Corona virus: mal d’Africa

articoli di Luciano Ardesi, Mauro Armanino, Rocco Bellantone, Diego Cassinelli, Lucia Michelini, Kizito Sesana con il link al dossier di Maurizio Marchi per Medicina Democratica (ma attenti alle terre italiane dove comanda il caporalato)

Vivere isolati o morire assieme: il corona visto da Niamey – Mauro Armanino

L’amico Kaka Daouda di Alternativa Cittadina si trova ancora in stato di arresto presso la polizia giudiziaria della capitale. Aveva fatto circolare un messaggio sui media che si sarebbe trovato un italiano ospite nell’Ospedale di Referenza di Niamey. A causa della temuta infezione, l’Ospedale in questione avrebbe sospeso i servizi. La notizia, subito smentita dall’istituzione, era poi stata fatta circolare dallo stesso Kaka. Troppo tardi, perché nel frattempo la voce era corsa. I primi allarmi avevano lasciato credere il peggio persino nel Niger dove il sole, la sabbia e la giovane età della popolazione tengono a bada il virus. D’altra parte, da questa parte del mondo, la cosa di cui si parla non è l’epidemia del coronavirus quanto l’epidemia da corruzione che non risparmia nessuno e nulla. E’ di questi giorni a Niamey, lo scandalo di false fatturazioni e acquisti di materiale inadatto o scadente per le forze armate che, proprio in questi ultimi mesi, hanno perso decine di militari per attacchi rivendicati dallo Stati Islamico nel Sahel. La contaminazione della società avviene per trasmissione del virus da corruzione che non è altro che il tradimento della democrazia e del bene comune che dovrebbe attraversarla. Qui la morte non ci spaventa perché non abbiamo paura di vivere.

Una cosa è morire di dolore e un’altra è morire di vergogna. Mi è tornata in mente questa poesia di Mario Benedetti, compianto poeta dell’Uruguay, appresa mentre mi trovavo in Argentina. La cosiddetta distanza sociale, oggi riesumata, era stata da tempo introdotta e non casualmente e non certo per compassione, si tengono aperti i supermercati e si chiudono le chiese e gli stadi e gli avvenimenti culturali e le scuole. Si troveranno buone giustificazioni di carattere medico e senza dubbio scientificamente motivate ma abbiamo perso, non da oggi, la dignità. Da tempo non sappiamo perché valga la pena vivere la vita e ci perdiamo, stolti consumatori consumati, dietro l’effimero che ci seduce per la sua nullità. Quanto ci appaiono vere le profezie di Pier Paolo Pasolini e il suo inascoltato grido del cambiamento antropologico in atto nel paese e in Occidente. Una cosa è morire di dolore alle frontiere dell’Europa, nei deserti che vorrebbero raggiungere il mare, nei viaggi senza fine e nelle guerre comandate, finanziate e alimentate dai fabbricanti d’armi, europei, americani, cinesi e russi compresi. E l’altra è morire di vergogna come da troppo tempo si fa in occidente dove la morte, prima parte della vita e celebrata con rintocchi di campane e la sommessa preghiera dei paesani, è stata censurata, di lei ci si è vergognati come fosse una sconfitta e, persino le tombe, sono giardini coltivati per illudere il tempo futuro. Ecco perché lei, sorella morte, è tornata, con fattezze antiche e attuali, e passa attorno tra gente isolata, impaurita e scontenta della vita. Eravamo morti da tempo senza neppure accorgercene e facevano bene, i nostri antenati colpiti dalla peste, a rifugiarsi dove almeno le parole di conforto avevano un senso e magari si aspettava che qualche santo ci mettesse una pezza e ci si rendeva conto della fragilità umana e della morte che inciampa nella vita. Ha ragione Benedetti che morire di vergogna è la cosa peggiore che mai potrebbe capitare.

Nella poesia in questione che porte il titolo ‘uomo prigioniero che guarda suo figlio’, il poeta scrive verso òa fine del poema…’Uno non sempre fa quello che vuole/però ha il diritto di non fare/ ciò che non vuole’. Ci siamo persi gli anni più belli, quelle delle rivoluzioni e delle resistenze, quelli dei NO operai e partigiani e, liquidando le grandi narrazioni della storia, ci siamo ridotti a fare la lista della spesa per il supermercato più vicino che possiede, tra l’altro, lo spazio giochi per i bambini e un ampio parcheggio per le auto, la domenica. Magari le campane suoneranno, per ricordare che c’è un’ora e un tempo per tutto. Sentiremo il rimpianto, per un attimo, del mondo che avrebbe potuto essere differente, un mondo nuovo da inventare ogni giorno negli occhi di chi si innamora della vita. Perché, come ancora ricorda Benedetti alla conclusione della poesia citata…’ è meglio piangere che tradirsi…piangi, ma non dimenticare’.

