Considerazioni sul Renacer Act contro il Nicaragua
La legge promulgata da Biden jr. in precedenza era stata approvata bipartisan prima al Senato e poi al Congresso Usa.
di Bái Qiú’ēn
Si nos quitan el pan, / nos veremos en la obligación / de sobrevivir como lo hicieron nuestros abuelos: / con el maíz fermentado / en la sangre de los héroes (Luis Enrique Mejía Godoy, 1982).
Non vi sono dubbi: l’Impero sa fare bene il proprio mestiere: tre giorni dopo aver dichiarato che le elezioni in Nicaragua sono state una pagliacciata, il 10 novembre Joseph Robinette Biden jr. ha promulgato la legge cosiddetta «Renacer», in precedenza approvata bipartisan prima al Senato e poi al Congresso.
«Renacer» è l’acronimo in inglese di «Rafforzare il rispetto delle condizioni per la riforma elettorale in Nicaragua» (Reinforcing Nicaragua’s Adherence to Conditions for Electoral Reform). Con questo atto legislativo si concedono ampi poteri al presidente: può imporre sanzioni a non finire, può opporsi alla concessione di prestiti da parte degli organismi internazionali (essenzialmente Banca mondiale, Fondo monetario e Banca interamericana dello sviluppo), può inserire il Nicaragua nella lista dei Paesi soggetti a restrizioni a causa della corruzione interna (reale o percepita che sia), può far svolgere indagini sulle attività russe nel Paese centroamericano (tramite la CIA?) e lo può sospendere dai benefici del trattato sul libero commercio tra Centro America, Stati Uniti e Repubblica Dominicana noto con la sigla DR-CAFTA.
Per quanto concerne le sanzioni «selettive» nei confronti di singole persone ritenute responsabili della violazione dei diritti umani, si auspica un coordinamento con il Canada, i paesi latinoamericani e la Unione Europea per una «risposta internazionale ampia e coordinata». Il verbo «auspicare» è eufemistico, ovviamente. La volontà dell’Impero non si discute.
Così come è impostato, si tratta di un atto contro il Nicaragua in quanto Paese abitato da sei milioni e mezzo di esseri umani, piuttosto che contro un sistema politico sgradito che si vuole rovesciare a tutti i costi.
Non si può certo dire che, dopo il suo scarabocchio che rende operativo il «Renacer», Biden abbia riflettuto a lungo su cosa fare. Passano appena sei giorni e, assieme al socio d’oltreoceano Boris Johnson, pone sotto sanzione un buon numero di politici e il Ministerio Público o Fiscalía (la locale Procura) in quanto istituzione che si è prestata al gioco della eliminazione di possibili candidati alle elezioni. Il Canada si è aggregato immediatamente, mentre la UE ne discute, ma non ci vuole molta fantasia a immaginare la decisione finale, data la sua dichiarazione sulla illegittimità del processo elettorale.
Immediatamente dopo, Biden ha rispolverato una vecchia arma di guerra, utilizzata alla fine degli anni Ottanta dal suo predecessore Ronald Reagan: il divieto per qualsiasi politico o funzionario pubblico nicaraguense di calpestare il suolo statunitense. Valido in primis per Daniel Ortega, Rosario Murillo e famiglia.
Nel frattempo, con la spada di Damocle della possibile espulsione o sospensione dalla Organización de los Estados Arrodillados (OEA) che ha dichiarato politicamente illegittime le elezioni svolte il 7 novembre, con un voto bipartisan l’Asamblea Nacional ha chiesto formalmente a Daniel il ritiro del Paese da questa istituzione, con un documento pubblicato nella Gaceta Oficial (Declaración A.N. No 05-2021). Su 87 deputati presenti, 83 hanno votato a favore della mozione, tre si sono astenuti e uno ha fatto il pesce in barile (per la cronaca, solo 70 erano stati eletti nella coalizione capeggiata dal Frente nel 2016). Al tempo stesso, tutti i venti deputati nicaraguensi al Parlamento centroamericano hanno sottoscritto una mozione praticamente identica. Soltanto quindici erano stati eletti con il Frente (compreso Guillermo Osorno, del quale abbiamo parlato di recente), gli altri cinque rappresentano partiti ufficialmente alla opposizione: tre del PLC e uno rispettivamente del PLI e dell’ALN.
