Congo: sempre fra guerra e sfruttamento

Un reportage di Marina Piccone da Goma, in attesa della visita di papa Francesco (*)

GOMA

La tragedia di un popolo tra guerra e sfruttamento

Le parrocchie di Goma, capoluogo del nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, sono tutte in fermento. Da quando Papa Francesco ha annunciato la sua visita nella città, il prossimo luglio, sacerdoti e fedeli si stanno preparando con preghiere e canti propiziatori di pace, benedizione, riconciliazione, gioia. E’ la prima volta che un Papa si reca in questa parte di Congo, la più martoriata dalle guerre che si sono succedute dal 1993, e l’entusiasmo è tanto. L’incontro si svolgerà a Kibati, a circa 15 chilometri dal capoluogo, nel comune di Nyiragongo, là dove sorge il vulcano omonimo, il quale, nel 2002, eruttò un’enorme quantità di lava nera incandescente che arrivò fino a Goma, a circa venti chilometri di distanza, distruggendo parte della città e interi villaggi e tagliando in due la pista dell’aeroporto, che è rimasto chiuso per anni per i voli internazionali.

L’arrivo del Papa è un evento particolarmente significativo per la popolazione perché il Nord-Est del Paese è devastato da decenni dalle violenze di innumerevoli gruppi armati tanto che, nelle province di Goma e dell’Ituri, il 6 maggio 2021, è stato proclamato lo stato d’assedio. Ma ci sono in atto proteste e anche un’indagine da parte della Commissione Difesa e Sicurezza dell’Assemblea Nazionale per valutare l’operato dei militari, che governano tutte le istituzioni delle province, compresa la giustizia. Non si capisce perché, infatti, le brutalità continuino nonostante i mezzi dispiegati. Un anno dopo l’istaurazione della legge marziale sono aumentati gli omicidi, gli atti vandalici e il numero degli sfollati dai villaggi rasi al suolo. “Si può dire chiaramente che lo stato d’assedio non ha funzionato”, afferma Jean-Damascène Kinamula, docente di Filosofia politica all’università di Kinshasa, la capitale, e vice direttore generale dell’Istituto dei musei nazionali del Congo. Nato a Goma, torna spesso per lavoro e in visita ai genitori e conosce bene la situazione. “Nelle zone di grande insicurezza, i villaggi dove si trovano le miniere, niente sembra essere cambiato in modo significativo. Le uccisioni dei civili continuano e, a volte, si svolgono in modo più crudele di prima. Nella città di Goma non c’è una guerra vera e propria ma i controlli, attraverso il coprifuoco e i numerosi posti di blocco, si sono moltiplicati, rendendo più difficile la vita dei cittadini. La presenza dei militari ha instaurato un clima di paura maggiore di quello che c’era prima. Ci vuole poco per essere accusati di far parte dei gruppi ribelli, ad esempio. A parte questo, la popolazione affronta normalmente le sue lotte quotidiane: la ricerca del cibo da parte delle persone in difficoltà, che sono tante; la mancanza di acqua e di elettricità in parecchi quartieri; la carenza di giustizia per i ‘piccoli’ di fronte ai potenti; l’insicurezza legata a vari fenomeni di banditismo, come i rapimenti di adulti e di bambini; la disoccupazione, sempre crescente fra i più giovani, che vengono spinti a rifugiarsi nelle varie forme di banditismo e nei movimenti ribelli”. E anche i fenomeni naturali non aiutano. Il 22 maggio del 2021 c’è stata un’altra eruzione che, seppur meno devastante di quella del 2002, ha provocato seri danni. Molte persone hanno perso le loro case e sono ancora nei campi in attesa di trovare una sistemazione dignitosa. “Per sei mesi sono stati assistite da Ong internazionali e locali, come Oxfam, Caritas Congo, Caritas Internationalis”, racconta Bwiza, che parla italiano perché ha vissuto qualche anno nel nostro Paese per motivi di studio, alcuni dei quali presso la Fraternità Missionaria di Vicomero, fondata da padre Silvio Turazzi. “Poi, senza offrire alternative, il governo ha chiesto a tutti di ritornare in città. Di conseguenza, le Ong non possono più offrire assistenza a quelli che sono rimasti nei campi. Alcuni sono tornati nei loro villaggi e si sono costruiti da soli una nuova casa sopra la lava vulcanica, a proprio rischio e pericolo. Inoltre, si sono creati falsi sfollati, con la complicità di chi gestisce i soldi che il governo ha messo a disposizione per i sinistrati. E cosi si va avanti, sperando che il domani sia meglio di oggi”.

