Corona virus: pensieri, proposte e indicibili verità

testi e vignette di Alessandro Ghebreigziabiher, Benigno Moi, Salvatore Palidda, Giuliano Spagnul con l’appello per la sanatoria dei migranti, il diario del cugino di Dizzy e un racconto di Raffaele Mantegazza

PER LA SANATORIA DEI MIGRANTI IRREGOLARI ai tempi del covid-19

Gli effetti positivi sarebbero molteplici

 

Ai tempi del Coronavirus, lo sguardo e l’attenzione della politica e dei media sulla situazione in Italia si focalizzano sugli effetti sanitari, sociali ed economici della diffusione del virus, lasciando in stand by tutto ciò che costituisce mera ordinaria amministrazione.
In qualche modo è inevitabile: lo stato di emergenza porta con sé una serie di ricadute, sulle quali si stanno esprimendo con diversi approcci e punti di vista tanto opinionisti mainstream, quanto settori di movimento, interrogandosi su temi che vanno dalle conseguenze dei cambiamenti climatici e delle sperimentazioni bio-tecnologiche sulla diffusione dei virus, agli effetti dei processi di dismissione della sanità pubblica in favore dell’imprenditoria privata, alle tutele necessarie per assicurare reddito ai lavoratori, in specie precari, colpiti dalla sospensione o comunque dalla contrazione dell’attività e ancora al modello di società autoritaria che si sperimenta con l’adozione di misure che non solo limitano la socialità, ma comprimono diritti fondamentali quali quelli di riunione, di circolazione, di sciopero.

In questo scenario è scomparsa dal dibattito pubblico, semmai ci fosse entrata, la discussione, pur ancora allo stato embrionale, sulla possibilità per il governo di emanare un provvedimento di sanatoria dei migranti che soggiornano irregolarmente nel nostro Paese, tema oggetto dell’ordine del giorno votato il 23 dicembre 2019 dalla Camera dei Deputati in sede di approvazione della legge di bilancio  [1] e ribadito dalla ministra dell’interno Lamorgese il successivo 15 gennaio 2020  [2]. Il tema, però, non può essere accantonato e rimandato a tempi migliori; anzi, diventa ancor più rilevante e urgente nella contingenza che ci troviamo ad attraversare.

Il punto di partenza non può che essere quello del numero degli immigrati sans papier presenti in Italia; nell’evidente impossibilità di censirli, ci si deve riferire alle ricerche effettuate dagli istituti specializzati  [3], che quantificano in oltre mezzo milione a fine 2018 le presenze irregolari, un numero che è andato aumentando nel corso degli ultimi anni e che è destinato a crescere ancora in conseguenza delle politiche bipartisan adottate dai governi, che si sono succeduti nell’ultimo decennio.

Sono molteplici le cause della crescita del numero di presenze irregolari, a iniziare dalla natura strutturale dei fenomeni migratori, di fronte alla quale sono votate al fallimento le politiche di chiusura delle frontiere adottate dall’Unione Europea, e dagli scenari di crisi internazionale coi fronti bellici apertisi negli ultimi anni, in particolare in Libia, Siria e al confine russo-ucraino. A un contesto globale che spinge moltitudini a migrare, risponde l’assoluta inadeguatezza della gestione del fenomeno da parte dell’Europa e nello specifico dell’Italia.

Nel nostro Paese, alla endemica mancanza di canali regolari e continuativi di ingresso (il sostanziale azzeramento delle pur insufficienti opportunità offerte dai flussi annuali e l’abolizione della figura dello sponsor hanno di fatto blindato le frontiere) e di qualsiasi forma di regolarizzazione a regime per chi già si trovi nel territorio italiano, si devono aggiungere la riclandestinizzazione operata dalla legge Bossi-Fini (in conseguenza del rapporto inscindibile tra disponibilità di un lavoro e permesso di soggiorno) e gli effetti della controriforma salviniana, che ha abrogato le norme che consentivano il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai richiedenti asilo.

Proprio il tema dei richiedenti asilo impone qualche, seppur breve, considerazione ulteriore: le domande presentate in Italia tra 2017 e 2018 sono state 175.000 circa  [4]; al termine della procedura amministrativa per il vaglio delle richieste e dei gradi di giudizio per i ricorsi contro i provvedimenti di diniego (che si sono assestati tra il 60 e il 70%), è lecito attendersi che almeno altre 100.000 persone andranno ad aggiungersi al numero delle presenze irregolari. In assenza di un intervento legislativo, il numero dei migranti sans papier è quindi destinato a lievitare ulteriormente, ricomprendendo decine di migliaia di persone che, in virtù del permesso di soggiorno temporaneo come richiedenti asilo, per anni (tanto ci vuole a portare a esaurimento la procedura davanti alle Commissioni territoriali prima e i processi giurisdizionali poi) hanno costruito relazioni sociali, svolto attività di lavoro subordinato, o comunque lavori di pubblica utilità, frequentato corsi di lingua italiana, in vista di un inserimento sociale che viene bruscamente reciso all’esito del rigetto definitivo della domanda.

Delineata per sommi capi la situazione attuale e i suoi possibili sviluppi nel breve periodo, dovrebbe apparire evidente a chiunque che non è sostenibile la presenza in Italia di 700-800 mila stranieri sprovvisti del permesso di soggiorno, e quindi deprivati dei diritti elementari della persona e destinati allo sfruttamento intensivo del lavoro nero, a sistemazioni abitative precarie, in alcuni casi alla contiguità con la microcriminalità.

