Cosa fare per lo Stato

di Mauro Antonio Miglieruolo
Capita spesso di veder fiorire sulla bocca degli ingenui o molto disonesti la famosa locuzione, invalsa nei tempi dei tempi kennediani, non chiederti cosa possa faro lo stato per te, chiediti cosa puoi fare tu per lo stato.


Un invito nobile e persino commovente. Invito al bene comune che, fosse stato pronunciato da un qualsiasi politico meno sacralizzato, gli avrebbe già meritato la strisciante accusa di inclinazione al bolscevismo; ma che essendo per altro adatto a prevenire ogni richiesta di soddisfacimento di bisogni è finito con il passare senza colpo ferire.
Ho sempre ascoltato, come si evince facilmente da quanto fin’ora detto, con sospetto la formulazione di questo invito. Forse perché non mi passa neanche per l’anticamera del cervello chiedermi cosa possa fare io per questo stato (a parte difendermi, si capisce: ed è già fare moltissimo, eccedente purtroppo le mie possibilità: chi ha infatti abbastanza forza per difendersi, anche collettivamente, dallo strapotere e dalla inclinazione a delinquere di questo nostro stato, come di qualsiasi altro stato?). Forse perché constatavo che a usarlo erano di preferenza persone lontane dai valori comunitari, anzi spesso attestate su posizioni di estremo irragionevole individualismo (esseri asociali che amano nobilitarsi definendosi liberisti). I quali lo accompagnavano volentieri con rampogne sui (totalmente presunti) privilegi di cui godrebbe la povera gente (il privilegio di essere povera?) e decoravano con lamentele sull’avidità degli stessi e sull’eccesivo costo del lavoro (mio Dio! Ma gli capita mai a questa gente di dare un’occhiata – con sguardo sincero – alle buste paga dei lavoratori?). Per costoro sarebbe suntuoso un salario di mille euro e appena sufficiente, degno dei loro meriti, uno di mille volte la posta. Poiché i primi si limitano a produrre tutto ciò che serve all’insieme sociale per poter continuare e i secondi a porre le condizioni ideologiche e materiali per impedire loro di rendersi conto che meritano tutto, che gli spetta tutto, e non solo il poco di cui pure, non fosse per gli eccessi estremistici di sfruttamento, oppressione e alienazione che subiscono.
Viene da chiedersi allora cosa dovrebbe fare di più per il proprio paese chi già fa tanto e subisce dieci volte tanto, ottenendone in cambio di che appena sfamarsi e il rimprovero di quanto sia di peso questo loro sfamarsi. Cosa dovrebbero di fare di più che sopportare i figuri in ghingheri, cravattino a farfalla o volti scavati finto proletari, che irosamente o con espressione grave teorizzano la necessità di estorcere ulteriori sacrifici a chi già ne fa tanti: dopo che subiscono il quotidiano ricatto del licenziamento, la crescente mortificazione del precariato, la spinta quotidiana alla paura, l’autoritarismo da caserma vigente all’interno di ogni unità produttiva o di erogazione servizi (alla pur limitata democrazia formale è sostanzialmente sbarrato l’ingresso sui luoghi di lavoro, dove il padrone è re), sotto la minaccia costante dell’incontinente manganello delle cosiddette forze dell’ordine.
Cosa dobbiamo dare di più a chi, sin dalla nascita, ci chiede, anzi ci costringe in ruoli che contrastano con le aspirazioni fondo dell’essere umano (la libertà-felicità), che ci impone cosa consumare, come consumarlo e ci beffa facendo continuo appello alla richiesta fedeltà allo stato (alias i loro privilegi, le loro pretese).
Cosa ancora se dopo aver pagato le tasse chi vuole godere di qualche servizio se lo deve pagare di nuovo, oppure rinunciare a averlo. Anche i servizi più piccoli e minuziosi, quali a esempio tenere pulito il marciapiedi antistante il proprio negozio (succederà un giorno che i piccoli commercianti si renderanno conto che sono anche loro sulla stessa nostra barca, barca che sta affondando?) sono a nostro completo carico, nonostante sia stati pagati e profumatamente. Cosa pretendete voi che gettate al vento i soldi di cui vi siete impadroniti per mezzo di un fisco pazzo e criminale, che con ammirevole disinvoltura ve li mettete in tasca o li dilapidate in mille modi tra i quali il più vergognoso è dato dalle guerre insensate alle quali partecipate pur sapendo che sarebbero proibite e che per poterle continuare, da bravi imbroglioni quali siete, definite “pace”? (ma che spudorati!)
Per favore, smettete di intonare questa eterna canzone di cosa debbo fare io per voi (voi stato). Suona all’orecchio falsa, sgraziata. Suona per quello che è: il rifiuto preventivo di prendere atto delle nostre esigenze, di affrontare e risolvere i problemi che voi stessi avete creato. Il rifiuto persino di ascoltarci.
Altrimenti, se vorrete insistere, come temo farete, ci costringerete a un passo avanti e, pur con grande sacrificio e patemi d’animo, ponderare la necessità di fare dell’altro per il paese che ci ha dato i natali.
Non tanto. Né troppo. L’essenziale. Una sola cosa. L’unica che valga. Quella di cambiarlo. Liberandolo da corruttori e corrotti, dai Datori di Miseria e di Disoccupazione, da profittatori e affaristi, imbroglioni e ladri di stato in genere. Un bel ripulisti, retata con i fiocchi. Incrociando le braccia e abbaiando una volta tanto anche noi (bisogna saper imparare dai nostri nemici) fora dai ball!
Sì, questo possiamo fare.
Tra le tante questa è l’unica che fin’ora ci siamo risparmiata. L’unica che avremmo dovuto già fare e fatto volentieri.
Non è detto che già domani non faremo.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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