L’annuncio della visita del Papa in Congo e, in modo particolare, a Goma, ha suscitato entusiasmo non solo fra i cattolici ma in tutta la popolazione congolese. L’ultima visita di un Papa risale a 37 anni fa, quando andò Giovanni Paolo II. “Francesco, da tanti anni, è diventato il portavoce delle grida di un popolo vittima delle guerre orchestrate a livello internazionale dalle multinazionali che sfruttano illegalmente i minerali del Congo”, dice Bwiza. “In questa visita vedo la vicinanza del Papa al popolo congolese che continua a soffrire, in modo particolare nella zona dell’Est”.

La testimonianza di padre Silvio Turazzi

La vita è un dono che ci è affidato in gestione”

Lo si vedeva sfrecciare per le vie di Stellata di Bondeno (Ferrara), il suo paese natale, in bicicletta, fedele compagna di quella che lui chiama la prima fase della sua tappa terrena. La seconda fase coincide con un terribile incidente in cui, a 30 anni, perde l’uso delle gambe, costringendolo su una carrozzina. Ma questo non impedirà a p. Silvio Turazzi, missionario saveriano, di portare a compimento il suo progetto di vita, percorrendo strade impervie, in senso letterale e non, con il suo nuovo mezzo di locomozione. Ma partiamo dall’inizio. Un’infanzia molto bella, con due genitori amatissimi e cinque fratelli, uno dei quali, Andrea, è diventato vescovo di S. Marino-Montefeltro. “Eravamo molto uniti”, racconta p. Silvio, il viso affilato e il sorriso mite. “Ci volevamo molto bene”. Il piccolo Silvio entra in seminario a 12 anni. Gli studi di Teologia e poi l’ordinazione a sacerdote il 30 maggio 1964, a 26 anni, “qualcosa come continuare il mestiere di Gesù”. Dopo due anni di parrocchia, entra all’Istituto missionario dei saveriani, a Parma, con l’idea ben chiara di vivere la sua vita sacerdotale in maniera itinerante e non stanziale, “un modo di guardare il mondo con gli occhi di Dio; camminare con Lui per sanare, unire, riconciliare”. A piedi o, preferibilmente, in sella alla sua bicicletta, con la quale fa anche qualche pellegrinaggio. E’ in partenza per il Giappone quando, il 1° maggio ’69, un incidente d’auto gli spezza la spina dorsale, “l’incontro duro con la sofferenza”. Nove mesi di ospedale e tempo di riflessioni e di riprogettazione del futuro. “In quei giorni il Signore mi ha ripetuto – Sono qui -. Mi aiutava a rimettermi a zero, a cogliere meglio l’essenziale”. Senza spazio per la commiserazione, “cambiava la modalità, non l’orientamento della mia vita. Pur nella disabilità, decisi di rimanere missionario sulla strada”.

Nel ’71, dall’opulenta Emilia Romagna si reca a Roma, fra i baraccati dell’Acquedotto Felice, con i quali condivide la battaglia per la casa. Insieme alle amiche Edda Colla, che rimarrà sempre al suo fianco, fedele alla promessa fatta dopo l’incidente in cui era rimasta coinvolta anche lei, e Paola Mugetti. “Abitavo sotto agli archi dell’acquedotto, diventati abitazione per tante famiglie che venivano soprattutto dalle Marche e dalle Puglie. Lo spazio era sufficiente solo per il letto e la carrozzina. Con altre centinaia di persone facevamo vita comunitaria. C’era molta umidità e i bambini si ammalavano. Per racimolare soldi facevo l’impagliatore di sedie”. Ottenuti le case e i servizi, p. Silvio dichiara concluso il suo lavoro e chiede di andare in missione in Africa. Il 3 dicembre ’75 parte per la Repubblica Democratica del Congo, allora Zaire, insieme a Edda e Paola. A Goma, dove arriva nel ’77, vive e lavora in un Centro per disabili. “Ho pensato alla novità del sentirmi fratello in un contesto dove la gente è stata tante volte umiliata da una presunta superiorità razziale. Quando gli abitanti mi hanno visto dire messa in carrozzina hanno detto: “Allora, è uno come noi!”. Nella città congolese realizza un piccolo villaggio della solidarietà, Muungano, dove si trasferisce insieme ad altri compagni, costituendo la Fraternità Missionaria, una casa comunitaria di quartiere. “Ci occupavamo di sociale, salute, alfabetizzazione. Abbiamo creato laboratori di artigianato, falegnameria, cucina, cucito. Ci è sembrato che la popolazione apprezzasse il timbro personale della nostra presenza, il desiderio di migliorare il luogo in cui vivevamo, l’aver lasciato la nostra terra per vivere in spirito di fraternità”. L’impegno sociale non è disgiunto da quello politico. “Non potevamo dimenticare le responsabilità del nostro Paese nel traffico delle armi, nel commercio ingiusto tra il Nord e il Sud. Sentivamo il bisogno di fare pressione sulle nostre autorità per un impegno di pacificazione”: contatti diretti con il presidente della Repubblica e con il ministro degli Esteri italiani; raccolta di firme, digiuni, collegamenti con i gruppi in Italia impegnati nella regione dei Grandi Laghi, produzione di documentazione audio-visiva per sensibilizzare gruppi e comunità ecclesiali. Le iniziative sono tante perché “anche noi siamo corresponsabili del dramma che ha toccato il popolo congolese. Il nostro governo, come tanti altri, non ha fatto nulla per fermare la pazzia dei massacri, per far applicare l’embargo totale delle armi e per favorire reali condizioni di pace”.