La soluzione al problema non può certo essere individuata nello strumento dell’espulsione, fosse anche solo, e così ovviamente non è, per l’impossibilità concreta di eseguirne un numero così ingente. La soluzione non può che essere una e una sola: un provvedimento di sanatoria generalizzata (senza altro requisito ulteriore rispetto al mero dato fattuale della presenza in Italia), che si accompagni alla previsione per il futuro di una regolarizzazione individuale a regime, che consenta di ottenere il permesso di soggiorno allo straniero, che ne sia sprovvisto e che presenti determinati requisiti (solo a titolo esemplificativo: un’offerta di lavoro, condizioni personali di vulnerabilità, uno sponsor che si faccia carico dell’ospitalità e del mantenimento, ecc.).

Si potrebbe concludere così: un provvedimento di regolarizzazione dei sans papier è necessario e urgente, anche ai tempi del coronavirus: anche se adesso l’emergenza è (o sembra essere) un’altra, anche se l’attenzione generale in questa fase si rivolge altrove, anche se qualcuno ne approfitterebbe per imbastire una becera propaganda politica, additando al “popolo” gli untori che attraversano il mare a bordo dei barconi.

Invece, i tempi del coronavirus rendono ancor più necessario e urgente l’intervento del Governo, perché adesso alle buone ragioni della sanatoria si aggiungono anche le esigenze di tutela della salute collettiva, compresa quella delle centinaia di migliaia di migranti privi del permesso di soggiorno, che non hanno accesso alla sanità pubblica.

Il migrante irregolare non è ovviamente iscritto al Sistema Sanitario Nazionale e di conseguenza non ha un medico di base e ha diritto soltanto alle prestazioni sanitarie urgenti. Il migrante sprovvisto del permesso di soggiorno, nei casi di malattia lieve (qualche linea di febbre, un po’ di tosse) non si rivolge alle strutture sanitarie, mentre nei casi più gravi non ha alternativa al presentarsi al pronto soccorso, il che contrasterebbe con tutti i protocolli adottati per contenere la diffusione del virus. Il sans papier ha timore di presentarsi in un ospedale, perché potrebbe incappare in un controllo che lo condurrebbe all’espulsione o alla reclusione in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio. Il “clandestino” è costretto a soluzioni abitative di fortuna, in ambienti spesso degradati e insalubri, condivisi con altre persone.
Insomma, gli “invisibili” sono per molti aspetti soggetti deboli, che se non sono più esposti al contagio del virus, più di altri rischiano di subirne le conseguenze: sanitarie, per la plausibile mancanza di un intervento tempestivo, ma anche sociali, per lo stigma cui rischiano di essere sottoposti a causa di responsabilità e inefficienze non loro ascrivibili.

Dovrebbe quindi essere evidente la necessità di “agganciare” anche queste centinaia di migliaia di persone: per contenere il loro rischio di contrarre il virus, perché possano con tranquillità usufruire dei servizi della sanità pubblica nel caso di sintomatologia sospetta, perché non diventino loro malgrado veicolo di trasmissione del virus. Affinché ciò sia possibile, però, devono essere sottratte oggi, ed è già tardi, alla condizione costretta di “invisibilità”, attribuendo loro pienezza di diritti, quanto meno di quelli che il sistema riconosce come diritti universali, in primis quelli alla salute e a un’esistenza degna.

Se stiamo davvero attraversando un’emergenza sanitaria, se davvero hanno un senso tutte le misure straordinarie fino a oggi adottate e che incidono così in profondità sulle vite di tutte e tutti, allora deve essere sanatoria per tutte le persone migranti che non hanno un permesso di soggiorno, subito!

Per informazioni e adesionisanatoriasubito@gmail.com

PROMOTORI
Legal Team Italia, Campagna LasciateCIEntrare, Progetto Melting Pot Europa, Medicina Democratica

Prime adesioni (in aggiornamento):
Associazione Diritti per tutti – Brescia, Associazione Giuristi Democratici Ambasciata dei Diritti – Ancona; Associazione La Kashab – Cosenza; Antenne Migranti – Bolzano, Associazione Portamico – Ferrara, Borderline Sicilia onlus, Bozen solidale, Osservatorio Migranti Verona, Rete antirazzista catanese, Associazione Open Your Borders – Padova; Mai più Lager – No ai CPR; Associazione Bianca Guidetti Serra; Osservatorio Repressione; Associazione Senza Confine – Roma; Associazione Yaiariha onlus; Cooperativa Caracol, Marghera Venezia; Associazione Caminantes, la casa è un diritto – Treviso; Scioglilingua – Bolzano; Confederazione Cobas Brescia; Cobas Scuola Catania; Europa Verde, Rifondazione Comunista Sinistra Europea; Potere al Popolo; Europa Verde…

