Congo, la casa delle bambine
di Massimo Lambertini (*)
Fin dagli anni Novanta il Kivu, estrema regione orientale della Repubblica Democratica del Congo, è stato teatro, oltre che di due vere e proprie guerre, di conflitti tra gruppi armati delle più varie ispirazioni. In gioco c’è
sempre lo sfruttamento del sottosuolo, ricchissimo di minerali preziosi e rari. Il terrore è il mezzo con cui le milizie controllano il territorio: uccisioni efferate, stupri, rapimenti, arruolamenti forzati anche di minori. L’insicurezza permanente insieme alla grande povertà che ne deriva, minano la coesione sociale, tanto che i casi di bambini accusati di stregoneria sono diventati molto numerosi.
«Queste cose non ci sono mai state – spiega Natalina Isella, brianzola laica consacrata che da 36 anni opera nel sociale a Bukavu, capoluogo del Sud-Kivu, e dintorni –. Tutto è incominciato con la guerra. La gente è scappata a lungo da una zona all’altra fino ad arrivare in città. Hanno dovuto farsi carico anche degli orfani o dei figli di ragazze-madri. Qui il valore della famiglia è molto forte, sentono che quei bambini gli appartengono. Ma sotto il peso delle difficoltà, dei problemi, delle tensioni che non riescono più a gestire, cercano di dare un senso alla sofferenza, una spiegazione al male. Allora si ricerca un capro espiatorio». Così se in famiglia accade una disgrazia, come una morte improvvisa, può succedere che venga imputata a uno dei suoi membri, quasi sempre una bambina, magari quella troppo vivace o caratteriale, con vincoli di parentela meno stretti.
Con l’accusa di stregoneria si rende socialmente accettabile l’allontanamento di un minore. E c’è comunque una bocca in meno da sfamare. Queste bambine, in genere sui 10-12 anni, vengono portate dalle famiglie presso una delle numerose sette religiose per avere conferma (a pagamento) dei loro poteri nefasti. Lì, per giorni, devono cantare e pregare, oltre a essere sottoposte a digiuni, affinché ammettano di essere streghe. Se non lo fanno, vengono picchiate e torturate fino alla “confessione”. Quindi sono cacciate in strada, dove rischiano abusi di ogni tipo. Se hanno fortuna, qualcuno le segnala a Natalina o ai suoi educatori e presto entrano in Ek’Abana (La casa delle bambine in lingua mashi), il progetto di cura e reinserimento familiare da lei fondato nel 2002, oggi diventato un Centro di accoglienza.
– Natalina, le bambine che vengono accusate di stregoneria si sentono veramente in colpa? Lei come lavora per curare questi traumi?
«La bambina ha dovuto accettare l’accusa. Io le dico: ora prova a chiudere gli occhi, lascia perdere quello che ti hanno detto gli altri, cerca di interrogare il tuo cuore. Nel tuo cuore cosa senti, senti che sei una strega? Lei risponde che sente che non è una strega, che glielo hanno detto i grandi. Allora le dico che la voce del cuore dice sempre la verità e cerco di farla ragionare, di provare a vedere anche se certi suoi atteggiamenti hanno provocato questa accusa. Le dico che tante volte gli adulti si sbagliano, che le hanno fatto del male e non ne avevano diritto.
Cerco di non entrare nei meandri della stregoneria, guardo alle sofferenze causate alla bambina e seguo ciò che succede dentro di lei, come resta ferita e offesa per queste accuse e la aiuto a vederne il perché, portandola piano piano sulla strada del perdono. Perché se non arriviamo al passo del perdono, lei non riuscirà mai a reinserirsi, sarà sempre arrabbiata con tutti e con se stessa. E così, passo dopo passo, si incomincia un percorso di ascolto e di guarigione».
– E nei confronti della famiglia come agite?
«Agiamo allo stesso modo, cercando di analizzare insieme i fatti concreti. Se la causa è la morte di un bimbo, se aveva la dissenteria e la mamma l’ha portato da una setta, pregando tutto il tempo senza curarlo, provo a ragionare con lei. Cerco di farle capire che forse aveva una malattia banale e che forse se lo avesse portato al dispensario, si sarebbe potuto curare e non sarebbe morto disidratato. Abbiamo anche l’aiuto delle autorità locali, che quando fanno il loro dovere sanno animare bene la gente, sanno prendere una posizione a favore dei piccoli, perché adesso per la legge congolese è reato accusare un minore di stregoneria. Non sempre accade e non sempre questa sensibilizzazione ha successo».
– Le accuse possono essere strumentali, possono nascondere motivi economici?
«Eh sì, eccome. Visitando più volte il quartiere, qualche volta portando con noi la bambina, si guarda alla reazione della gente. Spesso si capisce che le cose non stanno come ha raccontato la famiglia, che forse c’è sotto qualcosa. A volte si tratta di motivi di eredità, per cui, ad esempio, la si vuole escludere perché figlia della prima moglie piuttosto che della seconda, quindi ci sono fratture nel gruppo familiare.
Allora io sono diretta e dico: non vedi che forse ce l’hai con quella bambina per questo motivo pratico? Non vuoi che ti aiutiamo a chiarire la cosa, a rifare la pace? A volte ci lasciano fare e le famiglie si riconciliano. Così la bambina diventa un elemento di ricomposizione».
– Ci sono tappe particolari nel percorso di reinserimento?
«La prima domenica di giugno, durante la messa, facciamo la celebrazione del perdono con i genitori che vogliono o possono venire e alcune delle bambine che abbiamo preparato per il reinserimento. Invitiamo anche la corale del quartiere, che sceglie i canti più adatti, sul perdono e sulla misericordia.
Dopo questa cerimonia incominciano a riavvicinarsi. Per la piccola è molto importante perché ha bisogno di un segno di accoglienza. In caso contrario vive nella paura che la famiglia non la voglia più. E’ un percorso lungo e faticoso che può richiedere anche 2 o 3 anni. Per quelle più piccole, come quelle di 6 anni, ci vuole ancora più tempo».
– Quante sono le tue piccole ospiti?
«Attualmente sono 20 ma due anni fa erano in media 35: quando cresce l’insicurezza o la paura della guerra c’è una recrudescenza di questi casi. A queste se ne aggiungono altre 20, ospitate perché le famiglie non riescono a mantenerle o perché il nucleo familiare si è disgregato».
(*) Pubblicato su «Combonifem», ottobre 2014