: Vedendo il sostegno della popolazione a questi golpisti, senza timore di sbagliare credo che gli Africani abbiano sete di liberazione. Quando sento come il presidente Macron reagisce con orgoglio e disprezzo nei confronti degli Africani, questo non può che rivoltare le persone. Quando chiede ai suoi colleghi della NATO di unirsi per mantenere la loro posizione militare nel Sahel, cosa significa? La sua argomentazione è la presenza dei jihad in questa regione. C’erano forse jihadisti nel Sahel prima che Sarkozy e i suoi complici assassinassero Gheddafi per gelosia? Prima che gli americani assassinassero Saddam?
    Quando Macron si dichiara pronto ad aiutare a riportare al potere, con la forza, il deposto presidente nigerino, cos’è questa ingerenza in uno Stato terzo? Chi non sa che è stata la Francia a creare la ribellione CELCA in Centrafrica? Chi non sa che è stata la Francia a creare la ribellione Tuareg nel nord del Mali?
    Quando l’Unione Europea e gli USA, invece di chiedere al loro intermediario Kagame di lasciare il Kivu, lo armano per sterminare i Congolesi, e allo stesso tempo propongono di inviare aiuti umanitari agli sfollati nei campi di fortuna, giocano a fare i pompieri prendendo i Congolesi per idioti.
    Nel Kivu non abbiamo bisogno di aiuti umanitari. Abbiamo solo bisogno di pace, perché le persone possano tornare a casa, coltivare le loro fertilissime terre e nutrirsi con dignità.
    Sì, i leader africani dovrebbero rimanere con gli occhi aperti, ma purtroppo molti al potere sono ancora manager di potenze straniere a cui rendono conto, invece che render conto al loro popolo. Quindi, sono mercenari di cui bisogna liberarsi.
    Non importa quanto sia lunga la notte, prima o poi arriva il giorno.

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