NOTE

[1] La Camera, premesso che:
in attesa di una riforma strutturale che consenta la regolarizzazione su base individuale degli stranieri già radicati nel territorio, come prevede la proposta di legge d’iniziativa popolare C. 13 recante «Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari», un provvedimento straordinario di emersione dall’irregolarità rivolto a quei cittadini stranieri – già presenti nel nostro Paese ma senza un regolare permesso di soggiorno – che hanno un lavoro ma non hanno i documenti per essere assunti, costituirebbe una vera e propria «operazione legalità»;
con l’emersione di 400.000 persone – quindi una parte dei 500.000-600.000 irregolari presenti sul nostro territorio – si stima circa 1 miliardo di euro di gettito fiscale e oltre 3 miliardi di maggiori contributi previdenziali;
le modalità di emersione possibili potrebbero essere diverse; sul modello delle sanatorie del passato, si potrebbe prevedere la possibilità di legalizzazione ed emersione del lavoro nero rivolto ai datori di lavoro a fronte dell’autodenuncia di un già esistente rapporto di lavoro, con il contestuale rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro al lavoro. In alternativa, aprendo una finestra per la regolarizzazione dei cittadini stranieri irregolari già presenti in Italia, si potrebbe prevedere a fronte dell’immediata disponibilità di un contratto da parte di un datore di lavoro, il rilascio di un permesso di soggiorno col pagamento di un contributo forfettario di 200 euro all’atto della stipula del contratto da parte del datore di lavoro per ogni lavoratore assunto;
uno studio commissionato dall’Inps nel 2017 ha valutato gli effetti di lungo periodo del provvedimento del 2002; un anno dopo, su 227 mila lavoratori di 107.000 imprese private emersi in quell’occasione, nove su dieci immigrati lavoravano ancora in Italia; dopo cinque anni erano ancora l’85 per cento;
gli effetti positivi di questa operazione «legalità» per la collettività sarebbero molteplici. Si offrirebbe l’opportunità di vivere e lavorare legalmente nel nostro Paese a chi già si trova sul territorio ma che, senza titolo di soggiorno, è spesso costretto per sopravvivere a rivolgersi ai circuiti illeciti; si andrebbe incontro ai tanti datori di lavoro che, bisognosi di personale, non possono assumere persone senza documenti, anche se già formati, e ricorrono al lavoro in nero (come nel caso del lavoro domestico); infine, con l’emersione si avrebbero maggiore controllo e contezza delle presenze sui nostri territori di centinaia di migliaia di persone di cui oggi non sappiamo nulla, e quindi maggiore sicurezza per tutti, impegna il Governo a valutare l’opportunità di varare un provvedimento che, a fronte dell’immediata disponibilità di un contratto di lavoro, consenta la regolarizzazione dei cittadini stranieri irregolari già presenti in Italia, prevedendo all’atto della stipula del contratto il pagamento di un contributo forfettario da parte del datore di lavoro e il rilascio di un permesso di soggiorno per il lavoratore.

[2] Risposta a interrogazione orale, pag. 22 del resoconto stenografico della seduta della Camera dei Deputati del 15 gennaio 2020: “L’intenzione del Governo e del Ministero dell’Interno è quella di valutare le questioni poste all’ordine del giorno che richiamavo in premessa, nel quadro più generale di una complessiva rivisitazione delle diverse disposizioni che incidono sulle politiche migratorie e sulla condizione dello straniero in Italia

[3] La Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) nel suo XXV Rapporto stima in 562.000 unità la componente irregolare al 1° gennaio 2019, su una popolazione straniera complessiva di 6.220.000 persone.

[4] Dati forniti da Eurostat, ufficio statistiche dell’Unione Europea nella scheda annuale di statistiche in materia di asilo.

L’ipocrita e ignobile canea contro i presunti untori

di Salvatore Palidda

Alcuni quotidiani e tanti benpensanti e paladini della tolleranza zero a ogni occasione sono scatenati nell’additare qualche giovane sorpreso a passeggiare come se fosse un untore. Ma per questi signori è giusto che milioni di lavoratori siano costretti ad andare a lavorare spesso in strutture e con mezzi non sanificati e senza possibilità di precauzioni. E questo vale persino per il personale sanitario che infatti è stato colpito da tanti decessi per contaminazione. Se in Italia abbiamo più morti che in Cina è perché in quel Paese tutto è stato chiuso. A Singapore tutta la popolazione è stata sottoposta a tampone e lo stesso in Corea. In Italia abbiamo invece una impresa di Brescia che vende mezzo milione di tamponi agli Stati Uniti e le autorità lo permettono anziché requisire tale materiale e distribuirlo agli ospedali dove mancano i tamponi persino per i medici (che hanno già avuto 14 morti che si aggiungono a decine di personale sanitario deceduto).

Perché in Italia non sono state chiuse tutte le attività non indispensabili alla cura dei contaminati e alla prevenzione? Perché non s’è fatto come in Cina dove tante imprese sono state convertite nella produzione di materiale sanitario?

La risposta come ben sappiamo è che la logica liberista esclude l’arresto della produzione: l’economia (cioè i profitti) è sacra e questo si premono di dire subito i governi.

Di fatto le autorità sono responsabili della maggioranza dei morti da Covid19 proprio per non aver predisposto le misure di arresto di tutte le attività, per non aver mobilitato tutto il possibile per reperire il materiale necessario, per aver per anni tagliato i fondi alla sanità pubblica e alla prevenzione sanitaria. E questo vale per la maggioranza delle morti da contaminazioni tossiche. Si pensi al caso di Taranto: perché gli operai dell’ILVA non sono stati messi in cassa integrazione tranne quelli da impegnare nella riconversione dell’impresa e nella bonifica del sito? Anche dei bambini morti a Taranto come a Priolo (SR) e altrove i responsabili sono innanzitutto le autorità politiche e istituzionali che dovrebbero garantire innanzitutto la salvaguardia della vita degli abitanti del paese.

Sottoscriviamo gli appelli per la sanatoria degli immigrati e per la regolarizzazione di tutti i lavoratori semisommerso o al nero totale.