Tralasciando il fatto che queste prese di posizione bipartisan dovrebbero fare riflettere su ciò che è la destra nicaraguense, o quanto meno quella parte di essa che si è riuscita a presentarsi alle elezioni, e che nei giorni successivi la stessa petizione a Daniel sia stata sostenuta pure dalla Corte Suprema, un altro dei poteri dello Stato, i tempi tecnici per giungere alla conclusione del percorso previsto dalla stessa carta dell’OEA (art. 143) per il ritiro sono abbastanza farraginosi e lunghi: un paio di anni secondo gli esperti. Per cui, sebbene il ministro degli Esteri Denis Moncada Colindres abbia iniziato le pratiche già il 19 novembre, è assai probabile che prima di questo periodo il Nicaragua sia espulso o sospeso, come da tempo chiedono vari Paesi del continente. Stati Uniti in testa.
Qualche incallito e tempestivo ottimista sostiene che «Uscendo dall’OSA Managua ottiene un risultato politico che avrà conseguenze operative positive, dal momento che la decisione disinnesca i piani di isolamento diplomatico e commerciale previsti da Washington» (Nicaragua, addio all’OSA, 19 novembre 2021), senza rendersi conto che non si disinnesca l’isolamento con l’auto-isolamento, e non considerando che la questione è assai più complessa del semplice sbattere la porta e andarsene.
Una delle controindicazioni è che non facendo più parte della OEA il Nicaragua potrebbe perdere la possibilità di richiedere e ricevere una parte di prestiti dai vari organismi internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario, Bcie, ecc.), ma soprattutto dal BID, la banca dello sviluppo i cui azionisti sono gli stessi paesi membri dell’OEA. Ciò non gioverebbe alla situazione economica nazionale e, di conseguenza, alla stabilità politica. Per la cronaca, nella bozza della legge finanziaria per il 2022 è previsto un deficit di bilancio di oltre 13 miliardi e mezzo di pesos (circa 4 miliardi di dollari), che si prevede di coprire con il finanziamento esterno.
Per non parlare dell’Organizzazione panamericana della salute, altro organismo strettamente collegato all’OEA, in un periodo di pandemia. Ma questo è un altro aspetto della questione che chi non vuole vedere, non vede neppure se ce l’ha sotto il naso.
Certo che se, per coerenza della linea auto-isolazionista, volesse rompere i rapporti con tutti i Paesi che non hanno riconosciuto il risultato elettorale, il comandante Daniel dovrebbe ritirare la maggioranza dei propri diplomatici e chiudere le relative ambasciate. Evento decisamente unico nella storia mondiale.
Per il momento, due decisioni hanno caratterizzato le sue scelte diplomatiche con il Decreto Presidencial 21-2021: la cancellazione della qualifica di ambasciatore «decano» tradizionalmente assegnata al nunzio apostolico e il passaggio degli accreditamenti diplomatici dal ministero degli Esteri a quello dell’Interno. Cosa ciò significhi in concreto, non siamo in grado di valutarlo appieno. Di certo la prima decisione non sarà molto gradita a Francesco, mentre la seconda indica una sorta di militarizzazione del corpo diplomatico nicaraguense.
Questo è il riassunto degli avvenimenti più rilevanti accaduti nelle due settimane immediatamente successive alle elezioni del 7 novembre.
Non possiamo prevedere il seguito, ma una considerazione generale è necessaria per comprendere i possibili sviluppi. Nella «Renacer» sono previste due possibili azioni che vanno ben oltre quelle già in essere da un paio di anni, come le sanzioni a singoli individui o ad alcune istituzioni (Polizia, Esercito e Banco Nacional), le quali colpiscono direttamente la popolazione nel suo complesso: il blocco dei finanziamenti da parte degli organismi internazionali e la sospensione dal DR-CAFTA. Se applicate, agiranno pesantemente sulla realtà economica non certo florida del Paese dopo gli avvenimenti del 2018, essendo nella loro essenza un vero e proprio embargo economico-commerciale.