Mauro Armanino, Niamey, 8 marzo 2020

 

L’emergenza coronavirus nelle terre del caporalato 

di Rocco Bellantone

Nella difficoltosa gestione dell’emergenza Covid-19 in Italia, c’è una fascia della popolazione che rischia di essere lasciata sola. Sono le migliaia di migranti che lavorano da braccianti nelle terre del caporalato. Persone che vivono in abitazioni d’emergenza, in condizioni igieniche carenti, con un accesso limitato al sistema sanitario e che non possono permettersi a lungo di restare a casa senza lavorare. Se il virus attecchisce in questi contesti, il contagio non potrà che estendersi a tappeto.

La situazione nella Capitanata

Una delle situazioni più critiche si registra nelle zone rurali della provincia di Foggia. Nella Capitanata a supporto dei migranti opera in prima linea Intersos. L’organizzazione umanitaria ha chiesto alla Regione Puglia e alla Asl di Foggia di aumentare con urgenza l’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari per gli otto insediamenti in cui porta avanti da due anni un servizio di medicina di prossimità: l’ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone, il Gran Ghetto di Torretta Antonacci, Borgo Tre Titoli, l’agro di Palmori, l’agro di Poggio Imperiale, l’ex fabbrica Daunialat a Foggia, contrada S. Matteo e Borgo Cicerone.

In totale sono 2.400 le persone a cui cinque operatori dell’organizzazione vengono in soccorso con due unità mobili. Senegal, Gambia, Ghana e Nigeria i principali paesi d’origine. «Questo è un territorio difficile – spiega a Nigrizia Alessandro Verona, referente medico dell’unità Migrazione di Intersos – Foggia è la terza provincia più grande d’Italia e quella con la presenza di insediamenti stanziali informali più importante del paese».

In pratica, un nervo estremamente scoperto sul piano della marginalità, dove le barriere culturali e linguistiche rendono complicata di per sé la sola ricezione delle misure preventive di base da adottare per evitare che le persone si infettino.

«Con l’emergenza coronavirus abbiamo immediatamente convertito la nostra attività di informazione socio-sanitaria in attività di prevenzione e in interventi rapidi per le situazioni sospette», prosegue il medico di Intersos. «Non abbiamo riscontrato casi al momento. La mobilità resta però un tema centrale. Gli stranieri qui si muovono per lavorare e per accedere ai servizi di base. Queste persone hanno vissuto negli anni quarantene fisiologiche sul piano sociale. Ciò sta determinando per loro una esposizione minore al virus, ma non vuol dire che il contagio non arriverà. Abbiamo solo più tempo per lavorare sulla prevenzione».

A Castel Volturno, nel casertano, il presidio sanitario più attivo per i braccianti stranieri è quello di Emergency. Qui l’organizzazione di Gino Strada ha realizzato e veicolato sui social network un video in pidgin english. Un’idea originale per far comprendere le precauzioni da adottare per scongiurare il contagio nell’area. In totale gli immigrati che ruotano attorno all’agro-business locale sono circa 15mila, tra regolari e irregolari, in prevalenza ghanesi e nigeriani. Con l’entrata in vigore dei decreti sicurezza molti di loro hanno perso la protezione umanitaria.

Una grana in più per chi già faceva fatica a lavorare alla giornata, e che ora per questa emergenza viene anche limitato negli spostamenti. «Registravamo circa cinquanta accessi al giorno, ora sono scesi a cinque», racconta il responsabile dell’ambulatorio di Emergency a Castel Volturno Sergio Serraino. «C’è tanta gente che però non può fare a meno di andare a lavorare nei campi o nei mercati ortofrutticoli, ci sono donne con gravidanze a rischio. Per queste persone spostarsi ora diventa ancora più difficile».

Nel video lanciato da Emergency viene spiegato cosa sta accadendo in Italia e descritte le misure d’emergenza adottate dal governo italiano. «Diciamo loro che si deve uscire di casa solo se si ha un lavoro certo, e non se lo si deve andare a cercare alle rotonde, e che se hanno problemi di salute importanti devono chiamare il medico o un’ambulanza», prosegue Serraino.