UN RACCONTO DI RAFFAELE MANTEGAZZA

Più tardi Stefano avrebbe ripensato a quello scoiattolo che gli stava davanti con il muso alzato e le zampine tese. Ormai di scoiattoli non se ne vedevano più, eppure nei giorni immediatamente successivi alla Cosa il parco ne era pieno. Chiaro, ora, anni dopo, con i livelli che aveva raggiunto di nuovo l’inquinamento era impossibile aspettarsi di incontrarli. Eppure tutti ricordavano il sapore dell’aria dopo la Cosa, il cinguettio di nuove specie di uccellini, quel bellissimo silenzio che finalmente non sapeva più di reclusione. Poi, quasi subito, scoiattoli e uccellini, tutti scomparsi. Ma quello era lì, davanti a lui, e gli tendeva le zampe come se implorasse una nocciola. Poi si dileguò, un lampo rossiccio nel sentiero ormai quasi impraticabile. Più tardi Stefano ci avrebbe ripensato. Ma ora era solo stupito

Rientrato a casa si tolse la maschera antigas obbligatoria e regolò al massimo lo scudo anti-inquinamento dell’abitazione. Non potè fare a meno di sentirsi in colpa come ogni volta che agiva su quel dispositivo, anch’esso “obbligatorio”, che solo il 30% delle abitazioni poteva permettersi. Era stanco, stasera. Non aveva appetito. Aprì un cassetto quasi svogliatamente per preparare la biancheria per la mattina successiva e gli cadde l’occhio su un foglio ripiegato tra i fazzoletti e i calzini. Lo prese in mano e sorrise amaro: era un’autocertificazione, quel documento che ai tempi della Cosa dovevi possedere se volevi uscire di casa. Lo guardò, lo lesse e osservò incuriosito la sua firma di 30 anni prima.

30 anni! Ormai là fuori c’erano due generazioni di esseri umani che non avevano vissuto la Cosa. Ormai tutti la chiamavano così, la Cosa, senza nemmeno ricordare che ai tempi la si chiamava Coronavirus. Una botta terribile per l’umanità: la paura, il panico, le misure di sicurezza, i morti, tanti morti. E poi, a un tratto, più niente. Nel giro di poche settimane il conteggio delle vittime iniziò a calare, poi anche i contagi diminuirono finché lo stato di emergenza fu revocato.

E allora iniziò. Il dopo-Cosa. O meglio, il come-prima-della-Cosa. Perché tutti avevano iniziato non solo a fare esattamente ciò che facevano prima, ma a farlo peggio. Nella prima settimana tutti erano usciti ma nelle resse ai supermercati, nelle curve degli stadi che tornavano a riempirsi, nei parchi straripanti di persone non c’era traccia di quella muta solidarietà che si era propagata ai tempi della Cosa. La gente scalpitava in fila, volavano insulti per i parcheggi, i bar erano stati colonizzati da bande di teppistelli che praticamente non lasciavano entrare nessuno. Allo stadio c’erano feriti ogni giorno perché per gli ultras l’unico modo di recuperare il rapporto con il corpo degli altro sembrava essere la violenza. Gli ingaggi dei calciatori decuplicarono in Italia perché tutti gli assi stranieri che erano fuggiti nei loro paesi durante la Cosa pretesero cifre principesche per poter rientrare. La gente ringhiava, sbavava, urlava. E picchiava.

I vicini di casa che avevano fraternizzato dai balconi cantando “Azzurro” e l’Inno di Mameli iniziarono a non salutarsi come prima della Cosa, ma in quel non saluto c’era una forma di grigio rancore, come se l’intimità condivisa a distanza, l’essersi mostrati fragili, come nudi di fronte agli altro fosse qualcosa di cui vergognarsi, un capitolo della propria vita da considerare chiuso. Il numero di suicidi nel personale medico e infermieristico arrivò a un picco straordinario insieme al calo degli iscritti a Medicina; nessuno voleva essere messo in condizione di fare i sacrifici che medici e infermieri avevano affrontato nei giorni della Cosa.

E la scuola, oh la Scuola! Stefano se lo ricordava Mattia, il suo fratellino di 12 anni. Alla ripresa del nuovo anno scolastico fu un massacro: i professori pretendevano contenuti, chiedevano ai ragazzi se nei mesi della Cosa avessero studiato o avessero poltrito, dettero per scontato quel quadrimestre totalmente perso e soprattutto non domandarono ai ragazzi cosa avevano provato, se e quanto la scuola fosse loro mancata; non presentarono la cultura come un modo per vincere la paura: solo verifiche, interrogazioni, migliaia di test a crocette. L’abbandono scolastico è ormai a una percentuale che non viene nemmeno più calcolata. C’era chi parlavo addirittura di chiudere le scuole, tanto più che ormai i ragazzi ci andavano solo il lunedì e il giovedì e il resto era “didattica a distanza”.

La crisi economica non aveva portato a una redistribuzione dei redditi; sotto la parola d’ordine “vincere la battaglia della produzione” era passato di tutto;: straordinari non pagati, turni massacranti,misure di sicurezza non applicate. Il mondo era diventato una fabbrica, e la questione ambientale venne messa del tutto da parte: gli unici a non rassegnarsi furono i giovani ma per loro erano bastati i soliti manganelli.

E si sentivano sempre più spesso persone lamentarsi: “cosa non darei per passare un mese tappato in casa mia senza neanche aprire la porta!”

Stefano stava per appallottolare il foglio, poi ci ripensò. Era troppo facile immaginare che le cose sarebbero potute andare diversamente. Però ricordava bene che proprio nei giorni più tragici del Coronavirus (adesso basta chiamarlo Cosa!) c’era una speranza, un qualcosa di umano, un senso di fragile fratellanza. Non si sapeva bene cosa fosse, ma era fragile, timido e disperato. Poi tutto era andato diversamente. E Stefano pensò all’improvviso che forse il Virus, in questo modo, aveva davvero sconfitto l’essere umano.

