Cosa può insegnarci la fantascienza

Intervista di Michele R. Serra a Daniele Barbieri (*)

La letteratura fantascientifica aveva un impatto potentissimo sull’immaginario popolare, oggi il genere è residuale, impolverato. Eppure all’interno di quella narrativa si trovano sogni e simboli da conservare e riscoprire. Anche in chiave pedagogica, per aiutare i ragazzi a “pensare al futuro” e addirittura a riflettere sull’identità di genere. Abbiamo intervistato uno scrittore e un professore di pedagogia, autori di un recente libro sul tema, per saperne di più

di Michele R. Serra

Il futuro non è più quello di una volta, dicevano i poeti già negli anni Trenta. Oggi sembra una profezia, almeno se si guarda alla letteratura fantascientifica: una volta aveva un impatto potentissimo sull’immaginario popolare, oggi il genere è residuale, impolverato. Eppure all’interno di quella narrativa si trovano sogni e simboli da conservare e riscoprire. Anche in chiave pedagogica. Che suona strano: cosa può insegnare, la fantascienza? Secondo Daniele Barbieri, giornalista e scrittore, e Raffaele Mantegazza, professore di pedagogia all’Università di Milano, molto.

«Abbiamo provato a raccontare le storie che amiamo e a rifletterci sopra – spiega il primo – perché progettare i futuri, immaginarli, oggi è immensamente importante. Viviamo in un iperpresente che non offre alternative, ci presenta il domani come prosecuzione dell’oggi. Invece la fantascienza può aiutarci a immaginare altri futuri».
Educare una nuova generazione a pensare al futuro, quello vero. Senza dubbio si tratta di pensiero positivo, che di questi tempi non è poco. Barbieri e Mantegazza l’hanno trasformato in una doppia analisi delle traiettorie simboliche della science fiction, un saggio scritto a quattro mani:
Quando c’era il futuro, editore Franco Angeli. Anche se Barbieri è il primo ad ammettere che, beh, il genere non sembra essere granché di moda: «Un giorno ero in una libreria, ho chiesto al gestore come mai non ci fosse uno scaffale dedicato alla fantascienza nel suo negozio. Quello ha allargato le braccia, e mi ha risposto: la gente ha paura del futuro. Ok, probabilmente si tratta di una spiegazione semplicistica, però viene ripetuto ai giovani come un mantra: voi starete peggio dei vostri genitori… una qualche ricaduta dev’esserci! Io ho sessant’anni, e per la mia generazione è un discorso sorprendente. A noi i genitori dicevano sempre che le cose sarebbero andate meglio. E anche i politici, pur se non saprei dire se fossero convinti o semplicemente mentissero. Oggi la politica sembra chiedersi solo, citando Jim Morrison, se sia meglio una fine spaventosa o uno spavento senza fine».