«Facciamo un triage all’esterno dell’ambulatorio. Un nostro infermiere visita una alla volta le persone in arrivo, misura loro la temperatura, chiede se sono state recentemente in regioni del nord Italia. Se hanno sintomi preoccupanti, le rimandiamo a casa e stiamo costantemente in contatto con loro. Il tutto è coordinato con l’Unità operativa di prevenzione collettiva. Possiamo garantire un certo livello di sorveglianza epidemiologica sul territorio, cerchiamo di dare una mano».

Altro territorio critico è quello della Piana di Gioia Tauro, dove durante i mesi invernali nella raccolta agrumicola e olivicola sotto attivi oltre 4mila lavoratori africani, provenienti soprattutto da Ghana, Gambia, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Senegal, Mali, Nigeria e Niger. Celeste Logiacco, segretario generale della Cgil per la Piana di Gioia Tauro, conferma che nella nuova tendopoli di San Ferdinando, dove risiedono circa 400 persone, il Comune ha effettuato la sanificazione dell’intera struttura, sono stati distribuiti gel igienizzante e guanti, mentre resta difficile reperire le mascherine.

È stato inoltre richiesto l’invio di ulteriori tende e moduli igienici da allestire all’esterno della tendopoli per poter isolare eventuali casi di contagio, e in questi giorni arriverà un termoscanner. Resta attivo a Polistena l’ambulatorio di Emergency che continua a offrire assistenza sanitaria, anche attraverso un servizio navetta che due volte al giorno fa tappa nei paesi della Piana.

La comunità locale fa sentire la propria presenza con la raccolta di derrate alimentari, beni di prima necessità e sapone liquido. Dall’inizio dell’emergenza il sindacato ha diffuso volantini e schede informative tradotti in varie lingue e distribuito gel disinfettante e guanti.

Ma tutto ciò potrebbe non bastare per contenere il virus. «Nella maggior parte degli insediamenti informali c’è difficoltà nel far adottare le misure essenziali per la prevenzione del contagio, prima tra tutte il lavaggio di mani e abiti, così come evitare i contatti ravvicinati e il mantenimento della distanza interpersonale a causa della condivisione precaria degli spazi, spesso molto piccoli, privi di qualsiasi condizione igienico-sanitaria, riscaldamento e aereazione», spiega Logiacco.

Servono, e al più presto, piani d’azione specifici da parte delle istituzioni per mettere in sicurezza e proteggere chi vive in queste condizioni. Altrimenti nelle terre del caporalato il contagio sarà difficile, se non impossibile, da controllare.

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AFRICHE GUARDATE A VISTA

di Luciano Ardesi

Non c’è praticamente paese toccato dal coronavirus dove i governi non stiano facendo ricorso alle forze armate. Ha cominciato naturalmente la Cina, e tutti gli altri paesi seguono.  Pattugliamenti, controlli normalmente effettuati dalle forze dell’ordine affidati a militari, mobilitati veicoli e aerei militari di ogni tipo per i trasporti e la logistica, oltre a personale sanitario e ospedali da campo. Non c’è bisogno di andare tanto lontano, l’Italia è un campionario di tutto ciò, ma del resto così fan tutti.

Ora tutto giustifica la presenza militare sulle strade

I governi giustificano: “siamo in emergenza, la situazione è eccezionale” soprattutto “siamo in guerra” e le metafore belliche straripano ovunque. La gente si guarda attorno un po’ inquieta, ma di fronte alle necessità è tentata di dire: “meno male che ci sono anche loro”.  Qualcuno comincia a chiedersi che cosa accadrà dopo, visto che è  convinzione generale  che niente sarà come prima, dopo una prova del genere. In Italia e in Europa, dove ci sono istituzioni formalmente democratiche, la preoccupazione, comunque legittima, è stemperata dalla presenza di una società civile attenta e attiva. Ma dove questa non c’è o è ridotta ai minimimi termini, la domanda diventa cruciale. L’Africa è il continente dove la società civile è più fragile, spesso praticamente inesistente a causa di regimi autoritari e della sistematica negazione delle libertà civili. Un rapido sguardo attraverso il continente alimenta più che mai una ragionevole inquietudine.

In Marocco, da domenica 22 marzo, i blindati hanno cominciato a pattugliare città come la capitale Rabat, Marrakech e i principali centri del paese. La decisione è stata presa dopo che nella notte tra sabato e domenica c’erano state manifestazioni di gruppi di persone che sfidavano i divieti al grido di “Allah è grande”. Dall’altro capo del continente, in Sudafrica da lunedì 23 è in vigore il confinamento obbligatorio, e per farlo rispettare il presidente Cyril Ramaphosa ha deciso di mobilitare  l’esercito per ogni evenienza.