Pensò allo scoiattolo. Così indifeso, così timido, così infinitamente lontano dalla arroganza cieca degli umani.

Seconda e ultima parte (**) del resoconto di viaggio del “cugino di Dizzy”

Anno zero CV martedì

L’isola che non c’è (“Nuovomondo” di Emanuele Crialese)

Il gate apre all’ultimo minuto.

Salgo sull’aereo, mi accomodo, aspetto che tutti siano imbarcati.

Fortunatamente nessuno siede nel posto di fianco al mio, così non sarò costretto ad una involontaria socializzazione in uno spazio ridottissimo, per più di otto ore.

È la prima volta che faccio un volo intercontinentale con British Airways, di solito volo Delta. L’aereo è un Boeing, mentre Delta per queste tratte usa gli airbus.

Devo familiarizzare con il velivolo e soprattutto consultare la lista dei film da vedere. Trovare il modo di ingannare al meglio otto ore di isolamento in un ambiente pressurizzato a diecimila metri di altezza è sempre stata una sfida con me stesso.

Il comandante informa che ci sarà un ritardo di circa 30 minuti a causa di un controllo per possibili problemi tecnici. Ottimo inizio.
Una volta in volo capisco che il servizio di questa compagnia non è a livello di quello di Delta, ma almeno la birra a bordo è buona. Da qualche anno accanto alle birre commerciali come l’immancabile Heineken, tutte le compagnie affiancano sempre qualche prodotto più artigianale.

Ne bevo un paio e poi mi addormento. Sonno leggero in posizione scomodissima. Ma mi serve per recuperare lucidità ed affrontare il passo successivo.

Per entrare negli Stati Uniti devo passare la dogana che di fatto è un interrogatorio lampo fatto dalla polizia locale.

Prendono le impronte digitali e la foto di tutti, cittadini americani compresi.

Il passo più difficile sarà raccontare che sono stato in Italia, ma che mi sento bene e quindi questo dovrebbe bastare per confermare che non ho il CV.
Sbarco e mi dirigo ai cancelli e mentre mi metto in coda ripasso mentalmente quello che andro’ a dire.

Cioè: arrivo da Londra, entro per lavoro, ho un’offerta su Boston per una multinazionale americana delle telecomunicazioni, sono stato qualche settimana in Italia ma sto bene, grazie, e non ho febbre, god bless america, saluti e baci.
Mi tocca la postazione 11, dove trovo Gonzales che ha sicuramente una storia di immigrazione che non è partita dalla ricca Europa bianca.

Vado benissimo, a parte la domanda relativa al mio nuovo lavoro sulla quale alza un po’ la voce perché vuole sapere nel dettaglio di cosa mi occuperò.

Capisco che non gli interessa, quando gli dico quale sarà il mio job title fa un po’ di scena, riguardando passaporto e le altre carte, poi decide che va bene e mi lascia passare. Anche se anacronistico penso che qui potrebbero a breve riaprire Ellis Island.

Vado al nastro, trovo la valigia, esco dall’aeroporto e cerco l’autista che ho prenotato.

Sono stanco e alla domanda sul mio luogo di partenza inavvertitamente rispondo Italia, anziché Londra.

Poco male, lui sembra apparentemente tranquillo e la mia gaffe mi garantisce una doppia fornitura di salviette disinfettanti al cloro. Accende il motore, abbassa leggermente i finestrini per fa passare un po’ di aria e partiamo.
L’albergo della mia autoquarantena è perfetto per me. È un fitness hotel con ampia palestra, possibilità di allenarsi in camera grazie a mini spalliera e fasce elastiche, giornali distribuiti gratuitamente tutte le mattine, ampi spazi comuni dove poter lavorare a distanza di sicurezza dagli altri ospiti della struttura.
Sono contento e stremato. Non faccio una dormita vera da quasi ventiquattr’ore.

Ma la testa mi corre ancora veloce e così decido di narcotizzarla, accendendo la televisione.

British Airways ha appena comunicato lo stop dei voli da e per l’Italia.

Sorrido e finalmente mi metto a dormire.

Anno zero CV mercoledì

Inforcare sempre gli occhiali (“They Live” di John Carpenter)

La prima cosa che faccio quando mi sveglio è ripercorrere nella mia testa tutte le tappe di questo incredibile viaggio.

Sono passato indenne per tre stati, sopra un oceano e soprattutto attraverso una zona rossa e tutto in soli due giorni.

Ora che sono comodamente seduto e non mi devo più spostare, mi focalizzo su me stesso.

Inizio a cercare possibili sintomi del virus, perché chiaramente sono stato esposto e non posso escludere la possibilità di non averlo contratto. E non ho il termometro!

Leggo avidamente tutti gli articoli che ne parlano per fare un’accurata autoanalisi.

Decido che è meglio smettere.

Se stessi male qui non solo non avrebbero la possibilità di farmi il test, ma la cura sarebbe estremamente costosa.

Inoltre, se avessi portato io il contagio nella piccola cittadina a metà tra New York e Boston dove sono in autoquarantena, passerei anche agli onori della cronaca come il caso zero.
Mi chiama un amico per sapere se sono arrivato e se va tutto bene. Gli dico di si, racconto per sommi capi cosa sta succedendo in Europa e manifesto le mie perplessità su come l’attuale amministrazione stia gestendo la cosa qui negli Stati Uniti. Il CV e’ entrato prepotentemente all’interno della campagna elettorale americana quando all’ultima convention Dem tutti i contentendi hanno attaccato Trump per il modo in cui ‘non’ sta gestendo questa crisi: Sanders in prima linea.

