Contemplazione

CONTEMPLAZIONE
di Mauro Antonio Miglieruolo

La mia mania, evento unico nel panorama delle cosiddette deviazioni, è nobile e armoniosa; attiene alla sfera dell’arte piuttosto che a quella della clinica. Se la nascondo – a parte questa rapida confessione – è per gelosia non a causa

di vergogna. La custodisco quale intimità preziosa, dentro cui nessuno deve penetrare, o insozzare con la bassezza dei pensieri. Navigo nei canali dello spirito, su territori aperti all’ineffabile, ed essi devono restare chiusi alla maldicenza, al pregiudizio, e le brame della carne. Una sola istanza vi è ammessa: la bellezza, per la qual si muove ogni volontà, la mia in particolare.
L’attività attraverso cui esercito il mio svago è deliziosamente faticosa. Spesso mi rende importuno. Pazienza. Non è priva di costi la grandezza!
Come un’anima in pena mi aggiro per piscine, spiagge alla moda, discoteche, in ogni luogo rigurgitante d’umanità snervata, nascosto tra la folla, sia che si tratti dell’etereo pubblico delle sfilate di moda che di un concorso di bellezza, il teleobiettivo sempre pronto innestato, pronto io stesso a chiedere, accampando pretesti, anche insulsi se necessario, autorizzazione e possibilità di catturare immagini; ma per lo più scegliendo d’essere clandestino, ragno nero silenzioso, implacabile nella realizzazione del desiderio: mi avvicino all’obiettivo con innocenza traditrice e con abile bene esercitato gesto del braccio, al volo, abuso della persona che ha sollecitato la mia ispirazione e la fotografo.
Le circostanze in cui opero purtroppo sono tali che l’obiettivo inquadra quel che gli capita, quel che lui vuole ed intende, raramente quel che cerco e desidero. A volte si tratta della figura intera della donna prescelta; più oltre di orribili fattezze maschili; e, continuando, di improbabili e squallidi paesaggi cittadini, di figure sovraesposte, del cielo desolatamente vuoto. Quando però la fortuna mi è amica, e l’oggetto messo a fuoco con minuziosa precisione, riesco a impadronirmi in modo soddisfacente della parte metafisica e negletta che solo me interessa, quella che allegoricamente illustra i riposti segreti del cosmo.
Accade ben di rado, ma quando accade, l’istante sublime in cui l’intuizione mi avverte che ho avuto successo, provo l’ebbrezza trascinante e inconsueta della felicità, un intenso moto di gioia e febbrile aspettativa: in attesa della notte, quando, nel chiuso sicuro della mia abitazione, potrò verificare l’eccellenza e l’accuratezza della mia opera.
Il tempo corre veloce (troppo veloce). Nono¬stante che le occasioni si moltiplichino, e realizzi continue appropriazioni del frutto proibito, la giornata è breve, mi sorprende costantemente insaziato, smanioso di continuare, di rapire altre immagini, avere ulte¬riore possibilità di procacciarmi quella giusta. Mi com¬penso lavorando in fretta. La rapidità dell’esecuzione, che a tanti fallimenti mi costringe, insieme alla tenacia che mi tiene fuori casa fin’anco dopo mezzanotte e spesso oltre l’alba (scatto anche più di mille foto in un giorno), moltiplicando le opportunità, mi garantisce dell’effettiva realizzazione del guadagno cercato. Solo quando sono esausto torno a casa; e solo allora, nel segreto del mio piccolo rifugio, disfatto dalla lunga opera, e dal rin¬vio delle aspettative, mi concedo momenti di autentica ebbrezza. L’alta definizione e la flessibilità della camera digitale mi offre la facoltà di stampare solo le foto meglio riuscite. Tra tutte quelle che fuoriescono dal ronzio leggero della stampante, effettuo la scelta definitiva, quella che le collocherà nell’empireo della Collezione. Le dispongo sul tavolo, nell’ordine in cui sono state stampate e le espongo alla piena avidità dei miei appetiti, della censoria inclinazione selettiva. Cancello, a colpi di forbici, le parti che disprezzo (le medesime che gli uomini ordinariamente considerano di pregio), il rilievo dei seni, lievi o consistenti che siano; le cosce, i pilastri del cielo, che indirizzano le brame e le occhiate furtive dei miei simili; il cielo stesso, nelle forme capricciose, variamente folte e colorate, in cui appare; la curva dei glutei, sublime in alcune, in altre sempli¬cemente abbondante; e getto via anche i volti disegnati da durezze e dolcezze diverse; via anche le mani, le braccia e i ca¬pelli, la schiena morbida, il piedino arcuato. Non re¬sta che un unico oggetto: l’ombelico, la sua incorporea sostanza, l’incantata visione di cui godo finalmente i frutti. Di lui so, ne ho sapienza. So come colmarmi di benessere, come riempire gli occhi della sua grazia. So valutare e giudicare, misurare e contemplare, ingrandire e valorizzare, considerare… e voragini, e precipizi, e rotondità, e allusioni, e spirali bene-dette… un’insieme di elementi di paragone sulla cui base compilo petulanti graduatorie. Il lavoro è lungo, il pavimento invaso di ritagli lo testimonia, ma finalmente il mio spirito riposa. Contemplo i risultati e ne godo.