Nell’Africa occidentale, i presidenti della Costa d’Avorio e del Senegal hanno decretato lo stato di emergenza e il copri fuoco notturno  rispettivamente dalle 21 alle 5 e dalle 20 alle 6. Il presidente senegalese Macky Sall ha ordinato all’esercito di tenersi pronto per far rispettare su tutto il territorio le misure prese, intanto le forze dell’ordine sono intervenute pesantemente contro le persone che non rispettano il coprifuoco. In Tunisia il presidente Kaïs Saïed ha progressivamente incrementato la presenza dell’esercito nelle strade, una misura non consueta in un paese che, anche ai tempi della dittatura di Ben Ali, aveva tenuto l’esercito lontano dalle tensioni politiche e aveva affidata la repressione alla polizia.

Nessuna tregua alla guerra in Libia. Militari anche in Guinea Conakry e Bissau

Chi invece non ha dovuto aspettare il coronavirus per vedere eserciti e bande armate in azione questa è la Libia. Nemmeno una tregua, per far fronte all’epidemia è stata osservata e le truppe del generale Khalifa Haftar hanno attaccato questa settimana Tripoli. Ma i militari per le strade si sono visti anche domenica scorsa, 22 marzo, in Guinea in occasione delle elezioni legislative e del referendum costituzionale fortemente contestato ma che il presidente Alpha Condé ha voluto a tutti i costi, anche perché il referendum gli consentirà di presentarsi una terza volta. Ancor prima del virus, la repressione ha così lasciato almeno una quindicina di morti. In precedenza è stata la Guinea Bissau a mettere i militari per strada a inizio mese per far fronte alla crisi politica che investe il paese dopo le elezioni presidenziali di dicembre scorso. Si potrà dire che in fondo l’esercito per strada è una realtà ricorrente nella stragrande maggioranza dei paesi africani. Le conseguenze sulle libertà e i diritti umani sono note. La domanda che gli africani si pongono è che cosa riserverà loro il futuro.

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Da lunedì in Senegal c’è il coprifuoco. Da poco nel Paese è stata dichiarata “comunitaria” la pandemia del Covid-19: vuol dire che chiunque può contagiare un membro della comunità.

di Lucia Michelini

Nella capitale le strade sono deserte. Non si esce dalle 20 alle 6 e da sabato è stata decretata la chiusura delle frontiere aeree. La gendarmeria ha imposto la sospensione di tutte le piccole attività commerciali non dichiarate e l’astensione assoluta degli assembramenti pubblici.

Oggi la spiaggia di Ngor non profuma più di mango maturo e pesce grigliato. I turisti se ne sono andati, gli ombrelloni sono chiusi e nel mare i pesci saltano tra le onde. Camminando sulla grande strada nazionale, la Route de l’Aéroport, si riesce stranamente a respirare, lo smog non c’è più e viene voglia di correre. I supermercati rimasti aperti sono generalmente negozi per toubab, gli occidentali. Un sorvegliante vestito di nero, guanti e mascherina, gentilmente apre la porta ai clienti, raccomandando di disinfettarsi le mani prima di procedere con gli acquisti. Confezioni rosa di gel idroalcolico si notano appese alle borse delle eleganti signore senegalesi.

Ovunque, sulle saracinesche chiuse, sui pilastri dei lampioni, sono stati affissi foglietti informativi che spiegano le norme igieniche da seguire per evitare il contagio. Le rare persone che si incrociano per strada parlano dell’Italia e di quanto sta succedendo in Europa. In giro pochi volti coperti da mascherine che lasciano intravvedere soltanto gli occhi. In pochi giorni sono cambiate con una rapidità allucinante le abitudini comportamentali dei senegalesi: non ci si dà più la mano, al massimo un colpo di gomito. I bambini si divertono come i matti a scambiarsi una toccata di piede simulando quasi un balletto.

Prendendo una strada laterale, una qualsiasi, del quartiere “bene” Les Almadies, il gel è già però un vago ricordo. Tra i calcinacci di un cantiere si scorgono i panni stesi da qualche signora che di sicuro abita lì con la sua numerosa famiglia. Baracche ricavate da lamiere arrugginite e qualche cartone. Poco più avanti, su un alto edificio in costruzione, una decina di muratori lavorano, oltre che senza gel e mascherine, senza elmetti e imbracature. È quasi l’una e ci saranno come minimo trenta gradi. Poco più in là, in un ristorante improvvisato, sempre lamiere e cartone, si preparano grandi piatti di riso.

