Continua la rapina dei servizi pubblici essenziali

ci avvertono Paolo Maddalena e Ugo Mattei

La fibra ottica: un altro pezzo d’Italia svenduto agli stranieri – Paolo Maddalena

 

Per quanto riguarda il contagio da corona virus si può dire che la situazione italiana è stabile, con un’infezione media sotto i mille casi al giorno.

Molto più grave è la situazione degli altri Paesi europei, tra quali preoccupano Spagna, Francia e i Paesi dell’Est Europa. Per il resto del mondo la situazione è tragica in India, che nel solo mese di agosto ha registrato oltre 2 milioni di nuovi infetti, mentre appare fuori controllo negli Stati Uniti, in America Latina e in Africa.

Sul piano economico è da sottolineare che gli effetti del Covid-19 sono stati disastrosi per tutti.

Particolare è la situazione degli Stati Uniti, dove l’ecatombe finanziaria, dovuta alla fragilità del sistema economico predatorio neoliberista, il quale, come ripetuto, è fondato sull’erroneo presupposto della “crescita illimitata”, ha trovato il capro espiatorio nelle persone di colore, secondo un mantra, sostenuto da Trump, in base al quale la situazione di disagio economico dei singoli cittadini sarebbe dovuta all’affermazione nel lavoro e nella vita pubblica degli afroamericani.

Il che ha prodotto atti di ferocia inaudita da parte della polizia che ha soffocato o sparato a brucia pelo afroamericani che si erano comportati disciplinatamente al loro ordine di fermo.

È un atteggiamento questo che è molto pericoloso anche per gli altri Paesi del mondo, poiché si fonda su una menzogna che trova facile accoglimento nella mente degli sprovveduti.

Per quanto riguarda l’economia Italiana, ieri è stato firmato un accordo fra la Tim e il governo, che prevede la costituzione di una società unica (AccessCo), formata da due gruppi di società: l’uno facente capo a Tim e comprendente, oltre a Tim (58%), gli statunitensi del fondo Kkr (37,5%) e Fastweb (4,5%); l’altro gruppo costituito da Openfiber a sua volta formato al 50% da Cassa depositi e prestiti e dall’altro 50% da Enel, la quale, uscirebbe da Operfiber cedendo parte delle sue quote a Cdp e l’altra parte al fondo australiano Macquire.

In sostanza Tim avrebbe il 50,1% delle azioni della nuova società (AccessCo), quindi la maggioranza, e il rimanente 49,9% si dovrebbe dividere fra Cdp, gli statunitensi di Kkr, Fastweb e gli australiani del fondo Macquire. Ed è da sottolineare che Tim è straniera al 65,5%, essendo costituita per il 51,68% da Investitori istituzionali esteri e per il 23,94% dai francesi di Vivendi, mentre Cassa depositi e prestiti detiene appena il 9,89% e gli Investitori istituzionali italiani sono al 2,16%.

In un momento in cui, a causa del corona virus, l’Italia si trova in gravi difficoltà economiche e ha preso in prestito 209 miliardi dall’Europa, il governo si permette di cedere agli stranieri quella che, al momento, è una fonte importantissima di produzione di ricchezza e di profitti, che, anziché andare al Popolo italiano, vanno a fameliche società straniere e a inesperti faccendieri privati.

Sottolineiamo al riguardo che la costruzione e la gestione della rete della fibra ottica è da ritenere un servizio pubblico essenziale, il quale, secondo l’articolo 43 della Costituzione, deve essere in mano pubblica o di comunità di lavoratori o di utenti, e che, così agendo, il governo ha fraudolentemente tolto agli italiani una fonte enorme di produzione di ricchezza a essi spettante, come “proprietà pubblica demaniale” (art. 42 Cost.), e cioè una proprietà inalienabile, inusucapibile e inespropriabile.

Si deve aggiungere che, menzogneramente e al solo fine di rendere l’operazione accettabile dall’immaginario collettivo, detto accordo prevede che la governance della nuova società sarà tenuta da Tim e da Cassa depositi e prestiti.

A questo punto è doveroso chiedersi quale forza potrà avere la Cassa depositi e prestiti con la sua esigua quota sociale, difronte al gruppo Tim, formato, come quasi esclusivamente da stranieri.

Insomma si tratta di un accordo capestro per gli interessi nazionali, che restano assolutamente indifesi di fronte alla cupidigia delle avide società private, Tim in prima fila, il cui fine è il perseguimento dei profitti dei propri soci e non l’interesse dell’intera comunità italiana.

È da aggiungere che la Cassa depositi e prestiti è anche essa una S.p.A., e come tale proiettata ad agire più come una banca privata, che procede anche a investimenti rischiosi, piuttosto che un Ente pubblico tenuto a perseguire gli interessi della collettività.