Il messaggio trasmesso in diretta nazionale da Trump rivela che il virus è un nemico che viene dall’esterno e che, come tale, deve essere tenuto fuori. Con muri d’acciaio e soldati schierati, forse?

Continuo la riflessione: alzare barriere adesso è troppo tardi perché sicuramente il virus è già molto diffuso, ma non viene tracciato.

Mi si racconta che nella cittadina dove sono in autoquarantena, hanno trovato proprio ieri un rappresentate di classe positivo al CV e ci sono alcuni ragazzi che hanno i sintomi.

Il tapino aveva organizzato una riunione con alunni e genitori giusto qualche giorno fa. Ora tutte le famiglie coinvolte devono fare il test.
Bene, non sarò il paziente zero.

Realizzo che forse non sono io a rappresentare un problema per le persone che vivono qui, ma viceversa.

Sono io che mi devo proteggere da loro, non andando nei bar e socializzando il meno possibile. Devo alzare qualche muro in più rispetto a quelli che ho già alzato in Italia, Milano.

Mi allontano con la sedia dalla scrivania e dal computer, guardo fuori dalla finestra, apro il frigo e prendo una birra. Per non perdere l’abitudine.

L’autoquarantena continua.

(*) la prima parte era qui: Ancora sul corona virus, noi e il mondo

100 effetti positivi di stare in casa per il Coronavirus

di Alessandro Ghebreigziabiher (*)

Di fronte ai momenti più difficili i fatti della vita – la mia, ma anche e soprattutto quella del prossimo – mi hanno spesso consigliato, fortemente esortato, talvolta costretto, a concentrarmi sulla metà piena del bicchiere.
Sovente funziona, perlomeno nello scovare quel minimo di energia per non lasciarsi abbattere più del dovuto.
In alcuni casi, più che individuare e apprezzare il famoso lato positivo delle cose, ci aiuta a prestare attenzione al bicchiere stesso.
Pieno o vuoto che sia.
Già, un oggetto comune e di norma sottovalutato,

il bicchiere, come la maggior parte degli utensili di cui approfittiamo al riparo della consuetudine, tra una pandemia e l’altra.
Come la casa, dove in questo particolare frangente ci troviamo in molti obbligati a restare.
Ebbene, coerentemente con quanto detto, lo faccio per me e per chi legge.
Voglio sforzarmi di elencare il maggior numero di aspetti favorevoli in questa straordinaria quanto necessaria cattività in cui ci troviamo.