Finora, al di là della retorica antimperialista che affascina e appassiona una parte della sinistra internazionale affetta da una sorta di romanticismo nostalgico, le sanzioni ad personam stabilite sia dagli Usa sia dalla UE sia da vari Paesi, hanno causato un impatto irrilevante sulla realtà economica, poiché sia il governo gringo sia quelli europei sanno benissimo che sarebbe controproducente applicare misure che colpiscano in modo diretto e indiscriminato l’intera popolazione del secondo Paese più povero del continente. Senza alcuna garanzia di ottenere il risultato sperato di indebolire l’orteguismo. A tutti gli effetti, entrambe queste azioni erano già previste nel cosiddetto «Nica Act» emanato da Donald Trump il 20 dicembre 2018 (Nicaragua Investment Conditionality Act), ma finora sono restate sostanzialmente sulla carta, se non per la sospensione di alcuni prestiti concessi in precedenza. A cui ha parzialmente sopperito il BCIE, del quale gli Usa non fanno parte, ma è strettamente relazionato all’OEA.
Una breve parentesi è necessaria: poiché le sanzioni individuali colpiscono i conti correnti, i depositi e gli affari economici che i sanzionati hanno negli Stati Uniti (per la UE, ovviamente vale il cambio di continente), quando si sono arricchiti i supposti rivoluzionari che oggi comandano in Nicaragua? Non si tratta di un pettegolezzo, per la semplice ragione logica che non avrebbe alcun senso bloccare qualcosa che non esiste. Sarebbe come imporre a un muto di tacere. Ciò nonostante, la propaganda orteguista grida al danno che queste fanno all’intero Paese, pur non potendo dimostrare l’impatto negativo sull’economia e sul precario tenore di vita della popolazione. Che la stessa propaganda interna ed esterna, peraltro, afferma essere migliorato negli ultimi anni, non rendendosi conto della palese contraddizione.
Per dovere di informazione, occorre ricordare che gli Usa importano oltre il 60% dei prodotti nicaraguensi realizzati dalle piccole e medie imprese sia industriali sia agricole, ma soprattutto nelle zone franche (maquilas). Vale la pena ricordare che il 90% del materiale grezzo utilizzato nelle zone franche proviene dall’estero, senza alcun beneficio per i produttori locali né per la economia nazionale. Le importazioni del Nicaragua dagli Usa sono circa il 30% del totale. È indubbio che il DR-CAFTA sottoscritto dagli Stati aderenti nel 2005 abbia contribuito alla crescita del Pil del Paese in questi anni, sebbene valga la pena ricordare che prima della sua approvazione e ratifica, quando era all’opposizione Daniel avesse vaticinato che l’adesione a questo trattato di libero commercio sarebbe stato il certificato di morte sia per gli agricoltori sia per i piccoli produttori. Tanto che il «più grande statista vivente», come lo considera qualche nostrano elogiatore affetto da culto della personalità, organizzò numerose e massicce manifestazioni di protesta, affermando che «Il governo [Bolaños] sta cercando di imporre un Trattato in cui si annuncia la morte dei produttori agricoli, i piccoli e medi produttori della città e della piccola industria, perché non potranno competere con una economia sussidiata come è quella nordamericana». La bancada del Frente, ossia il gruppo parlamentare, votò compattamente contro la ratifica (10 ottobre 2005). Giunto nuovamente al potere un anno dopo, occorre riconoscere che ne ha saputo approfittare in modo intelligente e vantaggioso per rimettere in sesto una economia disastrata dopo sedici anni di neoliberismo sfrenato. Sostituendolo con un neoliberismo mitigato dal welfare e lo ha venduto per anni agli investitori stranieri nel pacchetto di attrazioni che comprende la manodopera a basso costo e alla stabilità politico-economica.
Però, non ha saputo, non ha voluto o non è riuscito a differenziare i partner commerciali: le esportazioni corrispondono a circa il 35% del Pil (12.620 milioni di dollari nel 2020) e i due terzi sono verso gli Stati Uniti. In ogni caso, il Nicaragua è attualmente l’unico Paese con la bilancia commerciale attiva negli scambi con gli Stati Uniti: da gennaio a settembre di questo 2021 ha importato beni per un valore di 1.566 milioni mentre le esportazioni hanno raggiunto i 3.147 milioni (fino al 2007 non superavano i 500). Ciò si deve alla clausola di «nazione più favorita», mantenuta da Washington nonostante le crescenti divergenze politiche a partire dal 2018.