Ma come può la fantascienza aiutare le nuove generazioni, spazzando via nebbie che impediscono di guardare verso il futuro? «La fantascienza è estremamente attuale, anche quella di più di mezzo secolo fa. Perché racconta l’invasione tecnologica, cioè il fatto che più di ogni altro ha caratterizzato la cultura dell’ultimo secolo e continua a caratterizzare quella contemporanea. All’inizio del Novecento questa invasione era considerata un fatto positivo, soprattutto dalle élite culturali, e la fantascienza ha fatto da specchio a questo ottimismo. Poi le cose sono andate diversamente, e siamo passati attraverso una fase di pessimismo a tratti anche esagerata. Oggi viviamo un momento ibrido, nel quale il problema principale è rappresentato dal nostro rapporto magico con la tecnologia, una specie di tecno-voodoo: dovremmo avere una conoscenza di base delle regole minime dei ritrovati tecnici con i quali abbiamo a che fare tutti i giorni, e invece niente… Il nostro atteggiamento è completamente passivo! La fantascienza può aiutarci a recuperare uno sguardo attivo sul mondo che ci circonda. Anche esorcizzando alcune paure». Già, le paure. Pensare alla fantascienza per molti significa ricordare racconti in cui la terra si trova sull’orlo dell’apocalisse. Eppure anche il tema apocalittico può avere un valore pedagogico, secondo Barbieri: «La science fiction ci ha messo in guardia da passaggi storici pericolosi, primo tra tutti la guerra nucleare. Uno dei padri dell’atomica, l’ungherese Leo Szilard, scrisse racconti di fantascienza per dare corpo alle sue preoccupazioni nei confronti della sua stessa creatura. Nel libro però cerchiamo di spostare un po’ la prospettiva: ci siamo chiesti se la catastrofe non potesse diventare un nuovo inizio, e così ci siamo accorti che la fantascienza dice spesso che la fine del mondo annunciata, è appunto, solo annunciata. E può essere evitata».
Vero che, in fondo, la paura della fine del genere umano e dell’annientamento totale (oggi forse più focalizzata sulla catastrofe ecologica che su quella nucleare) sembra lontana dai nostri pensieri quotidiani. Il nostro inconscio è scosso da paure più profonde e personali, ad esempio quelle che nascono all’interno della famiglia. Anche quelle messe in scena, e poi esorcizzate, nel racconto fantascientifico.
«Nel film L’invasione degli ultracorpi, dentro le cantine di case apparentemente normali dormono gli alieni destinati a sostituire noi umani. Riposano all’interno di strani contenitori simili a grossi baccelli… Io ho un figlio di vent’anni, e ogni volta che lo vedo fare qualcosa che appare strano ai miei occhi, vado di sotto a controllare se per caso non ci sia da qualche parte un baccellone, se non sia lui uno di quegli alieni (ride)… È una metafora eccezionale della paura che i genitori, o almeno molti di noi, hanno nei confronti dei figli: loro sono spesso incomprensibili, e mentre noi invecchiamo diventano sempre più belli e forti, pronti a sostituire i nostri corpi e i nostri valori con i loro. Non è un caso se nella saggezza popolare tuttora si sente dire “alleva corvi, ti beccheranno gli occhi”. Non c’è da stupirsi se la letteratura fantascientifica presenti spesso racconti nati dalla paura dei figli. Ma esistono anche esempi positivi: il più estremo è rappresentato da La strada di Cormac McCarthy, in cui un rapporto padre-figlio estremamente difficile a causa delle circostanze, diventa atto di eroismo. Metafora paradossale ed esagerata, ma calzante».
Nonostante Barbieri e Mantegazza siano piuttosto convincenti nel mettere in fila i motivi per cui la fantascienza può essere utile all’educazione di una nuova generazione,
ci rimane l’idea che su un argomento le prospettive del genere rimangano limitate: il rapporto tra maschile e femminile. Dipenderà forse dal fatto che la maggior parte degli scrittori sono maschi? «In effetti l’unico tema su cui la fantascienza si è imposta una censura nel corso degli anni è il femminile, al punto che nell’epoca d’oro del genere molte scrittrici sono state costrette a usare pseudonimi maschili. Però le cose sono cambiate. Ursula Le Guin a esempio è considerata la prima rappresentante della fantascienza cosiddetta femminista: ne La mano sinistra delle tenebre, scritto già alla fine degli anni Sessanta, descrive alieni che ogni sei mesi cambiano sesso, e in quello stesso momento sono soggetti a gravidanze. Credo sia un buon punto di partenza per riflessioni che vanno ben oltre la fiction. Ma la fantascienza è utile per la riflessione sull’identità di genere, anche perché è capace di allargare il campo: ad esempio Philip K. Dick ha messo sulla pagina diverse considerazioni interessanti sull’identità umana. La più radicale è quella che spiega come ciò che distingue l’uomo dai sassi non sia il potere che può raggiungere all’interno di un sistema sociale ma la gentilezza. L’uomo è destinato a cambiare, a diventare sempre più cyborg, magari a ibridarsi con qualche alieno, chissà. Ma la capacità di ascolto e di aiuto nei confronti degli altri ci distinguerà sempre». E in effetti, se l’educazione in senso pedagogico è capacità di relazione con l’altro da sé, è difficile trovare un pensiero più educativo di quello di Dick.