È da ricordare, comunque, l’errore fondamentale della trasformazione di Cdp da Ente pubblico a S.p.A. risale al governo Berlusconi, costituisce cioè un passaggio importante per la costituzione del sistema economico predatorio neoliberista, realizzato con la legge 24 novembre 2003, numero 126 di conversione del decreto legge 30 settembre 2003, numero 269.

da qui

 

 

Diffusione del potere – Paolo Maddalena, Ugo Mattei

 

In Italia la lotta per I beni comuni ha incominciato ad articolarsi, nei primi anni del nostro secolo, come difesa di quanto appartiene al popolo rispetto alle privatizzazioni neoliberali. Attraverso la resistenza per i beni comuni abbiamo articolato un’ideologia politica radicalmente alternativa al neoliberismo, denunciando i veri e propri saccheggi che si sono celati dietro slogan sempre più dominanti quali la concorrenza, l’efficienza, la governance, l’innovazione tecnologica ad ogni costo….

Le tappe salienti sono state: il 2008, con la proposta di riforma della Commissione Rodotà, che ne ha legato la definizione all’implementazione dei diritti costituzionali fondamentali e agli interessi delle generazioni future, senza precisare tuttavia che essi sono “proprietà collettiva” del Popolo sovrano; il 2011, con la clamorosa vittoria dei referendum sull’acqua bene comune, contro il rigurgito del nucleare e la “messa a gara” dei servizi pubblici locali; il 2013 con il movimento per i beni comuni emergenti (Teatro Valle, Asilo Filangieri….) e la cosiddetta Costituente per i beni comuni, guidata dallo stesso Rodotà e che sfociò nella candidatura al Quirinale; il 2015 con la diffusione capillare dei diversi regolamenti per i beni comuni urbani; e infine il 2018 quando, a seguito del crollo del Ponte Morandi, nasceva il Comitato Rodotà per riproporre, sotto forma di Legge Iniziativa Popolare, il vecchio testo di riferimento, del 2008.

Quest’ultima iniziativa, proprio per il mancato riferimento alla proprietà collettiva del Popolo, ha provocato una spaccatura fra diverse sensibilità del movimento per i beni comuni, depotenziandone la capacità di incidere. La diatriba è stata in realtà più tecnica che sostanziale e a seguito di diverse discussioni fra i giuristi più sensibili a queste tematiche, i tratti teorici unificanti sono tuttavia finalmente prevalsi.

Oggi il movimento per i beni comuni si è ricompattato. Tutti noi oggi riconosciamo che la titolarità dei beni comuni appartiene direttamente al popolo inteso come comunità – nello spazio e nel tempo, quindi comprensiva anche delle generazioni future – ed è perciò direttamente fondata nell’Articolo 1 della Costituzione. È il popolo attraverso il processo democratico inteso nel senso più ampio a “riconoscere” quali siano i beni comuni e dunque a collocarli anche culturalmente “fuori mercato” (res extra commercium), informandone il governo a una logica della cura e del bisogno. Si tratta naturalmente di comunità ecologica aperta, non comunità proprietaria chiusa, e infatti l’accesso e la tutela diffusa, oltre alla gestione condivisa e partecipata sono le cifre strutturali dei beni comuni.

Ogni utilità sociale può essere riconosciuta come “bene comune” attraverso atti politici formali o informali di natura costituente (Bruce Ackerman parla di momenti costituzionali). Riconoscere un bene comune significa operare una “diffusione del potere decisionale” rispetto ad esso, secondo i tratti della democrazia partecipativa autentica, vero brodo di coltura della rappresentanza che oggi il movimento dei beni comuni difende votando NO al referendum. Già nel 2016, il Popolo ha ripreso nelle proprie mani il momento costituente, bocciando una trasformazione della Costituzione in chiave decisionista, efficentista e neoliberale. ll vero processo costituente materiale è infatti quello che attua, non che riscrive la Costituzione, proprio a partire dai suoi tratti democratici di sovranità popolare diffusa sui beni comuni. La diffusione del potere (e quindi la massima partecipazione in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni ma anche reinventando tratti di governo democratico dell’economia ai sensi dell’Articolo 43 della Costituzione) è la cifra dominante di ogni discorso sui beni comuni. La Costituzione nata dalle Resistenza è il primo bene comune. Essa deve appartiene, nel modo più collettivo possibile, al popolo italiano.

da qui

 

 

Recovery Fund, azzerati gli interessi del Popolo italiano: ecco cosa manca – Paolo Maddalena

 

Per quanto riguarda gli aspetti economici, è da segnalare che il Presidente del Consiglio Conte ha inviato alle Camere le linee guida per l’utilizzazione dei 209 miliardi del Recovery Fund.