Come, con i 4 miliardi di dollari in dieci anni praticamente regalati dal Venezuela (un milione al giorno), non si è capitalisticamente provveduto alla creazione di una minima industria di trasformazione che avrebbe creato parecchi posti di lavoro, come non si è modernizzata l’agricoltura, continuando a preferire l’esportazione delle materie prime. A cominciare dall’oro, primo prodotto esportato nel 2020 (US$ 666 milioni), secondo i dati del CETREX, organismo statale.
Grazie al fatto di gestire l’economia e la politica su binari assolutamente separati, la facile retorica antimperialista di Daniel e la corrispondente becera retorica antisandinista di Washington, a partire dall’aprile del 2018, non hanno mutato di una virgola i rapporti economico-commerciali tra i due Paesi. I dati del Banco Nacional e dei ministeri economici lo dimostrano senza ombra di dubbio ed è indiscutibile che l’accordo pre-elettorale del 2006 con gli industriali li abbia arricchiti oltre le loro più rosee previsioni. E lo stesso Banco Nacional, facendo affidamento sul miglioramento delle esportazioni, prevede per questo 2021 una crescita economica del 7%, risultato che non si vedeva dal 1999 dopo il disastroso uragano Mitch.
Nelle 49 zone franche con 223 imprese, ormai sparse in tutto il Paese, sono supersfruttati e malpagati centoventimila addetti, in maggior parte donne, il che significa il sostentamento parziale o totale di circa mezzo milione di persone se si considerano come nuclei familiari (il salario minimo mensile concordato nel gennaio del 2021 è di 199 US$). Se vengono a mancare questi posti di lavoro, poiché agli impresari non conviene più esportare la massima parte della produzione in un Paese dove siano state ripristinate le elevate imposte doganali e non avendo mercati alternativi, quanti disoccupati emigreranno? Senza contare tutto l’indotto e persino i commercianti, che vedranno calare sensibilmente la loro clientela.
Sul 30% delle importazioni, quasi un terzo, non avendo più i benefici del DR-CAFTA, sulle tasche dei consumatori peserà una tassa doganale oggi inesistente. Con una prevedibile inflazione derivata, che non siamo in grado di valutare non essendo economisti, ma di certo rilevante per le scarse entrate mensili della maggior parte dei nicaraguensi. Nonostante gli anni di crescita economica, il Paese è il terzo più basso del continente come reddito pro capite.
Per fare un esempio concreto: negli ultimi anni, a causa della crisi economica successiva al 2018, sono spuntate come funghi quelle che potremmo chiamare pollerie. Fanno parte di quella che, con sprezzo del ridicolo, la fantasia malata di Rosario Murillo ha più volte definito «economia creativa», che sarebbe meglio denominare «tentativo di sopravvivere a pesar de todo». Un mezzo pollo alla brace con gallopinto (riso e fagioli cucinati assieme), consumato in loco o a casa propria, ha un prezzo che si aggira sui cento pesos (tre dollari). Tutti questi polli sono importati da Gringolandia senza pagare un centesimo di imposta doganale e con la reintroduzione i prezzi sono destinati a un sensibile aumento (circa il 15%). Con un assai probabile calo nelle vendite e persino la chiusura stessa delle attività.
L’Instituto nacional de información y desarrollo (INIDE), organismo governativo, ha evidenziato la crescita della povertà, ossia la sopravvivenza con meno di 3,2 dollari al giorno (100 US$ mensili): nel 2019 era al 13,5% e nel 2021 è del 14,6%. E la situazione alimentare non è delle più rosee se a metà ottobre la Federazione Russa ha donato al Nicaragua il quarto carico di grano di oltre trentamila tonnellate. Il mese precedente aveva regalato una nave di farina: nell’ultimo decennio questi regali, oltre agli acquisti a buon mercato, hanno contribuito al mantenimento della stabilità del prezzo del pane.