1. Costretti in casa abbiamo più tempo per noi
2. Più tempo per parlare con coloro i quali condividiamo il tetto
3. Più tempo per ascoltarli
4. Più tempo per capirli
5. Corriamo di meno e sperimentiamo il valore della lentezza
6. Notiamo per la prima volta dettagli che abbiamo tutti i giorni innanzi agli occhi
7. Finalmente non abbiamo più scuse per aggiustare ciò che è rotto
8. Per dipingere quella parete
9. Per riordinare quell’armadio
10. Per gettare l’inutile
11. E per rimettere a nuovo ciò che è prezioso
12. Possiamo leggere di più
13. Possiamo scrivere di più
14. Possiamo ridere senza doverci sbrigare a smettere
15. Possiamo fare all’amore senza fretta
16. Possiamo fare all’amore di mattina
17. E possiamo fare all’amore nell’istante in cui non l’abbiamo mai fatto
18. Sperimentiamo cosa voglia dire aver paura tutti della stessa cosa ed è reale
19. E magari alcuni la smetteranno di aver paura tutti della stessa cosa, ma che non è mai esistita per davvero
20. Possiamo giocare con i nostri figli senza pensare al prima e al dopo
21. Possiamo giocare con i nostri genitori senza pensare, punto
22. Possiamo giocare con i nostri fratelli e sorelle a tutti i giochi possibili, tanto c’è tempo per ciascuno di essi
23. Decidiamo da soli il nostro tempo
24. Ovvero lo armonizziamo solo con chi desideriamo
25. Ci ricordiamo cosa voleva dire telefonare a qualcuno di lontano, anche solo per sentire la sua voce, perché ora ciò riguarda tutti i nostri amici e conoscenti
26. Siamo costretti a uscire di casa solo per un valido motivo e questo ci impedirà di fuggire, solo di scegliere di andare o meno
27. Con le mascherine diventiamo tutti uguali nell’aspetto, e tutti infinitamente diversi al di sotto, proprio come prima
28. Quando ci avviciniamo alla finestra guardiamo il mondo di fuori con affetto
29. Tutto ci manca, dai raggi del sole
30. Alla pioggia
31. Dalla brezza sul viso
32. Ai sassolini che entrano nelle scarpe
33. Dal buongiorno del vicino prima di riprendere la consueta corsa
34. Al permesso prima di scendere dal treno della metropolitana
35. Prendiamo di meno o quasi per niente l’auto
36. Ergo, non ci stressiamo nel traffico
37. Non litighiamo con gli altri prigionieri di smog e ferraglia
38. Inquiniamo di meno
39. Consumiamo meno petrolio
40. Rallentiamo lo scompenso climatico e il riscaldamento globale, negazionisti o meno
41. Abbiamo perfino il tempo per pensare
42. A ciò che abbiamo detto
43. E a quel che stiamo per dire
44. A ciò che non avremmo voluto fare
45. E a quel che vogliamo fare e non abbiamo mai trovato il tempo di pensarci su
46. Ci capiterà di litigare, ma avremo più occasioni per far pace
47. Ci capiterà di far pace e avremo più occasioni per capire perché avevamo litigato
48. Corriamo tutti lo stesso rischio e, ora, condividiamo tutti il medesimo desiderio di sconfiggerlo
49. Siamo in grado di capire meglio, anche se solo un pochino, ciò che i nostri nonni ci raccontavano sulla paura di uscire di casa
50. Ci dedichiamo a rendere più bella la nostra camera
51. Ci dedichiamo a far lo stesso con quella di chi amiamo
52. Lo facciamo insieme
53. Facciamo di nuovo un mondo di cose assieme, che ci eravamo abituati a far da soli, malgrado vivessimo insieme
54. Come mangiare
55. E sparecchiare
56. Cucinare
57. E lavare i piatti
58. Rimettere a posto i giocattoli
59. O anche solo guardare un film
60. Facciamo cose normali per l’altro che abbiamo sempre avuto accanto
61. Gli laviamo i capelli
62. Glieli tagliamo
63. O semplicemente glieli pettiniamo
64. Gli facciamo un massaggio sulle spalle
65. E gli diciamo cose carine che non gli abbiamo mai detto
66. Perché non c’era tempo e ora c’è
67. Di conseguenza, non ci sono più scuse per non discutere dei problemi di una vita
68. Possiamo concentrarci con calma su molti aspetti della nostra esistenza, di norma abitualmente trascurati
69. I nostri sogni
70. E quelli degli altri
71. I semplici progetti, ma accantonati
72. Quelli impossibili, ma non c’è nulla di male a prenderli sul serio, ora
73. Possiamo pianificare il domani, illuminato dalla luce oltre il tunnel in cui ci siamo rifugiati
74. Sappiamo, finalmente, come vive ogni santo giorno, la maggior parte degli esseri umani
75. Sappiamo, finalmente, perché per la maggior parte di loro la nostra vita di prima sia la luce che  gli manca
76. Impariamo ad aver cura del nostro corpo per aver cura del nostro corpo e non per ottenere un like da chi incontreremo sulla via
77. Cose normali diventeranno straordinarie ed è anche un bene
78. Come fare la spesa
79. Comprare il latte
80. Il pane
81. La frutta
82. L’acqua
83. O perfino una tavoletta di cioccolata
84. Perché, forse, non le daremo più per scontate, quando torneranno solo normali
85. Capiremo meglio perché viviamo con chi viviamo
86. Perché li abbiamo scelti
87. E perché loro hanno scelto noi
88. Perché li amiamo
89. E perché abbiamo smesso di farlo
90. Perché solo così abbiamo almeno una possibilità di ricominciare
91. Perché fermarsi e ricominciare spesso è l’unico modo per smettere di fare gli stessi sbagli
92. Mai come in questo momento siamo stati attenti alle parole di chi ci governa
93. Mai come in questo momento siamo stati attenti alle parole di chi ci governava prima
94. E magari, mai come nel prossimo futuro staremo attenti a chi ci dovrà governare
95. Perché è in questi istanti che si vede chi è affidabile
96. E chi pensa solo a se stesso
97. Un problema comune da affrontare insieme è infinitamente meglio per unirci di un nemico inventato per dividerci
98. Sarà il più banale di tutti, ma questo è il momento migliore per apprezzare il fatto di essere in buona salute
99. Altrettanto scontato, ma vero, siamo vivi e auspicabilmente lo saremo anche quando tutto questo sarà finito
100. Il Coronavirus è democratico, colpisce ricchi e poveri, cittadini di nascita o solo per desiderio, e l’unico modo per sconfiggerlo è rammentarci che a questo mondo siamo in viaggio tutti sulla stessa nave, il cui nome è ancora quello del giorno in cui è salpata

In una sola, ritrovata parola, umanità.

Il video di questo racconto:

(*) da «Storie e Notizie»: numero 1684

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

5 commenti

  • domenico stimolo

    LA NOTIZIA E’ NOTA, un breve commento è doveroso

    Domani mattina ( domenica) arriverà all’aeroporto di Malpensa la “brigata” di sostegno inviata da CUBA.
    Sono 53 medici ed infermieri specializzati. Già nel corso mattinata saranno portati a Crema nell’ospedale da campo al Maggiore, allestito in via Macallè che è stata chiusa al traffico ( ….speriamo che il nome della strada che richiama la sconfitta dell’esercito italiano in Etiopia il 22 gennaio 1986, quando si esportava in armi l’imperialismo italiano in Africa)……porti fortuna ai cittadini di quell’area territoriale drammaticamente esposta alle nefande conseguenze del virus.

    E’ doveroso esprimere solidarietà, amicizia ed affetto ai cubani che vengono in Italia, nello specifico in Lombardia, a portare aiuto concreto, in una fase di grandissima difficoltà.

    Vengono da un paese che da tanti decenni è sottoposto ad angherie ed embargo strutturale dagli Stati Uniti e da tanti altri paesi dell’emisfero ricco capitalista.

    Aspettiamo….fiduciosi, l’arrivo e l’impiego di un significativo contingente di medici e infermieri statunitensi, provenienti dalle varie basi militari dislocati in Italia.