Le materie su cui intervenire sono le seguenti: digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità; istruzione, formazione, ricerca e cultura; equità sociale, di genere e territoriale; salute.

Si direbbe che gli obiettivi da raggiungere sono importanti, anche se non si nota un coordinamento delle azioni da compiere, e viene in evidenza una sorta di dispersione degli interventi in vari rivoli.

Comunque, quello che c’è di importante da obiettare, è che queste linee guida non tengono in nessun conto il contesto economico globale nel quale l’Italia deve agire.

Come tutti sanno, la globalizzazione dell’economia è stata affrontata in modo diverso dai vari Stati europei e internazionali e soltanto l’Italia ha privatizzato, immettendoli sul mercato, i beni essenziali sui quali si regge la vita del Popolo, e cioè le fonti di produzione del patrimonio pubblico, disintegrandolo e offrendolo a prezzi irrisori a società private italiane o straniere.

Se davvero i nostri governanti volessero salvare il nostro Paese, dovrebbero utilizzare i fondi del Recovery fund e, aggiungiamo noi, l’emissione di una moneta di Stato, per restituire al Popolo tutti quei beni, che sono stati proditoriamente privatizzati e svenduti.

Questa finalità è imposta dall’articolo 43 della Costituzione, secondo il quale devono oggi ritenersi inalienabili, inusucapibili e inespropriabili: le industrie strategiche, i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia e le situazioni di monopolio, usando gli istituti della nazionalizzazione e del golden power, come spesso hanno fatto gli Stati stranieri.

I governanti italiani invece, tradendo le aspettative del Popolo, hanno messo tutto sul mercato, addirittura gloriandosi per questa loro azione, senza tener presente che privatizzare, trasformando cioè l’Ente o l’Azienda pubblica in una S.p.A., significa togliere al Popolo questi beni essenziali e cederli per pochi spiccioli a singoli soci privati, prevalentemente stranieri, delle S.p.A.

Così, solo per fare qualche esempio il governo Prodi nel 1997 non esitò a svendere Telecom (ora Tim) per 26 miliardi di lire pari a circa 13 milioni di euro, con una situazione economico finanziaria effettivamente brillante, costituita da un fatturato pari a oltre 27 miliardi di euro e un debito pari a 8 miliardi di euro.

Dopo la vendita, Telecom fu oggetto di speculazioni da parte di faccendieri italiani (Colaninno, Tronchetti Provera, Benetton), che portarono la società in un grave indebitamento, che nel 2006 già raggiungeva i 43 miliardi di euro.

Dopo varie vicende la proprietà di Telecom, intanto trasformata in Tim, fu ceduta a investitori di fondi stranieri per il 51,68%, ai francesi di Vivendì per il 23,94%, alla Cassa depositi e prestiti e fondi istituzionali italiani per il 12%. Producendo inoltre la perdita di numerosissimi posti di lavoro e la svendita quasi totale del patrimonio immobiliare della società (e poi si dice che il privato è meglio del pubblico).

Ecco a cosa servono le privatizzazioni. Anche il governo attuale non si è mostrato da meno, donando una miniera d’oro, costituita dalla fibra ottica (per la cui realizzazione saranno utilizzati anche i fondi del Recovery Fund), proprio a Tim, e facendo in modo che i Benetton, responsabili del crollo del Ponte di Genova, anziché vedersi revocata la concessione, escono da Autostrade con un guadagno di oltre 2 miliardi di euro.

In questa situazione agli italiani non resta che utilizzare quell’istituto che Dossetti denominava “diritto di resistenza” e cioè lo sciopero generale e il ricorso alla magistratura per portare le leggi incostituzionali finora emanate al giudizio della Corte costituzionale.

Ciò è possibile poiché in base all’articolo 2 della Costituzione, il cittadino può agire non solo come singolo, ma anche come parte della collettività, e, in base all’articolo 3, comma 2, esso ha il diritto di partecipare all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, mentre secondo l’articolo 118, ultimo comma, egli può svolgere, sia come singolo, sia insieme ad altri cittadini, attività di interesse generale secondo il principio di sussidiarietà.

Esiste dunque, in Costituzione, il riconoscimento della legittimazione ad agire in giudizio di tutti i cittadini, specie se uniti in comitati, ed è da sottolineare che, nel nostro caso, detti cittadini possono chiedere al giudice ordinario di dichiarare, senza limiti di tempo, la nullità dei contratti di cessione a privati dei beni che appartengono al Popolo a titolo di sovranità, in quanto contrari al principio precettivo e imperativo dell’utilità pubblica di cui all’articolo 41 della Costituzione, ottenendo l’annullamento di tali atti ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile.

Come si nota, è soltanto la Costituzione che ci offre una sicura via d’uscita.

da qui

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