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(*) Nello speciale Natale on line di «Repubblica» Michele R. Serra (non è quel faaaamoso Michele Serra ma un omonimo) mi ha intervistato su «Qcif». Ecco il suo articolo, uscito con il titolo – tipicamente da «Repubblica«», dunque scemino – «A lezione dai mostri». A parte il titolo, che di solito non è deciso dall’autore dell’articolo, devo dire che Michele R. Serra (buffo, anche io ho un omonimo illustre ma senza R in mezzo) ha lavorato bene sulla nostra lunga chiacchierata. E di questo lo ringrazio perché significa intelligenza e fatica. Tre sole riserve: certamente non ho detto la frase «soprattutto dalle élite culturali»; la frase «è completamente passivo» fa pensare che sia una scelta delle persone mentre io considero questo “analfabetismo tecnologico” soprattutto una imposizione, una politica dei Palazzi; ho parlato di paure nella fantascienza ma anche di desideri però questo secondo tema è svanito (immagino per problemi di spazio). La sintesi finale dà valore a uno dei tanti Dick, quello positivo, ma gli altri Dick non si dispiaceranno. Il sommarione – per esperienza so che anche quello di solito non è scritto dall’autore dell’articolo – suggerisce che sia stato intervistato anche Raffaele Mantegazza e invece non è così: ero solitario e un po’ triste sì, ma non final, per dirla alla Soriano; lo scrittore, non il gatto. (db)

 

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Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

4 commenti

  • C’è molto, molto di vero in tutto quello che è scritto qui sopra. Occorrerebbe guardare al futuro con altro spirito. Personalmente, come scrittore di sf, sono direttamente coinvolto nella questione. Purtroppo, per quanto io mi sforzi, al momento non mi sentirei affatto di scrivere nulla di simile ai racconti che scrivevo molti anni fa. Oggi il futuro davvero sta precipitando. Ciò che accade in tutto il mondo è una enorme catastrofe politica, etica, culturale, finanziaria, ambientale, e il peggio è che in verità nessuno sforzo finora riesce a smuovere una virgola, anzi telegiornali sfornano quotidianamente un crescendo di soprusi, corruzione, delinquenza, ignoranza, mafia e catastrofi ambientali. Scrivere di un futuro ottimistico? Onestamente non ci riesco. Mi sembrerebbe di barare, o di prendere per i fondelli il lettore, o di scrivere non fantascienza ma favolette, dove – ma sì, siamo ottimisti – tutto finisce con il trionfo del Bene. Sarà presunzione, o una goccia nell’oceano, ma forse cercare di anticipare o sottolineare o amplificare in una narrazione le prossime possibili conseguenze – dico “forse” – grazie alle formidabili potenzialità della fantascienza, può aiutare a riflettere su cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere.

    • mi toccherà riflettere a lungo su quanto scrive Vittorio Catani, saggia persona oltre che grande scrittore. Il mio “pessottomismo” però almeno una frase (rubata a Fatema Mernissi ma ha un’aria vagamente fantascientifica) la vuole sussurrare: «C’è sempre un pezzettino di cielo verso cui alzare la testa».

