Corrispondenze dal Newroz

Newrozdi Paolo Pantaleoni dell’associazione ¡A la Calle!

[L’associazione ¡A la Calle! di Rimini è in Kurdistan, tra Turchia e Siria, per partecipare alla delegazione di osservatori internazionali organizzata dall’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia. La delegazione sta affiancando il popolo Curdo durante i festeggiamenti del Newroz, il capodanno curdo, più volte duramente repressi da esercito e polizia Turca. Quella che segue è la prima corrispondenza.]

Lice 16/03/2015

Le pianure della Mesopotamia avvolgono Dyarbakir in un abbraccio che rapisce gli occhi, fatto di infiniti campi di grano ed ulivi minuti, quasi timidi, che riempiono la valle del Tigri e spezzano il profilo imponente dei monti del Tauro Orientale.

Le mura bizantine della città, in basalto di colore grigio scuro, intonate al cielo plumbeo di questi giorni di fine inverno, lasciano presto spazio a palazzoni dalle linee severe e squadrate nati da una speculazione immobiliare figlia legittima del boom economico Turco.

È sufficiente allontanarsi dal centro della città di pochi chilometri per ritrovarsi avvolti dalle distese di grano verde che corrono tutto attorno fino all’orizzonte sormontate dalle cime innevate del Tauro.

Per i curdi Amed, per i turchi Diyarbakir, la città oggi conta oltre 800mila abitanti, molti dei quali esiliati interni dopo la distruzione di centinaia di villaggi curdi nei primi anni novanta da parte delle forze armate di Ankara in tutto il KurdistanTurco.

È la città più grande ed il cuore politico ed economico del Kurdistan Turco.

La città deve il nome alla sua storia fatta di dominazioni, conquiste ed intrecci di storie e relazioni.

Il nome turco, con cui la città è nota, risale alla conquista araba del 639 quando il clan (“banu” significa tribù in arabo classico) arabo dei Banu Bakr prese possesso della città.

I saffavidi di Persia, che da Isfahan controllavano una buona parte del Vicino Oriente e dell’Asia Centrale, la strapparono agli arabi sul finire del XV secolo per perderla a vantaggio dei Turchi Ottomani qualche anno dopo.

Poco alla volta la strada, una striscia di asfalto ampia, ben curata e monotonamente diritta, taglia con il suo grigiore il verde intenso dei campi di grano e sale con dolcezza verso i villaggi curdi dell’area metropolitana di Diyarbakir aggrappati alle pendici di montagne che sono state, e sono ancora oggi, rifugio accogliente per quante e quanti hanno scelto di servire la propria comunità declinando un’idea di giustizia sociale verso cui orientare la lotta.

Durante gli anni ’80 e ’90, questi villaggi, circa 40 km a nord est di Diyarbakir, sono stati il teatro di un feroce conflitto fatto di deportazioni e massacri, confische di terreni e devastazioni, combattuto da uno stato contro un popolo.

Occorre circa un’ora di viaggio per arrivare a Lice.

La striscia di asfalto poco alla volta sale ed i mandorli in fiore e i boschi di roverella prendono il posto dei campi di grano.

I colori che mi circondano sono intensi ed aiutano a fissare i ricordi nella mente.

Il verde rigoglioso che incastona mucche e cavalli al pascolo, le sfumature di un cielo scuro fatto di grigi minacciosi sotto cui si rincorrono i cani pastore che vigilano con fare annoiato sulle greggi di pecore.

Il bianco dei monti innevati dalle abbondanti nevicate di questo inverno dipingono uno scenario quasi alpino.

Ogni tanto lo sguardo viene distratto dal transito dei blindati dell’esercito turco, che procedono in direzione contraria alla nostra.

Arriviamo a Lice dopo un’ora di viaggio, 11mila anime e 15 mila soldati turchi, un centro medico e cinque caserme.

In questo distretto è nato il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, e l’associazione delle idee porta la mia mente a Crossmeglen, nel South Armagh.