È ora della pausa e ad aspettare gli avanzi che non mancheranno ci sono i bambini di strada. Dall’alba al tramonto setacciano ogni angolo di Dakar in cerca di qualche moneta, una banana, del latte. Un giorno una donna,  mangiando il suo piatto di tiéboudiène, mi disse: «Vedi, anche se non riesco a finirlo non mi preoccupo per lo spreco di cibo, tanto poi ci pensano i bambini di strada, i talibé». Con le mani sporche, seduti per terra, ripuliscono i vassoi di alluminio dai pochi chicchi di riso rimasti, a Dakar come in ogni altra regione del Paese. Ce ne sono almeno 100.000, costretti dai loro “maestri” coranici a mendicare qualche soldo o una zolletta di zucchero. Le premesse perché questa pandemia abbia effetti collaterali di serie A e di serie B ci sono tutte.

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State a casa…se potete

di Diego Cassinelli (da Lusaka)

Le strade di Lusaka sono cambiate. Il suo traffico caotico ha lasciato il posto all’asfalto. L’emergenza ha sparecchiato la città, come si fa dopo una cena con amici, lasciando un po’ di solitudine, silenzio e qualche macchia di vino rosso sulla tovaglia.

Le frontiere sono chiuse, ma non del tutto. Resta aperto solo il Kenneth Kaunda International Airport, tutti gli altri sono chiusi. Le attività turistiche nei gradi parchi del paese sono sospese.

Gli animali tirano il fiato, la gente la cinghia. Scuole, università e college, chiusi a tempo indeterminato.

La Lusaka dello #StayatHome

La Lusaka da bere, quella dei volonturisti in cerca di esperienze forti per decorare il loro CV e quella del business, è momentaneamente in pausa, con la promessa che l’intrattenimento riprenderà al più presto. I primi uffici a chiudere sono stati quelli delle grandi organizzazioni internazionali e delle medio\grandi Ong, che hanno una forte componente di expat, ma sarebbe più giusto chiamarli semplicemente immigrati.

Tutte le ambasciate hanno chiuso, lasciando solo uno spiraglio aperto per le emergenze, una sorta di porta sul retro dove comprare la brioche con la crema alle quattro del mattino. Alcuni diplomatici sono stati rimpatriati, così come il personale di associazioni e business privati. I “forestieri” rimasti, sono chiusi in casa, stanno già seguendo le direttive del loro paese d’origine, anticipando le misure preventive pronunciate, forse un po’ in ritardo, dal presidente dello Zambia, Edgar Chagwa Lungu, il 25 Marzo scorso. Sono rimasti, ma vivono con la paura di essere perseguitati come untori, per il solo fatto di venire da paesi a loro volta vittime di contagio. Terrore di una possibilissima violenza, che gli può scoppiare contro, come il primo tuono di un temporale.

Tutti i bar e locali notturni, sono stati chiusi completamente, resta una mezza misura per i ristoranti, che devono solo fare consegne a domicilio o offrire il servizio takeaway, ma in realtà è come fossero già chiusi, almeno per quanto riguarda gli incassi. L’economia già agonizzante del paese, vive con il fantasma di un futuro peggiore – Si stava meglio quando si stava peggio – qualcuno potrebbe dire. Si va in chiesa, ma a numero ridotto e con cronometro alla mano: non più di 50 persone per un ora massimo, così come matrimoni, funerali e seminari vari.

Questa è la Lusaka che ha il terrore negli occhi, il buio nel cassetto dove ha nascosto i sogni, la Lusaka dello #StayatHome, con le scorte di cibo a casa e abbastanza di fondi in banca da potersi permettere la clausura per una manciata di mesi. In questa città, stare a casa è davvero una strategia possibile di contenimento.

E la Lusaka di chi non può

Poi c’è l’altra città, che rappresenta la maggior parte degli abitanti di Lusaka, quelli che sono abituati a fare i conti con le epidemie di colera, di meningite, di tubercolosi, quelli disarmati, quelli senza ombrello. Le loro strade sono sempre affollate, perché lo #StayatHome, è una prevenzione importante sì, ma che non funziona per tutti. Nel Compound, (Favela o Slum) dove si vive in sette, otto o addirittura in dieci in una stanza di quattro metri per quattro, senza elettricità e acqua, senza finestre e con il tetto basso di lamiera che scotta di sole pesante, forse è il caso di adottare misure alternative di prevenzione.