Pensava di finire lì la sua vita, p. Silvio, ma, nel ’92, una grave malattia lo costringe a tornare urgentemente in Italia e, dopo un altro tentativo di ritorno in Congo, a rientrare definitivamente alla fine del ’93, con la promessa, però, di passare due mesi l’anno nella città africana. Riparte nel ’94, nel momento del genocidio in Ruanda, quando circa due milioni di profughi ruandesi si rifugiarono nel Kivu, più di un milione a Goma. “Fu un tempo durissimo. La gente, allo stremo delle forze, si adagiava come un tappeto sulla città e verso le colline formando un’immensa croce umana. Le condizioni erano invivibili. A pochi giorni di distanza dall’arrivo dei profughi, ci fu un’epidemia di colera che falcidiò 60.000 persone”. Tornato in Italia, contribuisce a fondare il Gruppo Africa e a organizzare una spedizione di giornalisti nel Kivu, perché la televisione e i giornali avessero una documentazione diretta di ciò che stava succedendo. L’associazione raccoglie firme e ottiene audizioni parlamentari “ma i responsabili dell’economia e della politica internazionale avevano altri piani. L’efficacia del nostro impegno era sempre molto relativa”.

Nel ’95, un’altra dura prova. In viaggio verso Loreto con le amiche di sempre, un’auto si abbatte sulla loro macchina. Paola muore. “Davvero la vita non ci appartiene, è un dono che ci è affidato in gestione”. E di nuovo l’attribuzione di un senso al dolore. “Il dolore non è un incidente, è un fatto legato alla vita, che si apre attraverso di esso. E’ una realtà che rappresenta un invito a tenersi per mano, l’attesa di qualcosa di più che avverrà oltre la dimensione spazio-temporale che stiamo vivendo. Il paradiso è l’ultima risposta”.

A Vicomero, a sette chilometri da Parma, inizia la terza fase della sua vita, con la costituzione di una famiglia allargata. Un piccolo agglomerato con tre case: in una, lui, Edda, alcuni ragazzi, studenti universitari, e due donne di diversa nazionalità; nelle altre, due famiglie. Un giardino con l’orto e una piccola cappella in legno. “Essere un gruppo disperso nel popolo era il progetto di vita che Edda e io avevamo fatto ancora giovani. Una consacrazione diversa rispetto a quella tradizionale, una presenza religiosa meno strutturata, più elastica e discreta. Una piccola comunità che prega e affronta insieme i problemi della vita nella quotidianità, con tutto ciò che questo comporta”. Nel corso degli anni, nella comunità si sono avvicendati 129 giovani, alcuni dei quali, dopo essersi laureati, sono rimasti in Italia mentre altri sono tornati nel loro Paese. Qui, la comunità gestisce un mercatino del riciclo e un laboratorio d’artigianato. Con i proventi di queste attività e l’aiuto di tanti amici sostiene l’associazione Muungano di Goma e aiuta i ragazzi a terminare la scuola e nella ricerca di un lavoro. Una vita sobria, fedele a un altro “precetto” del progetto di vita: “Tendere alla povertà intesa come libertà dalle cose e ricerca di ciò che conta”.