Terra di banditi per il governo Inglese e i partiti unionisti e al contempo terra liberata per i repubblicani Irlandesi.

Prima del 1980 erano oltre 50mila gli abitanti di Lice, ma il conflitto ha portato alla fuga di numerose famiglie.

Gli 11 mila abitanti di oggi vivono di un’economia di sussistenza fatta di artigianato, piccolo commercio, pastorizia e agricoltura su ciò che resta delle terre espropriate e riassegnate dal governo turco ai guardiani dei villaggi, o gestite direttamente dai militari.

La lobby militare turca, custode della Repubblica secondo la carta costituzionale, ed anima nera della politica turca dalla fondazione della Repubblica ad oggi è quasi monopolista nella produzione nazionale di hascisc con i cui proventi vengono illecitamente integrati gli stipendi dei militari di stanza in Kurdistan.

Per la legge nazionale turca un terreno privato non coltivato per 20 anni è legittimamente confiscabile senza indennizzo, il che ha consentito dai primi anni ’80 ai militari turchi di gestire illecitamente un immenso patrimonio agricolo come conseguenza della fuga, o dell’espulsione, di molte famiglie curde in altre città o in altre nazioni.

In Bosnia come in Palestina passando per il Kurdistan, la multinazionale dell’esproprio ricava enormi profitti da guerre e occupazioni.

I guardiani dei villaggi sono uomini curdi che accettano di collaborare con le agenzie dello stato turco, in particolar modo con l’esercito, facendo da guide durante le operazioni militari in montagna, fornendo informazioni di vario genere e ricevendo in cambio uno stipendio fisso e la possibilità di coltivare parte dei terreni confiscati e gestiti dalla lobby militare.

I curdi li chiamano utilizzando il dispregiativo giash, traducibile grossomodo con la parola “infame”.

I guardiani dei villaggi li vedi lungo la grande strada che da Diyarbakir scende verso Urfa seduti ai margini della carreggiata fuori da piccoli edifici di pietra.

Sono a tutti gli effetti collaboratori fissi dell’esercito e regolarmente stipendiati ed in questi giorni di Newroz, tengono monitorare le grandi arterie di comunicazione.

Il governo Turco ha utilizzato varie modalità per cacciare la popolazione curda dalle proprie terre. Interi boschi sono stati dati alle fiamme per sottrarre rifugi ai guerriglieri del PKK, villaggi rasi al suolo con i buldozer, o incendiati con gli animali ancora nelle stalle e la popolazione rinchiusa nelle mura di case che sono diventate tombe.

Nel solo 1990 furono 56 i villaggi curdi bruciati. Una pulizia etnica di cui poco si è parlato avvenuta ai confini dell’Europa.

Ancora oggi comitati popolari e familiari cercano le fosse comuni in cui sono spariti migliaia di corpi. Le ultime vittime a Lice sono del 2014, sei ragazzi uccisi con colpi d’arma da fuoco durante una manifestazione contro la costruzione di una nuova caserma nei pressi della città.

I giorni dal 20 al 23 Ottobre del 1993 sono ricordati come i giorni del massacro di Lice.

Il 20 Ottobre, dopo giorni di tensioni tra la popolazione locale e l’Esercito Turco il Brigadiere Generale Bahtiyar Aydın comandante della Gendarmeria  nel distretto di Dyarbakir viene ucciso a Lice in circostanze misteriose probabilmente da altri militari per questioni legate al mercato dell’hascisc ed alle gestione dei terreni e della cava di marmo, anch’essa gestita dall’esercito con dipendenti Turchi fatti venire dall’Anatolia.

Chi aveva pianificato l’omicidio dell’altro ufficiale aveva atteso il riacutizzarsi delle tensioni tra Esercito Turco e popolazione locale.

Il Pkk negó ogni coinvolgimento nell’omicidio di Aiydin, ma ciò non fu sufficiente ad evitare un attacco brutale contro il paese.

Per tre giorni mezzi corazzati turchi scorrazzarono per le piccole strade del paese sparando contro le abitazioni.