  • Premessa necessaria e doverosa: d’accordo su tutto quello che qui in bottega (e sul sito http://www.comune-info.org) si scrive e si dibatte.
    Consapevole che quanto scriverò qui sotto è una ripetizione di quanto da settimane (!) sto dicendo a chiunque abbia voglia di ascoltarmi, ecco la mia non originale riflessione.
    Al netto di tutte le negatività che si porranno in futuro, questo è il momento di rovesciare il tavolo, pur con sforzi in-umani o sovra-umani ai quali non siamo abituati. E’ quanto ci viene consegnato da questa (modesta) porzione di tempo/spazio.
    Dovremo però fare molta attenzione a contrastare con tutte le nostre forze, sia intellettuali sia fisiche, l’individualismo che ha corroso la società fin nelle fondamenta.
    Bisognerà trovare, pena l’estinzione della specie, altri e diversi parametri di riferimento, soprattutto nuovi. Non sarà facile rimuovere le incrostazioni arrugginite che ostruiscono i nostri canali di pensiero e di comunicazione. Ma non stavamo stancamente aspettando da troppo tempo questo momento?
    Ce la faremo?

    • Daniele Barbieri

      Ha ragione Bianca: «Non sarà facile rimuovere le incrostazioni» che ostruiscono il nostro pensare. Ma se non lo facciamo…. neppure stavolta riusciremo a «rovesciare il tavolo».
      Loro, i potenti, distruggono il pianeta e la salute poi ci dicono che “siamo tutti nella stessa barca”: e tante/i ci credono. Danno la caccia ai maratoneti anche isolati e ai festaioli (alcuni sono stronzi e pericolosi, però non certo il problema principale) mentre lasciano ammucchiati gli operai e gli impiegati ma anche gli immigrati nei luoghi cosiddetti di accoglienza; come i carcerati in celle sovraffollate e da sempre illegali. Il contagio è cosa meno cattiva che limitare i profitti (di pochi) e l’ingiustizia di classe.
      Dobbiamo «rovesciare il tavolo», non dimenticare quello che ci hanno fatto e tutte le infamie di questi giorni.
      E ha ragione anche chi scrive (Antonia Sani per dirne una) che non dobbiamo usare un linguaggio bellico: questa NON è una guerra ma una castrofe indotta da un certo tipo di sviluppo e le responsabilità sono di chi comanda. Non per caso LORO invece parlano di «guerra», è l’unico linguaggio che conoscono e mettono in pratica. Non a caso parole come patria e Italia saltano fuori a coprire infamie vecchie nuove. Come durante la prima guerra mondiale c’è chi in questa catastrofe si sta arricchendo sulla nostra pelle. Facciamo i nomi. E segniamoli sul libro della “resa dei conti”. Prepariamoci. E’ chiarissimo chi sono LORO, ma dobbiamo ricostruire il NOI, quel grande 99 per centro contro l’1% che oggi comanda, fa guerre, uccide il pianeta, avvelena la vita. Dobbiamo organizzarci. PER ROVESCIARE IL TAVOLO. Al più presto. Non abbiamo altre alternative.

  • giuseppe callegari

    Ho letto su “La Stampa” del 21/03/2020 un articolo di Domenico Quirico che critica la faciloneria con cui si appendono cartelli che esprimono la certezza che finirà tutto bene. Condivido totalmente e mi permetto di aggiungere ulteriori considerazioni. Il proliferare di tali cartelli non denota solo faciloneria e infantilismo, ma si coniuga con l’idiozia e il cinismo. Di fronte a migliaia di morti, a migliaia di persone che stanno soffrendo e in un mondo che sembra diventato un gigantesco lazzaretto, dove i monatti, loro malgrado, tagliano gli affetti più cari, si procede con una irriverente e semplicistica pratica masturbatoria. Purtroppo, costoro rappresentano quella parte della società che si definisce normale e I normali sono quelli che camminano con la televisione, si spappolano il cervello con il Grande Fratello o con un talent, sperano nell’occasione della vita partecipando a un quiz ed esercitano la loro libertà appollaiati sopra un albero dal quale osservano il mondo. Da qui, cercano una risposta semplice, schematica e fideistica. Quindi, si spera nella Fata, il Principe, il Gatto con gli stivali, Cenerentola cioè: il lieto fine delle fiabe. E non si accorgono che in questo momento c’è bisogno del dono, ma non è solo il dono materiale o l’elargizione di denaro, quanto la capacità di mettere a disposizione degli altri la propria umanità che non sia confezionata e inscatolata prima di essere offerta, ma, al contrario, si materializzi con la capacità di mettersi in gioco. In pratica, si tratta di accendere una fiammella in grado di illuminare il cammino adesso che la realtà diventa difficile e troppo dolorosa da affrontare. Innanzitutto, bisogna prendere atto e metabolizzare il disastro che stiamo vivendo, evitando gli slogan e i ritornelli delle canzoni che ripetano la stocastica assonanza del cuore che fa rima con amore. Un percorso deve essere quello di capire perché sta succedendo tutto questo. Quindi, sorseggiare dalle labbra degli scienziati, ma non dissetarsi totalmente e cercare anche altre fonti alle quale abbeverarsi. In pratica, si tratta di scambiarsi informazione – per telefono, posta elettronica, internet, da un balcone all’altro, nei fugaci incontri mentre si fa la spesa – e poi dare forma e visibilità attraverso ragionate sintesi. Questa mi sembra l’unica strada per alimentare una speranza che si nutra della capacità di elaborare il presente e di immaginare il futuro svestito da retorica e luoghi comuni. Scriveva magistralmente Dostoevskij “Trascino la mia vita nel mio angolo, tenendomi la maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”.
    E, pensando al presente, credo che solo leggendolo in questo modo, forse “tutto finirà un po’ meno male”.
    P.S. Comunque, una cosa è certa: il Coronavirus non è uscito da un monastero buddista.

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