I viaggi nella Rdc si susseguono, con eventi significativi. Nel 2001, una missione di 300 giovani a Butembo, nel Nord-Est del Paese, organizzata da I Beati Costruttori di Pace. Un simposio internazionale per la pace che ha visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone. Nel 2006, le prime elezioni libere dopo circa 40 anni. Un tripudio di gioia, speranza, fiducia, che andranno presto deluse. Nel 2014, l’ultimo viaggio, per onorare la figura di mons. Christophe Munzihirwa, l’arcivescovo di Bukavu (capoluogo del Sud-Kivu) assassinato da militari ruandesi nel 1996 e per il quale, nel 2016, è stata aperta l’inchiesta per la beatificazione. “Un pellegrinaggio non solo sulla sua tomba ma nei luoghi del martirio di tanta gente del Sud e del Nord Kivu. E’ stato un invito forte a riflettere sulle responsabilità della nostra società occidentale, che trae profitto da queste guerre attraverso il traffico illegale delle ricchezze e offrendo il sostegno a regimi dittatoriali lontani dalla gente”. Centinaia di chilometri, da Uvira, la porta d’ingresso in Congo dal Burundi, a Goma, su strade dissestate, visitando campi di profughi e sfollati immersi nella polvere e nel fango e villaggi senza più abitanti, sterminati dai gruppi armati che imperversano nella regione del Nord Kivu. Un viaggio faticoso per tutti i 34 partecipanti. Per lui, già sofferente, di più. Al ritorno, una lettera a Papa Francesco per chiedere “una benedizione e uno sguardo particolare per le popolazioni che stanno vivendo la strage degli innocenti”.

Magro, la pelle diafana, senza più parole e sempre più fragile, p. Silvio ha la consapevolezza di essere alla fine del suo percorso. In questi ultimi due anni ha dato il suo contributo attraverso meditazioni quotidiane inviate agli amici. Qualche settimana fa, è voluto tornare alla Casa madre dei saveriani, dove tutto è cominciato. “La fase terrena è un tempo relativo, per questo non mi dispero. Sento di passare a un’esperienza più forte del mio limite, di scoperta del nulla di sé. Un passo verso l’infinito”. Giovedì 26 maggio, alle 10,30, p. Silvio ha iniziato il viaggio. Aspettava con serenità questo momento. Parlava della gioia di trovarsi al cospetto di Colui che ha amato e servito per tutta la vita con profonda dedizione. Lo immaginiamo mentre, felice, si alza dalla carrozzina, inforca la sua amata bicicletta e pedala lontano, fino a perdersi nell’orizzonte.

Storie dal Centro per bambini denutriti Muungano

In Africa la sopravvivenza è un’arte”

Sono stati Bitarò e Aimèe i primi due piccoli ospiti del centro per bambini denutriti di Goma. Era il 1980 e la capanna iniziale si è trasformata, con il tempo, in una casetta di legno e, infine, in un vero Centro Nutrizionale, edificato con il contributo della comunità ismaelita. La struttura sanitaria Muungano (Solidarietà, in lingua swahili), fondata dal missionario saveriano Silvio Turazzi, Edda Colla, missionaria laica dell’ordo Virginum, e Paola Mugetti, ha assistito, nel corso degli anni, 15.000 persone. Il suo funzionamento è sostenuto dall’omonima associazione italiana, Solidarietà Muungano, costituita dalla Fraternità Missionaria di Vicomero di Torrile (Pr), il cui presidente è p. Silvio Turazzi. L’organizzazione congolese si occupa di nutrizione, prevenzione, maternità, formazione per ragazze e ragazzi, adozioni a distanza, borse di studio, falegnameria. Nel 1994, l’anno del genocidio in Ruanda, nasce la Casa dei Bambini, per assistere gli orfani. “Goma era il centro di una grande regione dove si ammassavano milioni di profughi e milioni di problemi”, ricorda Edda Colla. Il Centro e la Casa hanno continuato a funzionare anche durante i bombardamenti “perché in Africa la sopravvivenza è un’arte e perché la volontà della gente supera gli interessi criminali del potere, interno ed esterno alla regione”. Nel 2002, il dramma si completa. La lava del vulcano Nyiragongo distrugge quello che le milizie avevano risparmiato. Anche l’ospedale dei bambini. Ma già dal secondo giorno, dopo un iniziale disperazione, con l’aiuto di tanti si comincia a ricostruire. Le strutture vengono inaugurate nel 2005.