In una comunitá di sessantamila persone circa, ad alta densità di popolazione, la prossimità è inevitabile come il respiro, e la distanza di sicurezza è un lusso che non si può comprare. Lo state a casa, non è per tutti.

Si deve uscire

Si deve uscire, se non si vuole morire sepolti dalla povertà.

Si deve uscire, non perché – eh ma tanto uno spritzzetino non ha mai ammazzato nessuno- ma per prendere l’acqua in taniche gialle da venti litri, e anche più volte al giorno. Si deve uscire, non per andare a fare la spesa, ma perché il conto corrente è un ricercato speciale, un latitante sparito da molti anni, forse da sempre. Si deve uscire per trovare i soldi per fare la spesa, che è il passo prima. Si deve uscire, perché l’economia informale con cui si regge il Compound, non ammette assenteismo sulle strade. Pena; la fame.

Si deve uscire con lunghe passeggiate, non per far pisciare il cane, ma perché è il tuo bagno a esser fuori e pure condiviso con altre due o tre famiglie, come quello dei nostri nonni al tempo della guerra, ma mi raccomando #StayatHome.

In questa seconda città, c’è preoccupazione ma non terrore. C’è la paura quasi amica, che accompagna l’esistenza di migliaia di vite. L’emergenza è una tradizione che visita tutti gli anni, lo stato d’allerta è un appuntamento obbligatorio al quale non si può dare buca.

È data scritta in rosso, senza numero, sul calendario di ogni anno.

Nelle viuzze polverose, dove la pioggia è già ricordo, la gente parla della pandemia, di cosa succederà, di cosa si lascerà dietro, ma nascosta tra note della voce, c’è la speranza di chi ne ha viste tante, forse troppe. C’è quella luce tremante, che non lascia vincere il buio attorno, forse anche con quella dose d’ancestrale fatalismo.

È la speranza di chi è sopravvissuto come un gatto, e sa che dalle nove vite, gliene rimane ancora qualcuna. Tutto è pronto per farsi sorprendere dalle varie ed eventuali che non sono state considerate, ma nonostante la tragedia, e i suoi artigli, la comunitá sorprenderà l’aggressore con un colpo di creatività, e continuerà ad esistere con la speranza di chi conta poco, pur essendo la maggioranza.

Per il resto, state a casa… se potete.

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Ma sulla Kabiria Road la vita scorre come sempre 

di padre Renato Kizito Sesana

Ieri pomeriggio, due brutte notizie.
Primi tre casi di coronavirus in Zambia. Due di loro ricoverati nel Mini-Hospital di Tubalange, a due passi dalla scuola primaria frequentata dai bambini di Mthunzi. La scuola comunque adesso è chiusa, cosi come è chiusa la Saint Columba’s Secondary School, proprio di fianco a Mthunzi, e scuola di riferimento per i nostri ragazzi. I ragazzi sono tutti a Mthunzi, sereni e protetti, con ampie possibilità di gioco e di lavoro. Lo staff ha ridotto i contatti con l’esterno e minimizzato il movimento di residenti e lavoratori. I membri di Koinonia sono tranquilli, anche se ormai fra di loro ci sono alcuni anziani, come l’impareggiabile cuoca mama Edina.

Poi, seconda brutta notizia a Nairobi. ll ministro della Sanità Mutahi Kagwe inizia la conferenza stampa che fa ogni giorno alle 18, annunciando che ci sono 8 nuovi casi confermati di coronavirus, portando il totale a 15. Degli 8, 5 sono keniani, 2 messicani e 1 francese. Tutti rientrati da pochi giorni da viaggi in Europa e America; hanno dai 20 ai 57 anni. Si stanno rintracciando le 363 persone che li hanno contattati dopo il loro arrivo.

Il ministro osserva che la maggioranza delle persone ignora le misure di sicurezza adottate finora, e continuano la vita normale. Poi annuncia nuove drastiche misure che, dice, se necessario saranno fatte eseguire dalle forze dell’ordine: dalla mezzanotte di mercoledì sospesi tutti i voli internazionali, eccetto i cargo (l’esportazione di fiori e primizie ortofrutticole è già in ginocchio da diversi giorni), tutti coloro che entrano in Kenya da qualsiasi confine sono obbligati all’auto-isolamento per 14 giorni; i Paesi che vogliono evacuare i loro connazionali devono fare gli opportuni accordi. Inoltre tutte le persone che stanno violando o violeranno l’obbligo di auto-isolamento saranno forzatamente isolate e al termine saranno denunciate e dovranno rispondere in tribunale del loro comportamento, anche fossero studenti keniani rientrati da Europa e America. Tutti i servizi religiosi in chiese e moschee sono sospesi, ai funerali ammessa solo la presenza di familiari più stretti. Da stasera tutti i bar saranno chiusi fino a nuove disposizioni, e tutti i ristoranti potranno operare fino alle 19:30, ma solo come take away, i clienti non potranno essere serviti ai tavoli. Tutti sono invitati a restare a casa, ma non è ancora un ordine.