È opportuno ricordare che in Nicaragua non si coltiva il grano, sebbene in alcune aree temperate (Las Segovias) sia possibile produrre in buona quantità la varietà indigena denominata «Jupateco» (Triticum aestivum). Vari studi del settore e relativi esperimenti lo confermano, ma poco o nulla ha fatto il governo socialista, cristiano e solidale in questa direzione, quanto meno per iniziare a diminuire la quantità importata e avvicinare la chimerica sovranità alimentare.
La conseguenza prevedibile del combinato disposto tra l’aumento della disoccupazione e quello della inflazione è pertanto un notevole incremento della emigrazione verso il Nord, in cerca di lavoro. Ossia verso gli stessi Stati Uniti, creando in tal modo una emergenza umanitaria che potrebbe assomigliare a quella sul confine tra la Bielorussia e la Polonia.
Considerando che dal 2018 alla metà del 2020 la Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM la sigla in inglese) ha calcolato che quasi 740mila nicaraguensi siano usciti dal Paese (circa il 15% degli abitanti), dei quali solo 120mila a causa della situazione politica stando ai dati di ACNUR (UNHCR in inglese), e che la meta principale sono proprio gli Stati Uniti con 464mila persone, è evidente che una massiccia ondata di migranti non possa essere auspicata né gradita a Washington. Anche solo pensando alla propaganda negativa che fornirebbe gratis alle SturmTrumpen, sebbene le pattuglie di frontiera, nei primi nove mesi di questo 2021, abbiano bloccato oltre cinquantamila nicaraguensi.
Come danno collaterale, si arricchirebbero ulteriormente le narcomafie messicane in accordo con gli esosi coyotes che accompagnano i migranti clandestini alla frontiera: «Welcome to Tijuana, con el coyote no hay aduana», cantava oltre venti anni fa Manu Chao.
Riteniamo che i gringos, essendo pragmatici, penseranno più di due volte prima di applicare misure che potrebbero danneggiare la loro stabilità e soprattutto la loro economia, per quanto in misura minima. Vorranno correre questo rischio, nella speranza che il Guatemala e il Messico riescano a fermare le masse da loro stessi diseredate e ridotte alla disperazione? Poiché il metodo pragmatico consiste nel valutare le teorie e le azioni in base ai possibili risultati, quanto meno come lo considerava William James all’inizio del secolo scorso (Pragmatism: A new name for some old ways of thinking, 1907), nutriamo qualche dubbio che mettano in pratica questa minaccia.
Una possibile ipotesi è che in realtà serva a mobilitare gli imprenditori, soprattutto quelli delle zone franche, per premere sul governo, nella speranza che si smuova qualcosa. È indubbio che qualcuno all’interno delle istituzioni e della politica nicaraguense faccia questo stesso ragionamento, minimizzando però la situazione contingente, nella convinzione che nulla possa cambiare e non esista alcun pericolo di espulsione o di sospensione, quanto meno a breve termine. A tutti gli effetti, resta la possibilità che l’ideologia prevalga sul buonsenso e soprattutto sull’interesse (che in genere per i gringos conta assai più del buonsenso). Per cui occorre metterlo nel conto delle eventualità e il governo del Nicaragua dovrebbe considerarsi seduto sul cratere del Cerro Negro, poiché si potrebbe persino giungere alla rottura delle relazioni diplomatiche.
Resta pure l’incognita su come espellere o sospendere temporaneamente un Paese da un trattato che non prevede alcun meccanismo procedurale del genere, esattamente come era per la UE. Per inciso, il megafono romano del «senza se e senza ma», il quale della giurisprudenza sa solo che esiste e si ostina a parlare di cose che non conosce se non per sentito dire, ha di recente scritto da Managua che «semplicemente, non è possibile a norma di statuto» (Nicaragua, le colombe volano alto, 8 novembre 2021). Non è solo questione di terminologia giuridica errata, ma di sostanza, essendo a lui ignota la differenza esistente tra documenti legali di diversa natura: peccato che sul tavolo non vi sia alcuno statuto, bensì un trattato internazionale di carattere economico-commerciale che, non essendo un atto notarile il quale ne stabilisca l’organizzazione e il funzionamento, non contiene norme in un senso né nell’altro. L’unico procedimento previsto, parecchio contorto e farraginoso, è relativo alla risoluzione delle eventuali controversie riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del trattato stesso (art. 20). Chiamiamola svista, per non infierire sul poer nano (traduciano per la sua romanità: poro cocco). Al quale suggeriamo umilmente di informarsi, quanto meno leggendo i documenti di cui parla, prima di disinformare con una costanza degna di miglior causa i suoi affezionati, quanto ignari e fidenti lettori. Non è questa la prima volta che si riferisce a un documento senza neppure averlo visto. Dopo questo nostro consiglio fraterno, speriamo che sia l’ultima… e renda finalmente onore alla nobile professione giornalistica.