Nel Centro Muungano è attivo anche un atelier, una struttura polivalente che cerca di sopperire alla disoccupazione giovanile, molto forte in città, con una scuola di avviamento al lavoro frequentata da circa 182 apprendisti nei differenti settori: alfabetizzazione, carpenteria, opere murarie. Nell’atelier ci sono anche un deposito di generi alimentari e un laboratorio specializzato nella manifattura di oggetti di artigianato esportati e venduti in paesi europei. Muungano si occupa anche dei detenuti della prigione di Goma, luoghi non facilmente descrivibili dove le ingiustizie e gli abusi sono eventi quotidiani. “Ai carcerati viene proposto un lavoro di tipo artigianale, soprattutto la confezione di cesti di materiale vegetale o la decorazione di biglietti augurali”, racconta Edda. “Come compenso vengono distribuiti buoni alimentari spendibili nello spaccio della prigione”. Ma Muungano, espressione della società civile di tutta la città, agisce anche nei confronti delle autorità di governo per l’applicazione di una giustizia sociale spesso del tutto disattesa. In molti casi, l’associazione è riuscita nell’intento di far liberare decine di prigionieri colpevoli di non avere alcun reddito e quindi impossibilitati a provvedere alla contribuzione personale minima.

Goma è stata per anni il crocevia della disperazione, per la guerra, la fame, la mancanza di un riparo, l’eruzione del vulcano, che ha causato lo sfollamento di migliaia di persone dai loro villaggi sepolti dalla lava. Tutto questo ha prodotto migliaia di ragazzi di strada: bambini soldato senza più “occupazione”, ragazzi drogati dalla colla, orfani. Muungano ha aperto un progetto di recupero in collaborazione con il centro salesiano di Nganghi, un polo scolastico a pochi chilometri dalla città. Il progetto si svolge in due fasi. La prima consiste nell’accoglienza dei ragazzi, circa 150 al giorno, offrendo loro un vestito e un pasto. Per chi non ha familiari, anche un letto. Il recupero è legato ai concetti di autostima e della responsabilità del lavoro di gruppo. Nei locali dell’Antenne, una serie di baracche spoglie di arredi ma cariche di operatività, si entra e si esce. I ragazzi fanno un primo tentativo, poi fuggono, poi ritornano. Non ci sono sbarre, non ci sono fucili, non ci sono capi, ci sono solo coordinatori e educatori, alcuni dei quali ex ospiti del centro. La seconda fase del progetto porta al reinserimento dei minori, attraverso l’impegno a un’istruzione scolastica di base e all’apprendimento di una professione.

Muungano svolge anche l’attività di microcredito. In un territorio quasi completamente privato dei mezzi di produzione, dove la forza lavoro è decimata e molti terreni sono coperti dalla lava, l’accesso a un servizio finanziario diventa una piccola ma fondamentale risorsa per la ripresa. Sono soprattutto le donne, da sole o unite in associazione, a richiedere un finanziamento per iniziare o migliorare un’attività produttiva.

Nel corso dei suoi 42 anni, l’associazione Muungano ha assunto una doppia cittadinanza, quella congolese e quella italiana. Un’associazione operativa sul campo, quella di Goma, l’altra, di supporto, a Vicomero di Torrile, attraverso varie attività: il mercatino dell’usato ‘Millecose’, per il recupero e la valorizzazione di oggetti di seconda mano; le adozioni a distanza; la sensibilizzazione nei confronti del continente nero attraverso la collaborazione con Chiama l’Africa e Rete Pace per il Congo; la sensibilizzazione, in particolare nelle scuole; il Banco alimentare; i laboratori di attività creative.

Oggi le nostre forze sono più ridotte”, dice Edda. “Ci siamo chiesti se chiudere o no l’esperienza avviata. Vari amici ci hanno esortato non solo a continuare ma ad ‘aprire la porta’. Il meglio deve continuare, lasciando a Dio e ai fratelli le novità del futuro”.

(*) pubblicato su «L’osservatore romano» del 31 maggio

 

Redazione
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Un commento

  • Grazie Marina…è importante ciò che fai. Del Congo non si parla mai..ma la sofferenza è tanta. Ma i grandi della terra sono insensibili…un duro cammino perchè le cose cambino invertire la rotta: partire dai più piccoli .sarebbe un mondo migliore per tutti..

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