La soddisfazione finale è l’unico beneficio che ottengo. Un che di pedagogico traspira dall’intera ricerca. Se qualcosa di profondo so del mondo è proprio in virtù dello studio prolungato delle mie foto. E’ attraverso le impercettibili varietà di forme dell’ombelico, che approdo ai significati del mondo, per lui ho appreso a conoscere le donne.
“Questa è una sensualona scostumata” mi dico rimi¬rando un gorgo profondo, ombreggiato ed invitante. “Questa invece è una simulatrice” opino d’una cavità avviluppata in se stessa, ostile e imperscrutabile. Di un’altra, pur bella, disincantato dall’aspetto singolarmente scostante, ne affermo l’avida aggressività mormorando un avvilito: “non vorrei averci a che fare”; e di un’altra ancora calcolo la capricciosità, o la temperante coerenza considerandone la regolarità o irregolarità della circonferenza, la quale stabilisce se la stessa può salvarsi o si perderà nell’immane della sua propria sfuggente follia.
Si tratta di mero arbitrio, lo intendo; ma è forse meno vano decifrare la donna attraverso altri segni, oltre prospettive? Ch’esse siano dispotiche, o dolci, oppure orgogliose, può dircelo meglio la maschera costante ch’esse si danno, o la dissimulazione perpetua prodotta dai comportamenti imposti? Differenziate come sono da una vastità di meriti e demeriti, dai problemi che affliggono ogni essere, le donne per me sono vere soltanto attraverso il mistero che le contraddistingue, un mistero che legittima ogni parere, ogni interpretazione.
Ma poiché pretendo di dare al mio esame un quanto di obiettività, non mi appago della mera considerazione delle cento o mille foto, del loro esame comparato. Esigo ben altro che mere esplicazioni. Le esigo da me e dalle foto stesse. Chiedo infatti di potermi immergere in esse, nella circola¬rità emblematica dei loro recinti; chiedo di svelarmi, oltre ai segreti delle donne, quelli dell’esistenza, le potenzialità della vita, in una con quelle dell’esistere. L’inesausta serializzazione dei vari ombelichi mi avvolge con una sequenza di sensi che è tutto per me, il mio universo, uno piccolo del quale sono l’unico abitante (e ne sono il creatore).
È a tale fine che le pareti della casa ne sono ricoperte, in un disordine apocalittico e totalizzante che non lascia scampo: occorre guardare. Ovunque giro gli occhi incontro impressi sulla carta le forme dei minuscoli attimi fuggenti imprigionati dalla fotocamera. Da me, per me l’intero creato è un unico simbolo, il ripetersi instancabile di un’unica ossessione, l’essenza stessa del centralità e della potenza umana.
Ne ho una, la migliore, una gigantografia di un ampio, leggero ombelico di fanciulla in fiore. Tra tutte le foto, questa, rubata di soppiatto, è la preferita. L’ombelico, oscura vertigine, appare come uno splendido lago in cui riversare la proprio affluente ammirazione. Da molto ho smesso di ricordare la grazia di chi lo esponeva senza accortezza. Me ne resta il merito, l’ingrandimento iperbolico che ho realizzato. Occupa il quarto d’una stanza, la più grande del mio antro di lupo, che è anche il castello dei miei sogni. Mi siedo a lei di fronte, golfo mistico e maёlstrom dell’anima, e resto ore intere a dialogare con simboli e verità definitive.
Rivolgendo lo sguardo all’immagine non avverto brame sessuali specifiche (non sono mai stato per altro tipo sensibile alle istigazioni degli istinti). Il sesso in se stesso poco mi attrae, al contrario di ciò che soggiorna ai suoi margini. Non la forza d’attrazione della femminilità mi comanda, o mi invita dunque, sebbene il gorgo irresistibile di quella periferia incolpevole che pur attenendo alla femminilità, non gli è esclusiva: è sua in ragione del suo garbo, della capacità di rappresentazione del genere che possiede. Anzi, è proprio questo generoso rifugiarsi negli ambigui spazi dell’indeterminato asettico e innocente che gli rende possibile il farla da padrone sulla mia libido. Il compito è fin troppo facile. Io voglio essere sedotto, la cerca quella seduzione, della quale neppure posso fare ameno. Essa si accorda perfettamente col più profondo di quel che sono. L’armonia di quel cerchio vitale è in me, per me, nella medesima misura in cui io sono suo, per lui…
Ma quel che effettivamente e definitivamente voglio è di tuffarmi nel grande fastigio d’ombre che personifica, lasciarmi sommergere dal suo silenzio, e accucciato lì, ai suoi piedi, agitato da molteplici fantasticherie, perdermi nei sogni, nell’inquieto dei pensieri, nel nulla della smemoratezza e della pacificazione.
Contemplazione, silenzio, quiete, tali sono le mie mete. Sono un eremita del sesso ed il mio scopo è immergermi e scomparire in quel golfo mistico, centro inesplorabile del mondo.

Redazione
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