Venne imposto il coprifuoco e furono tagliati acqua ed elettricità.

Intere famiglie si ritrovarono prigioniere in casa senza acqua nè cibo per 3 giorni.

All’ombra di un vecchio gelso ascoltiamo il racconto di una testimone attiva nel comitato delle donne del paese.

Il 24 Ottobre dopo tre giorni di attacchi 38 civili avevano perso la vita e 400 abitazioni erano state bruciate.

Di storie ed episodi analoghi ce ne sono decine, ciò che sorprende è la determinazione di questa gente che riesce ad essere dura senza perdere la tenerezza, che prova a parlare al mondo dalla solitudine di un villaggio di montagna, che difende valori universali contro chi pratica l’intolleranza, da Lice a Kobane, sotto bandiere che suscitano emozioni e scaldano i cuori. (Continua)

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Per contattare l’associazione ¡A la Calle!: apsalacalle@gmail.com.

alexik

Un commento

  • Daniele Barbieri

    Mentre Alexik postava la prima puntata di questo reportage – lunedì pom trovate in «bottega» la seconda che è già arrivata – io fra un treno e l’altro non trovavo, in tre giorni, il tempo di far circolare questo msg sempre dal Newroz. Eccolo… in ritardo. (db)

    Carıssıme e carıssımı, fınalmente rıesco a farmı sentıre. Il viaggio sta andando più che bene e la combattività del popolo kurdo ci pare notevolmente aumentata. Abbıamo vısıtato un prımo campo profughı di kurdi yezıdı scampatı ai massacri di Shengal e sentito le loro testımonıanze e ı loro drammatıcı racconti. L’ISIS ha uccıso, rapito, taglıato teste, vıolentato e vendute le donne come schiave. «Noi ci siamo salvatı grazıe a Dıo e al PKK».
    Abbiamo partecipato al primo Newroz su una collinetta dı PIRSUS (SURUC) a tre-quattrocento metrı dalla perıferıa dı Kobane. Un confıne ınvalicabile anche per noı. Ci siamo rıpromessi di tornare alla carica per ıl 22. Hanno impedito il passaggio anche a una delegazione che da Kobane avrebbe voluto unirsi a noi. Ma da Kobane ci hanno comunque salutato con un grande falò e con il lancıo dı pallonı colorati che sono velocemente volati verso l’alto.
    Abbiamo visitato LICE e il cimitero degli eroi, costruito dalla popolazione e costantemente sorvegliato dagli abitanti che si danno il cambio.
    Abbıamo partecıpato ai newrov di Karlowa e Bingol dove siamo stati ınvıtati sul palco per portare ıl nostro saluto continuamente interrotto dalle ovazioni di una folla straordinaria.
    A Karlowa abbıamo ıncontrato prıma la copresıdente dell’HDP e poi il co-presıdente. La prima ci ha raccontato dı aver perso un fıglio proprio nella difesa di Kobane. Poi il presıdente, comunicandoci di aver perso anche lui un fratello a Kobane, ha aggiunto: «se questo è il prezzo che dobbiamo pagare per la democrazia, siamo disposti a pagarlo».
    Un solo posto di blocco con ıdentıfıcazıone dı tutti ı passeggeri del nostro pullman, nessun ımpedimento per l’accesso ai Newroz. La polizia c’era ma senza nessuna ostentazione e i blındati turchi erano a distanza e non visibili dalla piazza. Una folla brulıcante dalla mattina al pomeriggio ha inneggiato al leader Ocalan («Biji serok Apo» cioè viva il presidente Apo), alle armate dı difesa del popolo nel Rojava a Shengal e a Kobane: «Biji YPG» (viva le armate maschilı) e «Biji YPJ» (viva le armate femmınılı).
    Vısıteremo Karakoçan, dove saremo ricevuti dalla munıcıpalità, poi saremo al grande Newroz di Diarbakir (Amed per i kurdi) poi nuovamente a Suruc e, speriamo, a Kobane. Poi a casa.
    Antonello

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