Ascolto la trasmissione alla Shalom House e poi rientro in auto a casa, a Kivuli. Purtroppo lungo la Kabiria Road tutto è normale, negozi e bancarelle aperte, gente pressata nei matatu, assiepata intorno ai venditori di frittelle, di pannocchie arrostite, di chapati e salsicce autoprodotte.

In mattinata avevo celebrato a Tone la Maji, i bambini – una cinquantina – attenti, puliti, che osservano bene le norme igieniche. Da venerdì diamo a tutti per merenda un bicchiere di succo d’arancia con un cucchiaino di moringa, il supplemento nutrizionale vegetale che coltiviamo nella fattoria di Malbes e che è anche un potente attivatore del sistema immunitario.

Siamo in contatto le autorità per collaborare nel trovare soluzioni adeguate per i bambini e giovani che sono sulla strada e non hanno un posto sicuro.

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Uno studente camerunese muore a Pisa

«Un fratello, un amico, un compagno». Così, l’Associazione degli Studenti Camerunensi di Pisa ricorda su Facebook Christin Tadjuidje Kamdem, il giovane di origini camerunensi laureando in Scienze Agrarie all’Università di Pisa, scomparso nella notte tra il 22 e il 23 marzo all’Ospedale di Cisanello, dove era stato ricoverato dieci giorni prima. Residente a San Giuliano Terme, aveva solo 30 anni ed è oggi la più giovane vittima del Coronavirus in Toscana.
Christin avrebbe dovuto laurearsi il 7 aprile. «È una notizia dolorosa che apre una profonda ferita nella nostra comunità», ha commentato il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Mancarella. «La scomparsa di questo ragazzo, a pochi giorni dalla laurea, credo sia emblematica del dramma che stiamo vivendo ogni giorno. Siamo vicini ai suoi familiari e ai suoi amici dell’Associazione Studenti Camerunensi di Pisa, a cui esprimo tutto il nostro cordoglio con una promessa: farò in modo che a questo ragazzo venga conferito, seppur alla memoria, il titolo per cui aveva faticato tanto».

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Laurea alla Memoria per Christin Tadjuidje Kamdem

La cerimonia si terrà online il 7 aprile prossimo alle ore 14.30

È stato decretato di prima mattina dal rettore dell’Università di Pisa Paolo Mancarella il conferimento della laurea alla memoria in Scienze Agrarie allo studente Christin Tadjuidje Kamdem. Nato a Bahiala (Camerun), il 28 maggio 1990 e scomparso nella notte tra il 22 e il 23 marzo scorsi, Christin aveva già terminato tutti gli esami ed era prossimo alla discussione della tesi.

Il conferimento avverrà, in modalità “a distanza”, il 7 aprile prossimo alle ore 14.30, ossia nel giorno e nell’orario preciso in cui il giovane studente camerunense avrebbe dovuto sostenere il suo esame finale per il conseguimento del titolo di dottore in Scienze Agrarie.

“È il minimo che potessimo fare, il giusto riconoscimento per gli sforzi compiuti da questo ragazzo arrivato a Pisa dal suo Camerun per realizzare un sogno – ha dichiarato il rettore Paolo Mancarella – Sarebbe stata un’ulteriore ingiustizia privarlo di questo titolo. Dispiace dover far tutto così, a distanza, quando invece sarebbe stato bello tributargli anche un abbraccio vero. Una volta finito tutto questo, troveremo il modo di ricordarlo degnamente”.

Per chi volesse seguire la cerimonia in streaming questo è il link:

http://unipi.it/LaureeAgraria7aprile2020

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Ecco il piano per far fronte all’emergenza 

Come riportato dai media etiopi, i Ministri delle Finanze africani hanno tenuto una riunione in videoconferenza per discutere l’impatto sociale ed economico del coronavirus nei loro Paesi. Secondo quanto riferito dalla Commissione Economica per l’Africa (ECA) delle Nazioni Unite, già prima dell’attuale pandemia l’Africa aveva difficoltà a finanziarie e implementare le misure e i programmi volti a realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile e gli scopi dell’Agenda 2063.