Comunque, nell’improbabile caso in cui sia in possesso del testo del fantomatico articolo del fantomatico statuto del DR-CAFTA, lo preghiamo di farcelo conoscere e gli porgeremo volentieri le nostre scuse pubbliche e ci cospargeremo il capo di cenere. Fino a quel momento, però, essendo da lui catalogati tra coloro che definisce «Le anime belle della sinistra europea, guerriglieri da divano e strateghi da aperitivo» («Il colpo di coda», 4 gennaio 2021), per reciprocità avremmo tutto il diritto di considerarlo un semplice barlafüs, come i milanesi definiscono gli incompetenti e gli incapaci. A Roma direbbero peracottaro. Capiamo che leggere un trattato commerciale di seicento pagine non è il modo più ameno per passare il proprio tempo, ma inventare e prendere in giro i propri lettori è moralmente discutibile. Sarebbe scusabile se, per coerenza, fosse impegnato in una strenua guerriglia nella impervia giungla forlivese per combattere i fabbricanti di poltrone e sofà, indossando il recente giubbetto da cacciatore color nocciola regalatogli dal Consejo Supremo Electoral… invece continua a farsi pagare viaggi e soggiorni in alberghi di lusso dal secondo Paese più povero del continente americano, dove in pochi hanno in tasca più di una piotta.
Tornando al tema, ossia a cose più serie, Washington prenderà esempio dal disastro annunciato della Brexit (per quanto con le controparti invertite)? È possibile, ma deve prevalere la scelta ideologica rispetto alla convenienza sia politica sia economica, con tutti i rischi interni di cui si è detto.
Per concludere, converrà ai Paesi dell’area centroamericana e alla Repubblica Dominicana l’esclusione del Nicaragua? Se, da un lato, potrebbero sperare in un aumento delle loro esportazioni e in un miglioramento delle rispettive bilance commerciali, dall’altro, come minimo, perderebbero una quota di potere contrattuale nei confronti del potente vicino del Nord, che sempre e comunque ha il coltello dalla parte del manico. Inoltre, pure loro si vedrebbero arrivare un bel po’ di migranti e il Costa Rica ha già fatto capire a chiare lettere che ne ha abbastanza sul suo territorio. Alla fine di ottobre, il ducetto salvadoregno Nayib Bukele ha accusato gli Stati Uniti di interferire nella politica nazionale attraverso il finanziamento di un certo numero di ONG (film già visto in Nicaragua). Dal canto suo, l’Honduras del dittatore Juan Orlando Hernández, il cui fratello è all’ergastolo negli USA per narcotraffico, si è astenuto nel voto per l’espulsione del Nicaragua dall’OEA. Gli imprenditori del Guatemala hanno immediatamente affermato la loro preoccupazione per gli effetti collaterali negativi che l’esclusione potrebbe generare in tutta l’area e il governo si è astenuto all’OEA. Infine, tutti tre i Paesi hanno smantellato le commissioni anticorruzione supportate a livello internazionale che stavano iniziando a indagare e perseguire criminali di alto livello (i classici white collars) e, considerato che nel trattato del DR-CAFTA una parte sostanziale è relativa al tema della corruzione (18.8), qualche rischio di sospensione lo corrono pure loro.
In ogni caso, la decisione di espellere il Nicaragua dal DR-CAFTA, per logica, non essendoci alcuno statuto a regolamentare la questione, dopo una trattativa dovrebbe spettare a tutti i firmatari dell’accordo. Risultato non garantito, nonostante gli eventuali ricatti dell’Impero.