  • Uhm bellissima intervista e poi condotta dal uno dei mitici autori di Nathan Never è assolutamente sublime.
    Purtroppo la radice del pessimismo affonda in ben altri luoghi, addirittura nell’inconscio collettivo di cui tanto parla lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung.
    La visione apocalittica, che anche la fantascienza esprime, non è altro che la concretizzazione di uno dei fondamentali archetipi collettivi, il vissuto da fine del mondo, tipico per esempio di una personalità schizofrenica.
    Tale archetipo lo si vede concretizzato ancora prima della fantascienza, tutta la letteratura romantica tedesca e francese ne è piena, andando più indietro troviamo la visione escatologica del cristianesimo, di stampo pessimistico per quanto riguarda Agostino di Ippona e più ottimistico con la scienza teologica di Tommaso d’Aquino.
    Una visione che soppianta il modo circolare di vedere la storia, di cui sono massimi esponenti gli storici greci tucidide e polibio.
    Platone pone in luce un modo circolare dell’esistenza, Aristotele parla del primo motore,
    I presocratici come Empedocle vede nelle forze dell’amore e dell’odio il modo razionale del divenire. Democrito pone il mondo al cieco e meccanicistico caso.
    Tutto questo per dire che la forte natura terapeutica della fantascienza è assolutamente chiara, come affermano anche Barbieri e Mantegazza.
    Jung parla di un archetipo collettivo che nel tempo è diventato sempre di più una legge psicologica ineludibile, la diade della costellazione dei Pesci.
    Essa riassume il principio di creazione/distruzione, presente in modo simbolico in tutte le culture del creato, come il diluvio e altri.
    Non per nulla, non a caso, lo scrittore Philip K. Dick era molto junghiano, un aspetto purtroppo trascurato dai suoi stessi studiosi, tranne Norman Spinrad, che lo conosceva bene e che aveva fatto tesoro dei suoi insegnamenti che Dick aveva rilasciato in una intervista, quando esortava i giovani scrittori a studiare i testi di Jung.
    Le visioni apocalittiche di Dick sono note, compresi i suoi interventi più filosofici, come il bellissimo “Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni”.
    La realtà che ci viene propinata ogni giorno, come fa notare Vittorio Catani, non è altro che un sistema per creare la psicosi adeguata affinchè le persone siano sempre calati in uno stato di emergenza e possa regnare solo paura, diffidenza e rabbia, che si tramuta poi nella malattia sociale e politica profonda.
    Un popolo si sa come risponde in questa situazione, ce lo ha insegnato la Storia, e i Furbi Lupi lo sanno anche troppo bene e agiscono di conseguenza per consolidare la supremazia ai danni del gregge di cui si nutrono.
    In realtà le visioni apocalittiche della fantascienza non sono altro che le concretizzazioni simboliche dell’inconscio collettivo calato in un ambiente reso sempre più alieno.
    Controllo psicologico e controllo dell’ambiente.
    La fantascienza non ha solo una forza pedagogica, ma filosofica e terapeutica, riesce a far girare la testa a coloro che sono imprigionati nella caverna platonica a vedere solo le ombre (oggi le ombre le producono i media e altri personaggi del Quarto Potere Mafioso) e con difficoltà li fanno uscire alla luce.
    In effetti il pessimismo e l’iperpresente in cui si condanna l’umanità non è altro che la schizofrenia indotta, un vissuto di fine del mondo che fa paura.
    E che permette il controllo.
    La fantascienza è un processo simile al vedere il mondo delle idee nel modo corretto, per rischiarare la mente.
    Senza implicazioni divine, come purtroppo tendono ad interpretare il 90% degli studiosi di Platone, e non parlo solo dei sagaci critici italiani della scuola di Giovanni Reale.
    Platone e Philip Dick sono fratelli in pectore. E hanno ben capito che Joe Protagoras non è morto… si è solo trasformato.

    • tutto molto interessante (come sempre) pur se io non condivido tutto (come quasi sempre): temo però che FFF&FF, ovvero Fabrizio Fantastico Filosofico & Frenetico Frettoloso, abbia commesso un errore: qualcosa tipo confondere Serra con Medda e/o Michele con Antonio o robe del genere. Tutto questo non intacca il ragionamento ma a ogni Serra il suo fiore, insomma a ciascuno il suo.

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