I ministri hanno ribadito che senza uno sforzo coordinato: la pandemia di Covid-19 potrebbe generare ripercussioni negative di grande impatto sulle economie africane e sulla società in generale, prevendendo un calo di 2-3 punti percentuali del Pil nel 2020, secondo le più rosee previsioni.

I ministri hanno concordato un’immediata risposta coordinata a livello sanitario e convenuto sulla necessità di uno stimolo economico di circa 100 miliardi di dollari e sull’estinzione dell’interesse sui pagamenti del debito – stimato intorno ai 44 miliardi di dollari per il 2020 – oltre a sottolineare l’importanza di sostenere il settore privato e di proteggere i circa 30 milioni di posti di lavoro a rischio nel continente. Una proposta, questa, che verrà portata al G20 che si terrà domani a Riad in videoconferenza sui temi legati all’emergenza coronavirus.

Le misure, secondo i Ministri africani delle Finanze, dovranno essere seguite da una politica di apertura delle proprie frontiere in modo da agevolare il commercio, con l’auspicio che anche Europa e Stati Uniti implementino questa misura come parte del finanziamento ai loro sistemi privati e finanziari.

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Nord Africa – Il contagio avanza

Il coronavirus ha colpito in modo particolarmente duro il Nord Africa. In Egitto, primo Paese colpito dal Covid-19, è stato imposto «un coprifuoco» serale e notturno per «due settimane». La misura partirà oggi, 25 marzo, ha affermato il premier egiziano Moustafa Madbouly. Il decreto vieta «la circolazione dalle ore 19 alle 6».  Dalle 19 alle 6 è sospesa anche l’operatività del trasporto pubblico. Resteranno chiusi i negozi e i centri commerciali dalle 17 alle 6 durante i giorni infrasettimanali (domenica – giovedì), e per tutta la giornata durante il fine settimana (venerdì e sabato). Le sanzioni per la violazione di tali disposizioni possono prevedere il carcere. Tutti i voli da e per l’Egitto sono sospesi fino almeno al 31 marzo 2020. Ufficialmente i casi di contagio sono poche centinaia, da fonti non ufficiali contattate da Africa, si parla di migliaia di casi. Alcune fonti sanitarie si spingono ad affermare che sarebbero addirittura 40mila.

Situazione difficile anche in Algeria. È di 230 casi confermati e 17 decessi l’ultimo bilancio delle autorità di Algeri.  La regione più toccata è quella di Blida e il 90% dei casi sono stati «importati» dall’Europa. Il Paese intero è di fatto in «isolamento» dopo le ultime restrittive misure decretate dal presidente Abdelmadjid Tebboune.

Sale a 114 il numero delle persone contagiate da nuovo coronavirus in Tunisia. È quanto emerge dai dati diffusi ieri sera dal ministero della Salute di Tunisi. Nelle ultime 24 ore si sono registrati 25 nuovi contagi. Finora una persona risulta guarita, mentre tre sono morte. Undici contagiati sono attualmente ricoverati in ospedale. I soggetti in quarantena volontaria sono 15.952.

In Marocco, sono 28 i nuovi casi di infezione che portano a 143 il numero totale dei positivi. Lo ha annunciato il direttore dell’epidemiologia e la lotta contro le malattie del ministero della Salute, Mohamed El Youbi. Quattro i decessi: due nella regione di Casablanca-Settat, uno a Rabat-Salé-Kénitra e un altro a Béni Mellal-Khénitra. Il funzionario marocchino ha indicato che su un totale di 2.798 persone sottoposte a sorveglianza medica nell’ambito del piano di sorveglianza epidemiologica, 643 casi sono stati esclusi a seguito di test negativi effettuati in laboratorio.

In Libia, la pandemia di Covid-19 non ha invece fermato la guerra a Tripoli. Nessuna delle due parti coinvolte nel conflitto, il Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Fayez al Sarraj da una parte e l’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar dall’altra, sembra intenzionata, secondo quanto riporta Agenzia Nova, a rispettare la tregua umanitaria raggiunta lo scorso fine settimana su pressioni internazionali.

La Libia è l’unico Paese della regione a non aver registrato casi di coronavirus, fatto abbastanza curioso per un Paese circondato da focolai e che suscita forti dubbi. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha avvertito dei grandi rischi della diffusione del virus in un paese frammentato dal conflitto, attraversato da flussi migratori illegali e con un sistema sanitario disastrato.

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QUI un dossier di Maurizio Marchi su Medicina Democratica di Livorno

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